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Il fascino di Hannah. Per un itinerario nel pensiero di Arendt

di Mario Cutuli - 07/05/2009



1. Perché Arendt?
Si sappia o no, si voglia o meno, Hannah Arendt è comunque una protagonista del secolo appena chiuso.
Una protagonista, nonostante la sua riflessione si moduli su toni apparentemente dimessi, ma non per questo privi di
una carica sempre dirompente, come si conviene a chi propone una lettura lucida di eventi e situazioni spesso
drammatici e penetra i fatti per coglierli nella loro realtà più cruda.
Arendt conosce l'avvento della logica totalitaria e del suo naturale supporto, la società cosiddetta “di massa”, dentro la
quale l'uomo si deresponsabilizza riducendosi a semplice ingranaggio.
Arendt sperimenta sulla propria pelle il peso dell'antisemitismo.
Arendt, con straordinaria tempestività, intuisce e denuncia il rischio del dominio incontrastato della tecnica che pensa la
realtà “in termini di leggi manipolabili a piacere” e trasferisce “alla competenza dello scienziato l'attività teoretica”,
come precisa Laura Borella, attenta studiosa del mondo di Arendt.
Di questa intellettuale “apolide del pensiero”, come la definisce Alessandro Del Lago, che si è formata con la guida di
Jaspers ed Heidegger, di questa ebrea che sposa un ex spartachista e non nasconde l'ammirazione per Rosa Luxemburg
che dello spartachismo è l'anima, di questa donna che non sa sottrarsi alla seduzione, non solo intellettuale, di
Heidegger (“Nello scroscio di pioggia sulla via del ritorno eri ancora più bella e maestosa e avrei voluto trascorrere
con te tre notti intere – le scrive Heidegger al quale Hannah risponde “Ti amo, ti amo, ti amo; se c'è un dio ti amerò
meglio dopo la morte”); di questa donna che sfugge ai possibili cliché femminili, spesso vittima di pregiudizi e
fraintendimenti, così profonda, ma anche cosi discreta nelle sue credenze religiose, negli anni sessanta si sapeva poco.
Fortunosamente evasa dal campo di raccolta di Gurs in Francia dove aveva riparato dopo l'ascesa di Hitler, Arendt cerca
scampo prima in Portogallo e poi negli Stati Uniti dove, in un clima di forte diffidenza nei suoi confronti, medita il
proposito di rifondare il concetto di politica non più interpretata in termini di dominio, ma di libertà e di recuperare
quella politeia perduta con l'avvento della società di massa e dei suoi connessi meccanismi.
Funzionali a quest'obiettivo sono opere quali Le origini del totalitarismo (1951), The Human condition, in italiano
tradotto con il titolo Vita Activa, (1958), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) e quindi Politica e
menzogna (1969) e La disobbedienza civile (1970).
Postumi - incompleto il primo - appaiono La vita della mente (1978) e nell'82 Lezioni sulla filosofia politica di Kant.
Si tratta di scritti, spesso letti con un atteggiamento non sgombro da sospetti ideologici e politici che hanno fatto della
Arendt ora una transfuga dell'ebraismo, ora un'esponente di sinistra o addirittura di destra...
Ma forse non tutti hanno capito o accettato la sua denuncia circa certe ambiguità di alcune comunità ebraiche nella lotta
contro il nazismo o l'accostamento di Stalin con Hitler, perché il totalitarismo non ha colori: stesso è il progetto, stessi
sono i metodi, stessa è logica liberticida.
Hannah muore a 69 anni, nel 1975, non prima però di poter assistere, anche se in parte, alla valorizzazione
della sua ricerca, del suo impegno appassionato e sentito.
Troppo poco per ripagarla pienamente per quello che effettivamente avrebbe meritato prima.
2. Libertà e Politica: liberty o freedom?
Il recupero della politeia perduta, la riappropriazione del concetto di politica ormai drammaticamente perduta, è
probabilmente il tema conduttore dell'intera riflessone di Arendt.
