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Il petrolio iracheno fa gola ai britannici. Churchill disprezzava gli arabi, ma non il loro greggio

di Giorgio Vitali - 11/05/2009

 

Ed è forse meno noto, proprio a proposito dei Savoia, che nel 1919 il Re Vittorio Emanuele III, invocando uno dei diritti italiani stabiliti in favore delle potenze vincitrici del I conflitto mondiale, all’articolo n. 9 del celebre Patto di Londra dell’aprile 1915, chiese ed ottenne l’assenso dell’altra potenza vincitrice, la Gran Bretagna, attraverso i buoni uffici di Lloyd George, per l’invio in Georgia, terra in fermento indipendentista e da sempre riluttante alla sottomissione ai Soviet, di un contingente italiano di 85.000 soldati agli ordini del generale Giuseppe Pennella, che avrebbe dovuto difendere l’indipendenza del Paese e sostenere la neonata Federazione delle Repubbliche Transcaucasiche, Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il governo Orlando, poco prima di cadere, decise quindi con proprio decreto la spedizione italiana in Georgia e ne stabilì termini e date. Ma il successivo governo Nitti ritenne di dover bloccare la spedizione per non compromettere l’avvio di buone relazioni tra Italia e la futura Unione Sovietica dei bolscevichi, che nel breve intermezzo, non certo ispirandosi ai principi invocati vent’anni più tardi con la mobilitazione della Grande Guerra Patriottica, avevano stroncato con la forza l’insurrezione georgiana, facendo strage degli oppositori e stabilendo a Tbilisi un governo di Soviet.

Credo convenga a questo punto mettere a fuoco le circostanze e gli sviluppi degli eventi, europei ed extraeuropei, che costrinsero Stalin a rivedere una rigida posizione antioccidentale di puro stampo ideologico e a percorrere vie politiche più “opportune”, se non indispensabili alla stessa esistenza dell’Unione Sovietica. Un atteggiamento suggerito dai criteri di Realpolitik che connotò la politica internazionale di Stalin, fermi restando il clima di terrore e di repressione che caratterizzarono il sistema di governo interno.
A questo proposito è bene ricordare che le potenze occidentali decisero di attribuire all’Unione Sovietica un preciso compito e affidare al georgiano Stalin un nuovo ruolo ad esse conveniente. Spinti ad operare in tal senso dalle continue e forti pressioni dei veri arbitri della politica internazionale (le Compagnie petrolifere Standard Oil of New Jersey del gruppo Rockefeller, Socony Mobil, Chevron, Texaco, l’inglese Iraq Petroleum Company, nonché i colossi industriali come Ford, General Motors, IBM, ITT e il Cartello Bancario facente capo ai gruppi Morgan, Rothschild, Warburg, Baruch, di chiara ispirazione sionista, il cui centro di manovra era la Federal Reserve Bank che vantava potenti diramazioni nelle Banche Centrali europee e in particolare nella Bank for International Settlements di Basilea) Churchill e Roosevelt decisero (o meglio obbedirono alla decisione dei sopra elencati) di avvalersi di Stalin per fermare Hitler, lanciato verso la conquista del petrolio del Caucaso e dell’impero del cartello petrolifero angloamericano in Medio Oriente. Fu questo l’unico motivo degli aiuti concreti fatti pervenire a Stalin dagli alleati. In cambio di certe garanzie che il capo dei Soviet avrebbe dovuto offrire: la sospensione delle attività del Komintern (almeno temporaneamente), l’eliminazione dei deviazionismi trotzkiski, il contenimento del comunismo in un solo paese, un nuovo impulso al fuoriuscitismo italiano, incrementando il sostegno finanziario a favore di quest’ultimo, in vista dell’esecuzione immediata di un piano più ampio che prevedeva il disfacimento delle Nostre Forze Armate inviate in Unione Sovietica.
Osservando la vicenda dall’altro lato, ci si rende conto che la politica estera di Josip Djugasvilji Vissarionovic, detto Stalin, si distingueva appunto per quell’insieme di misure, da lui adottate nel periodo bellico, che, discusse e chiarite poi nel corso delle intese di Yalta, obbedivano ai criteri della Realpolitik occidentale. Una sorta di scambio di reciproci impegni che le potenze capitaliste furono costrette ad assumere con l’Unione Sovietica, in vista dell’unico sbocco delle operazioni belliche ad esse favorevole, quello cioè che avrebbe portato alla definizione delle linee del bipolarismo. Intendendo con questo fra l’altro il tracciato di confini che il comunismo internazionale non avrebbe potuto oltrepassare e che avrebbe permesso all’Unione Sovietica di esercitare, all’interno di un’area ben definita, quelle funzioni di contenimento e di controllo tanto dei deviazionismi trotzkisti, quanto degli eterni fermenti delle popolazioni islamiche sottoposte al regime dei soviet. Previsioni d’intesa elastica, come qualcuno l’ha voluta chiamare, caratterizzante l’intero periodo della guerra fredda, logorata dai conflitti est-ovest di bassa intensità, al culmine dei quali si sarebbe registrato il crollo sovietico definitivo, grazie allo scaltro utilizzo della forza islamica nella guerra afghana. La premessa serve a spiegare il grande timore equamente condiviso da Stalin e da Gran Bretagna e Stati Uniti, che le venti divisioni di musulmani filonazisti arruolati da Hitler alla fine del ‘42 e costituiti in Waffen Islam SS del Kazakhstan, dell’Azerbaigian, Turkmenistan, Cecenia, Dagestan, Uzbekistan etc. risultassero decisive per il successo del piano hitleriano di penetrazione in Medio Oriente e per la conquista dei territori petroliferi. Ecco la vera ragione degli accordi tra Stalin, Churchill e Roosevelt, dei colossali aiuti americani alla Russia, della disfatta dell’Asse, della tragedia dei Nostri Alpini sulle rive del Don e nel corso del drammatico ripiegamento.

E l’Italia di Mussolini poteva sperare nella promessa di una concessione petrolifera dal governo iracheno?
Certo. Il Duce (che aveva finanziato in numerose occasioni Al Husseini e Rashid El Gailani, quest’ultimo rappresentante del governo iracheno in esilio)* contava di potersi rifare dello smacco subito dall’AGIP nel ‘35, quando la nostra compagnia petrolifera possedeva il capitale di maggioranza della BODC (British Oil Development Company) la quale estraeva il greggio di Mosul e Quayara, lasciando il gravoso compito di pagare l’affitto concordato con il governo iracheno alla sola AGIP. Circostanze che non furono mai chiarite, pur essendo allora evidente nella questione l’intrigo architettato ai nostri danni da un astuto Winston Churchill, indussero Mussolini a svendere la quota di maggioranza dell’AGIP (il 56%), che fu subito incamerata dalla Iraq Petroleum Company. Un errore di doppio peso, quello commesso dal Duce. Attraverso la svendita della quota di maggioranza AGIP l’Italia ottenne un limitato finanziamento per sostenere una parte delle spese previste per l’impresa etiopica. Nell’occasione Mussolini non si avvide che l’imperialismo vecchia maniera, consistente nella costosissima occupazione militare dei territori era destinato all’insuccesso, mentre il neocolonialismo intrapreso dalla Gran Bretagna con l’ “ipocrita” ma funzionale formula dello “Indirect Rule” o del “mandato”, le avrebbe assicurato il controllo delle aree ricche di materie prime e di fonti di energia, mascherando opportunamente autentiche politiche di aggressione con la pretesa di apporto di “liberaldemocrazia”.

Quali altri motivi sarebbero stati alla base della disfatta italiana in Russia?