Un'operazione possibile riappropriandoci dell'identificazione, propria della polis greca, della libertà con la politica: l'una
è la ragion stessa dell'altra, anche se erroneamente si è propensi a credere che la libertà cominci dove finisce la politica.
E' la tesi che fa da supporto ai saggi quali Tra passato e futuro, apparso nel 1961 e Sulla Violenza, scritto dopo la
contestazione studentesca del 1968.
L'errore più clamoroso della tradizione teosofica, come si può dedurre, ad esempio, dalla proposta etica propria del
cristianesimo, è stato per Arendt quello di aver interiorizzato la libertà intendendola come una vera fuga dal mondo, una
questione prettamente individuale, quasi un ostacolo alla vita puramente contemplativa.
Termini come liberty e freedom sono stati erroneamente ritenuti sinonimi, ma in realtà indicano due concetti
radicalmente opposti: il primo concettualizza la libertà politica, il secondo l'affrancamento della politica come
suggerito, almeno nei primi secoli della sua diffusione, dal cristianesimo: “L'idea cristiana di libertà politica, si legge in
Tra passato e futuro, nasceva dal sospetto e dall'ostilità con cui i primi cristiani guardavano alla vita politica in sé e
per sé; e per essere liberi volevano essere sciolti dagli impegni e dalle cure di tale vita..... La libertà cristiana
perseguita per amore della salvezza eterna, seguiva il ritiro dalla politica, praticato dai filosofi come condizione
preliminare alla forma suprema e massimamente libera, la vita contemplativa”.
Vero è, invece, che gli uomini sono liberi nel momento in cui agiscono, perché essere liberi ed agire sono le stessa cosa:
la tesi di fondo della concezione liberale “quanto meno politica, tanto più libertà”, è errata e pericolosa; più ci si libera
dalla politica più si rinuncia al quel bios politikos che insieme alla razionalità connatura la nostra essenza.
E il recupero della politeia perduta comporta, per Arendt, anche la ridefinizione del concetto stesso di potere, in
particolare del rapporto tra comando e obbedienza.
Il potere politico non può essere il dominio di un individuo: “Potere, scrive Arendt, corrisponde alla capacità umana
non solo di agire, ma di agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e
continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito... Nel momento in cui il gruppo, dal quale il potere ha avuto
la sua origine iniziale (potestas in populo, senza un popolo o un gruppo non c'è potere), scompare, anche il suo potere
svanisce....Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire di concerto.
Muovendo da queste premesse si possono ricostruire le opere più note di Hannah, a partire da quella che per la prima
volta l'hanno segnalata al vasto pubblico.
3. Il totalitarismo e l'impossibile reso possibile
“Le origini del totalitarismo” appare nel 1951, ma è proposto nella sua interezza in Italia nel 1967.
Si tratta di un testo che va ben oltre il semplice tentativo di comprendere quanto accaduto perché “comprendere per
esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle non basta”, annota la stessa
Arendt.
Tra le corpose pagine del testo si avverte il bisogno di dimostrare di quante garanzie abbia bisogno, anche in futuro, la
dignità umana per la sua stessa sopravvivenza; di quanto sia indispensabile un nuovo principio politico, una nuova
legge sulla terra, destinata a vivere per l'intera umanità perché “le soluzioni totalitarie sono destinate a ripresentarsi
ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica sociale ed economica in maniera degna dell'uomo...”
L'architettura del testo è assai lineare.
Sullo sfondo della crisi del liberalismo, della la nascita della società di massa all'interno della quale l'individuo si
annulla e si deresponsabilizza, della degenerazione del concetto di nazione che lungo il XIX secolo smarrisce i
connotati romantici, Arendt propone il susseguirsi di tre parti: l'antisemitismo, ritenuto la premessa del totalitarismo,
l'imperialismo - non la semplice conquista - e il totalitarismo, non la semplice dittatura.
Le fitte pagine nelle quali il lavoro si risolve sono legate insieme dal motivo ricorrente che sembra aver ispirato tutto il
disegno: il totalitarismo è la prova di quanto deleterio sia per l'uomo l'affrancamento dalla politica, la dimostrazione di
quanto una società di massa soggiogata dal carisma di un dittatore annulli l'individuo nella sua prerogativa razionale
rendendolo un inconsapevole e cosciente esecutore.