Non è difficile considerare l’enorme portata della disastrosa Campagna di Russia sul piano politico e sociale, come causa determinante di una svolta che si verificò nella vita del nostro Paese. La sconfitta italiana era ormai certa su tutti i fronti all’inizio del 1943, ma gli effetti della nostra disfatta in Russia sembrarono quasi calcolati sulla base dell’importanza strategica e militare che Gran Bretagna e Stati Uniti annettevano alla nostra Penisola sul Mediterraneo. Superfluo ricordare che l’impatto del nostro disastro in Russia sull’opinione pubblica italiana avrebbe provocato sdegno e pietà, insieme al desiderio di chiudere l’ultimo tragico capitolo della guerra, rinnegando magari un passato scomodo, e predisporsi ad accettare quei mutamenti che “giustificavano” e imponevano la collocazione dell’Italia nello scenario di un nuovo ordine mondiale. Constatato questo, considerata l’essenziale esigenza degli alleati di destituire Mussolini e di far cadere il Fascismo ed osservata la quasi coincidenza di operazioni militari alleate su fronti diversi, come lo sbarco americano in Algeria e Marocco del novembre ‘42 e il contemporaneo ribaltamento della situazione a Stalingrado (che con grande sorpresa volgeva da allora a favore dei Russi), è ingenuo non pensare a sicure intese, in seguito precisate a Tehran, Casablanca e Yalta, sull’opportunità di una concordata, comune azione “alleata” tesa prima a sabotare e poi a distruggere le nostre Forze Armate, specialmente quelle schierate sul fronte russo. Il disperato appello staliniano invocante la creazione del “secondo fronte” europeo fu accolto con un anno di ritardo per la primaria esigenza di Churchill di liquidare prima l’Italia, il ventre molle dell’Asse, puntando sul teatro di guerra italiano particolari attenzioni alla fase preparatoria, che avrebbe preceduto l’intervento militare e la successiva occupazione del nostro suolo e svolgendo quell’intensa attività di propaganda antifascista su un esteso malcontento popolare che doveva trovare sostegno e convincenti motivi soprattutto nell’ecatombe dell’ARMIR in Russia. Particolari attenzioni furono poste dagli inglesi sull’opinione pubblica italiana al fine di svolgere su di essa un’intensa propaganda antifascista (sostenuta da BBC e Radio Londra), mentre sezioni speciali di intelligence britannica, a tal fine costituite, avevano da tempo avviata una sistematica azione di sabotaggio ai danni delle nostre Forze Armate. Per fare un esempio una Sezione speciale operativa fu creata da Winston Churchill a da Hugh Dalton nel luglio del ‘40, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia, e nel momento più critico per la Gran Bretagna, quando grazie al patto di non aggressione Russo-Tedesco, il Premier britannico vedeva Londra bombardata dagli Stukas della Luftwaffe, ben riforniti del petrolio sovietico di Baku. L’iniziativa di Churchill in tale circostanza fu quella di affidare ai “Baker Street Irregulars”, così erano chiamati gli agenti della sezione speciale, poi diventata SOE (Special Operations Executive), la conduzione di operazioni di sabotaggio contro l’Italia. Ma il compito più importante che costoro avrebbero dovuto svolgere consisteva nell’avvicinare gruppi di esuli antifascisti in Francia anche in vista della costituzione di formazioni partigiane, fin dall’inizio abbondantemente finanziate, che avrebbero trovato un successivo impiego in territorio italiano.
Altro compito del SOE era quello di tastare il polso di alcuni vertici della Marina Italiana e dello Stato Maggiore Generale che avevano mostrato avversione per i tedeschi e disaccordo con le decisioni del Duce. (I nomi si sanno ma omettiamoli, ricorrendo al solito velo pietoso!)
Ma non è tutto! Forte del fatto che nel ‘40 non esisteva ufficialmente uno stato di guerra tra Gran Bretagna e Unione Sovietica e consapevole delle difficoltà nel reperire altrove altrettanti possibili collaboratori di marcata convinzione antifascista, ma anche propensi a privilegiare un’ idea e una prassi, poste comunque al di sopra di ogni sentimentalismo patrio, il premier inglese puntò tutte le sue attenzioni sui fuoriusciti italiani a Mosca, dando la stura alla corrente più vasta ed efficace di un’opposizione estremista che, proprio perché forzatamente contenuta entro gli argini “artificiali” di un patto inedito, sarebbe stata usata nel momento propizio per contribuire all’avvio di una crisi irreversibile che avrebbe determinato la caduta del Fascismo e alla disfatta dell’Italia.
Se osserviamo le date del 25 luglio e del 3 settembre 1943 e poniamo i relativi eventi in relazione al gennaio dello stesso anno e a quanto accadde e sarebbe poi accaduto in Russia, non è difficile dedurre i motivi della presenza di un loquace Togliatti a Salerno nell’aprile del ‘44, forte dell’intesa, concordata con Stalin, ma ancor prima con Churchill e Roosevelt, e guadagnata dall’ineffabile Palmiro, con il suo “buon lavoro” eseguito a gomito dell’NKDV e i particolari “servizi” che egli rese ai nostri soldati, prigionieri dei lager sovietici.