Distinto il totalitarismo da altre forme politiche solo apparentemente simili - come il dispotismo, la tirannide e la
dittatura - che non prevedono la mobilitazione delle masse e l'illusione data a queste ultime di essere protagoniste
quando sono invece semplici comparse; ricordato non solo l'inscindibile legame del totalitarismo con la società di
massa, ma anche il suo carattere assolutamente originale tale da sfidare le leggi positive ma di non agire senza la guida
di una legge, né di agire in modo assolutamente arbitrario, Arendt ne descrive le caratteristiche.
Nella convinzione di essere latore di un messianismo politico, nel pregiudizio di “aver trovato il modo per instaurare
l'impero della giustizia sulla terra”, il totalitarismo promette l'avvento di una nuova società destinata a vivere in pace
una volta scomparsa finalmente ogni traccia di nemici interni ed esterni.
Ecco perché, giustificando l'ideologia imposta, il partito unico, il capo e il terrore, il totalitarismo mira a fabbricare un
tipo di uomo che non esiste, “simile agli animali, la cui unica libertà consisterebbe nel preservare la specie”.
I laboratori dove realizzare il progetto sono i campi di concentramento e di sterminio.
E' in essi, “luogo dove quotidianamente si crea l'insensatezza, dove si sperimenta lo sfruttamento senza il profitto e il
lavoro senza il prodotto”, dove si giustifica la punizione senza il reato, che l'impossibile è reso possibile, che si realizza
il male assoluto.
Arendt aggiunge: “Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere
distrutto. Ma, nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono
crimini che gli uomini non possono né punire, né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il
male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi
dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che
quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime
delle fabbriche della morte o degli antri degli oblio non sono più “umane” agli occhi dei loro carnefici, così questa
nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità
umana”.
Proprio perché, come ci ricorda Herbert Marcuse, il termine “totalitario” “non si applica soltanto ad un'organizzazione
politica terroristica della società ma anche ad una organizzazione economica-tecnica, non terroristica, che opera
mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti”; proprio perché esso non è un semplice incidente
storico, ma una degenerazione possibile tipica delle società di massa che minaccia la democrazia, proprio perchè quanto
accaduto può ancora accadere, Arendt pensa di individuare l'antidoto a così tanto pericolo nel recupero forte di quella
politeia smarrita nei gorghi di una società amorfa ed omologata come quella contemporanea che sotto forma di
“confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”, - ancora Marcuse – può celare i tratti di un subdolo
totalitarismo.
Questa convinzione costituisce la genesi di The Uman condition, in Italia conosciuta con il titolo Vita Activa.
4. Per una nuova ... anzi vecchia politeia
Nelle intenzioni della Arendt il saggio, che negli Stati Uniti appare nel 1958, si propone come una critica, non troppo
velata, alla società contemporanea ormai dichiaratamente fondata sul pieno dominio della tecnica.
Erede della tradizione baconiana e cartesiana, convinta dell'identità tra “sapere” e “potere”, la società contemporanea ha
sacrificato sull'altare della tecnica la razionalità, la caratteristica peculiare dell'uomo dalla quale discende direttamente
la libertà, la causa essendi, il fondamento primo dell'agire politico.
Vittima di ciò che Marcuse chiamerebbe “repressione addizionale”, all'origine della più totale alienazione economica,
l'uomo contemporaneo confonde l'agire con il fare, finendo con il perdere la propria identità e trasformarsi momento di
un meccanismo che lo assorbe totalmente.
In un simile contesto, anche la politica si è trasforma in tecnica e come tale è riservata a pochi, ai politici di professione
i quali, a loro volta, “sono circondati, assediati, da un esercito di esperti...”
Il recupero della politeia, perduta con la fine della polis greca, deve passare attraverso la riappropriazione della propria
condizione e questo è possibile riprendendo anzitutto la distinzione aristotelica tra praxis (azione) e poiesis
(produzione).