Ma a parte questo, la svolta di Salerno dimostra che la proficua collaborazione offerta agli alleati dai fuoriusciti italiani in Unione Sovietica non si limitò alla prestazione delle “cure” riservate ai nostri soldati prigionieri in Russia, ma iniziò molto prima. Precisamente quando Churchill, deciso ad eliminare l’intralcio dell’Italia sulle rotte inglesi del Mediterraneo, propose anche ai Partiti Comunisti clandestini di svolgere azioni di controspionaggio, lautamente remunerate. Fra questi, anche al PCI di Togliatti, che, mal celando i sintomi della sindrome da “disorientamento” causata dal patto scellerato Ribbentrop-Molotov, trovò provvidenziale la richiesta di collaborazione inglese, dopo che i flussi dei finanziamenti di Stalin ai fuoriusciti si erano interrotti con la chiusura e confisca della Banque Commerciale de l’Europe du Nord di Parigi da parte delle truppe di occupazione nazista. Questa banca, di proprietà sovietica, sovvenzionava i partiti comunisti di mezzo mondo e faceva pervenire cospicue somme di denaro al Pci clandestino, attraverso l’ambasciata sovietica in Italia di Via Gaeta, 5 a Roma, almeno fino al 10 giugno del ’40. La sua chiusura creò ovviamente non pochi problemi a Togliatti e al suo seguito.

Agli attenti servizi inglesi non saranno sfuggiti in quell’occasione i segnali dell’imminente emanazione della direttiva n. 21 da parte di Hitler, consistente nel piano di invasione dell’Unione Sovietica, considerato l’atteggiamento dell’Ammiraglio Canaris e certe aperture confidenziali in seno all’Abwher.

Ovvio. Ma in attesa del fatidico 22 giugno 1941, cioè dell’avvio dell’Operazione Barbarossa, l’attività di Churchill fu ugualmente febbrile. Dopo aver superato le sue innate barriere ideologiche, egli decise di superare anche quelle religiose (e razziali, se vogliamo) cercando la distensione dei rapporti con gli arabi (che egli disprezzava) e in generale con l’Islam. Informato infatti delle chiare tendenze filonaziste del Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Alì Al- Husseini, propose a costui una sostanziale riduzione delle truppe britanniche presenti a Baghdad e a Mosul, e l’interruzione del flusso migratorio di ebrei in Palestina, in cambio della sospensione delle attività di propaganda e agitazione irredentista in pieno corso non solo fra i musulmani sottoposti al “governo indiretto” britannico, ma anche fra le numerose popolazioni islamiche dell’Unione Sovietica, contando sul carisma del Muftì per convincere queste masse a “diventare” filoinglesi e naturalmente sulla nota venalità del religioso nell’accettare in cambio un lauto compenso. La proposta creò seri trambusti negli ambienti diplomatici occidentali e le immediate proteste dell’Organizzazione Sionista Mondiale, nonché delle compagnie petrolifere angloamericane operanti in Iraq, perché fu accolta e in parte attuata. I risultati furono nefasti per gli arabi e per gli ebrei, vittime questi ultimi delle inasprite misure adottate da Hitler che lo indussero ad affrettare i tempi della soluzione finale, poi precisati nella conferenza di Wansee nel gennaio ‘42. Nella circostanza l’ambiguità e la doppiezza del Gran Muftì non fu inferiore a quella del premier inglese, perché da un lato la proposta distensione ebbe l’effetto contrario fra i musulmani determinando ulteriore fermento e punte di estremismo che provocò il raddoppio anziché la riduzione delle truppe britanniche presenti in Iraq e in Palestina a tutela del mandato. Ma procurò sopra tutto serie preoccupazioni a Stalin che inasprì il trattamento riservato alle popolazioni islamiche sovietiche, ordinando le loro deportazioni in massa. La circostanza pesò non poco nel suo mutato atteggiamento nei confronti di Hitler, al punto da indurre Stalin ad avanzare assurde e provocatorie pretese di poter procedere all’occupazione sovietica di una consistente fascia territoriale balcanica con l’imprimatur del Fuhrer.
Il caso, insieme alla questione islamica, indusse Hitler ad affrettare i tempi dell’attacco contro l’Unione Sovietica, anche perché il Gran Muftì, trasferitosi armi e bagagli a Berlino dopo l’insuccesso della proposta inglese, garantì al Furher il sostegno incondizionato delle costituende armate musulmane che si preparavano a combattere con entusiasmo e rinnovata fiducia al fianco della Werhmacht contro l’Armata Rossa, per liberare i loro correligionari delle repubbliche sovietiche dal giogo politico staliniano e dall’oscurantismo ateo dei comunisti.

Quali sarebbero state le più vistose operazioni di sabotaggio portate a termine ai danni del nostro Esercito e della nostra Marina?
E’ difficile rispondere. Direi che il fenomeno deve essere osservato nel più ampio contesto della realtà dell’Italia fascista, dove ministeri, enti preposti, uffici e organismi militari operavano a compartimenti stagni, ciascuno attribuendosi limiti di competenza e reclamando autonomie e autorità interne che non hanno certo giovato allo spirito di collaborazione indispensabile in un Paese che si prepara a fare la guerra. Un Paese, l’Italia di allora, oltre tutto poco incline nel settore della produzione di armamenti ad adeguarsi ai criteri di continuo aggiornamento, essenziale in quel periodo. Il che risulta inspiegabile se si pensa all’impresa etiopica e al nostro intervento in Spagna. Ma a prescindere dallo strano e controproducente operato dello Stato Maggiore Generale, è il caso di ricordare che l’industria italiana, salvo poche eccezioni, era più propensa ad entrare nel libero mercato piuttosto che mantenere i modesti sbocchi della propria produzione negli esigui ambiti dell’economia autarchica di Mussolini. E qui per inciso notiamo che gran parte della produzione di armi di Ansaldo, Breda, Fiat, per citare le più importanti, era destinata all’estero, con l’ovvio disappunto del Duce, il quale dovette però adeguarsi a quella linea per via dei poco incoraggianti prospetti di bilancio sottoposti alla sua attenzione dal ministero Scambi e Valute. Ipotesi apparentemente paradossali sono state avanzate da alcune parti, peraltro attendibili, riguardanti la vendita di armi di fabbricazione italiana alla Gran Bretagna nell’approssimarsi della rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e continuata anche in tempi successivi, all’insaputa del Duce. Restando però nota nell’ambiente dello Stato Maggiore Generale la tattica inglese di impiegare la nostra industria nella produzione di modelli vetusti e dalla concezione superata, che la Gran Bretagna avrebbe comunque acquistato, con il primario scopo di distogliere l’attenzione dei nostri tecnici industriali dalle nuove e più aggiornate tecnologie già acquisite e prodotte dagli inglesi. Una burocrazia notoriamente farraginosa ha poi complicato ulteriormente le cose, allungando a dismisura i tempi della produzione e delle consegne di materiali richiesti dai competenti settori dello Stato Maggiore e del ministero della Guerra. Questo stato di cose ha facilitato il compito di chi avesse voluto portare a termine azioni di sabotaggio nel nostro Pese e sui fronti di guerra.
Credo sia il caso di accennare allo spionaggio che è risultato più dannoso per l’Italia, quello a favore dell’Unione Sovietica.
Ricordando i noti informatori dell’NKDV, Ruggero Zangrandi, Giorgio Conforto e Gaetano Fazio, non possiamo fare a meno di notare l’atteggiamento talvolta tollerante del nostro SIM nei loro confronti. La collaborazione di costoro con i fuoriusciti italiani in Russia e l’NKVD risalirebbe addirittura al 1941 e sarebbe provata dal trattamento di “favore” riservato da Stalin ai vari Togliatti, D’Onofrio, Bianco, Montagnana e Fiammenghi, diverso da quello riservato invece ai comunisti fuoriusciti, tedeschi e ungheresi, e determinato proprio dai proficui successi informativi ottenuti da spie operanti in Italia e fuoriusciti italiani in Russia.
Nell’ambito delle “attività” dei fuoriusciti, non dovrebbe dunque sorprendere più di tanto il fatto che l’invito alla diserzione perveniva in qualche modo ai nostri soldati dello CSIR già nel 1941, allorché si raccomandava al nostro combattente in Russia di liberarsi del barbaro aspetto di invasore e del veleno fascista e consegnarsi a qualsiasi ufficiale dell’Armata Rossa, pronunciando la frase convenuta: “Parlate di me al compagno Petrov!” (precise testimonianze di Reduci dalla Russia lo provano.)
Saldi e di vecchia data erano dunque i legami tra fuoriusciti italiani, NKVD e spie operanti all’interno del nostro Paese. Rinnovati e potenziati poi nell’ambito del “lavoro”di indottrinamento nei lager sovietici, con le minacce di ritorsioni sui familiari dei prigionieri in Italia, nel corso degli interrogatori, nella ricerca di delatori, nella costituzione di cospicui fondi destinati alla costosa organizzazione in Russia delle cosiddette scuole antifasciste e alla pubblicazione del giornale l’Alba.
Curioso constatare come questi fondi lautamente elargiti dalle fonti citate, non siano mai stati impiegati, neppur in minima misura, per alleviare anche di poco le sofferenze e il martirio dei nostri soldati prigionieri di lager sovietici, scaricati alla mercé delle barbarie animalesche russe dai loro stessi connazionali. E non siano serviti nemmeno a improvvisare una pur rozza e primitiva “struttura” che dei prigionieri si occupasse almeno della corretta registrazione dei nomi, al momento del loro ingresso nel campo di concentramento, al momento del decesso e della corretta segnalazione del luogo di sepoltura, pur trattandosi in genere di fosse comuni.