Mentre la prima è un'attività fine a se stessa, la seconda ha per fine un oggetto da essa prodotta.
Convinta che il bene stesso dell'uomo, ossia il fine stesso dell'agire, non può rientrare nell'ambito della produzione,
Arendt analizza le tre fondamentali attività umane: quella lavorativa (labor), l'operare (wolk) e l'agire (action) .
Se con la prima, il cui il modello corrispondente è quello dell'edonismo, l'uomo soddisfa i propri bisogni primari
trasformando la realtà in vista di una situazione di immediato vantaggio, con l'operare l'uomo trasforma il mondo
creandone uno artificiale, nettamente distinto da quello materiale secondo lo standard imposto dal modello tecnicoscientifico.
Ma l'una e l'altra di queste due attività sono riconducibili alla poiesis aristotelica, alla sfera puramente produttiva
finalizzata comunque ad un bene superiore; soltanto l'action, che ha il fine dell'agire in se stesso, garantisce all'uomo la
coscienza della propria identità.
Questa non è un dato di fatto che immediatamente possa essere colto con un'intuizione intellettuale, ma un concetto che
si definisce soltanto nell'azione, perché soltanto mediante l'azione il singolo si distingue dagli altri, dando così luogo a
ciò che effettivamente caratterizza il mondo, cioè alla pluralità di esseri unici.
L'agire non solo “mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”, perché “corrisponde alla
condizione umana della pluralità, al fatto che uomini, e non l'Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”, ma media
uguaglianza e distinzione perché gli uomini non potrebbero comprendersi ed agire reciprocamente se non fossero
uguali, ma non avrebbero bisogno né di discorrere, né di agire se non fossero diversi.
“Agire, scrive Arendt, significa prendere un'iniziativa, iniziare (come indica la parola greca archein, incominciare,
condurre, e anche governare), mettere in movimento qualcosa”; significa il recupero di quella perdita del "mondo" che
il mero lavorare e consumare, hanno prodotto; significa realizzare la propria umanità che non può emergere
dall'isolamento, ma soltanto dal "rischio" di esporre la propria vita e la propria persona alla sfera pubblica”.
Con l'agire, insomma, realizziamo quel zoon politikon come individualità etica consapevole.
Perciò etica e politica si danno contemporaneamente; perciò la libertà risiede nella sfera politica; perciò la polis è la
sfera della libertà e l'agire l'antidoto alla società di massa che uccide l'agire politico e ci trasforma in semplici impiegati,
in anonimi burocrati.
Ad Eichmann, - è la tesi di fondo de “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” - che pur ammette che il
crimine commesso contro il popolo ebraico nell'ultima guerra è stato il più grande crimine della storia, che è convinto
che il suo ruolo nella soluzione finale fu casuale, che chiunque avrebbe potuto prendere il suo posto, che presenta la sua
storia come quella di un uomo assolutamente integerrimo, di un impiegato modello, tanto intransigente
nell'assolvimento dei suoi doveri, quanto altrettanto assolutamente sfortunato nella vita, Hannah si sente in dovere di
controbattere che che “la politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa”.
Come già per Sartre, anche per Arendt, la libertà impone sempre la scelta; il fatto che quasi tutti siano colpevoli, non
comporta la conseguenza che tutti siano innocenti...
Eichmann, questo paradigma esemplare di chi fugge dalla libertà per annullarsi nell'anonimia del quotidiano, non
mostro, ma un uomo normale, non stupido, ma assolutamente senza idee, buon padre di famiglia “ebbe molte occasioni
di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare” e divenne
l'emblema di chi opera senza agire, l'esempio più tetro di quanto un sistema totalitario sia capace di trasformare gli
uomini in funzionari, in meccanismi di un apparato amministrativo, in esseri assolutamente disumanizzati, artefici di un
male che è “banale”.
Perciò a chi, emulo di Eichmann, è disposto a negare la propria politicità, a chi rinnega il “peso” della libertà e il
coraggio di assumersi la responsabilità della scelta, Arendt non può che raccomandare di “pensare ciò che facciamo”.
Un'osservazione che vale molto più di un semplice slogan.