Lasciamo alla sensibilità storica di chi ci legge, l’osservazione del preoccupante e prolungato connubio tra spie interne e fuoriusciti (meritevoli poi di un riconoscimento al valore militare e civile e addirittura in certi casi della intitolazione ai loro nomi di strade e piazze d’Italia, motivandole forse anche col trattamento di “tutto riguardo” che essi riservarono ai nostri soldati in Russia) che continuò in Italia nel travagliato periodo successivo all’8 settembre del ’43. Citiamo in proposito l’attentato di Via Rasella a Roma del marzo 1944, assurto a simbolo del “valore” dei combattenti per la liberazione d’Italia, ma avvilito dai retroscena che immediatamente emersero e lo connotarono come atto indegno della nostra civiltà e da ascriversi nel lungo elenco delle imposizioni staliniane dirette al Pci che, forte della cultura dell’intrigo, appresa a Mosca, non esitò ad applicarla nel nostro martoriato Paese su direttiva dello stesso Stalin, il quale pretese che del governo italiano appena riconosciuto dall’Unione Sovietica entrassero a far parte solo esponenti di provata fede staliniana, eliminando fisicamente gli stessi Comunisti italiani che non avessero lo stesso requisito.
Gli autori dell’attentato, esponenti di spicco del Pci legati alla linea di Mosca, attribuendosene la paternità solo dopo che la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine era stata portata a termine, manifestarono la volontà di aver agito proprio per far scattare la reazione nazista che si sarebbe scatenata contro i loro concorrenti non graditi a Mosca, ma sfortunati compagni di militanza politica e vittime per questo dell’eccidio alle Fosse Ardeatine.
Ogni ulteriore commento è superfluo.

Per concludere possiamo fare un commento sull’appello che Vincenzo Bianco rivolse a Togliatti, affinché i nostri Soldati prigionieri ricevessero un trattamento più umano?
Se ne è parlato abbondantemente. Forse vale la pena di prestare attenzione all’ultimo capoverso della lettera che Togliatti invia a Bianco in risposta, che così recita: “ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro (i nostri soldati prigionieri nei lager sovietici, ndr) non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia.”
La scelta da parte di Togliatti di disturbare, in quella vergognosa circostanza, il “vecchio Hegel” mi sembra infelice e rischiosa, non essendo stato il pensatore tedesco particolarmente ben visto fra gli intellettuali sovietici, per via delle note preferenze monarchiche del filosofo, auspice fra l’altro di una sicura conciliazione tra individuo e fede religiosa proprio nella dimensione della Storia, in seno alla quale l’Uomo avrebbe anche cercato vie di maturazione spirituale.
Questo naturalmente a prescindere dagli equivoci intorno alla dialettica hegeliana di cui furono autorevoli vittime il maturo Marx e un giovane Lenin, fino a quando gli stessi sviluppi della “sinistra hegeliana” risultarono indigesti al Marxismo che si affrettò a prendere nette distanze dal filosofo tedesco e dalle sue scuole.
A nome dei nostri soldati prigionieri in Russia (nella cui morte il signor Togliatti vedeva concreta espressione di quella “giustizia” immanente… nella sua sola mediocre testa) vorrei infine suggerire a tutti gli estimatori di questo ineffabile individuo un’attenta lettura delle pagine degli hegeliani Lineamenti di Filosofia del Diritto, in cui viene espresso l’autentico concetto di Storia, come successione di eventi che trovano una loro logica nel rapporto causa ed effetto, non solo in termini temporali, ma anche morali, prevedendo l’esistenza di quel “Tribunale del Mondo”, come Hegel lo chiamava, che presiede al perfezionamento dell’individuo e della società umana, al di fuori degli sviluppi materialistici, ma nella dimensione invocata nella fenomenologia dello spirito, quella che affida fra l’altro alla Storia il compito esclusivo di emettere una definitiva sentenza di condanna o assoluzione, proprio attraverso la manifestazione, o fenomeno, di concreti e storici eventi.
Inviterei quindi costoro ad osservare da vicino le rovine dell’Unione Sovietica e del Comunismo e a rivolgere alla memoria dei Nostri Soldati dell’ARMIR quel segno di rispetto che ad essi il signor Togliatti non ebbe il coraggio, o non si ritenne degno, di offrire.