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Una pagina al giorno: L’onda dell’incrociatore, di P. A. Quarantotti Gambini

di Francesco Lamendola - 12/05/2009

Dal romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, «L’onda dell’incrociatore» (Torino, Einaudi, 1947; Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1966, pp. 251-61):

«Eneo se n’era andato, la sera calava, e l’alpino era sempre là.
Pareva, ormai, deciso a restare sulla maona. Ario e Berto, che seguivano ogni suo movimento con impazienza crescente, anzi quasi con ira, lo videro a un certo punto levarsi addirittura le scarpe. Seduto sul bordo, una gamba penzoloni sull’acqua e l’altra tirata su, stava pulendosi i piedi con le dita, adagio e attento.
E intanto il tempo correva: tra poco Lidia ed Eneo - che a quell’ora dovevano già essere assieme – si sarebbero avvicinati alla maona. Vedendo a bordo quello sconosciuto, che potevano fare? Avrebbero rinunciato, per quella sera, o si sarebbero diretti altrove: e così, addio scherzo.
Ad Ario e Berto pareva d’impazzire dalla rabbia; e si sentivano anche avviliti, con un’improvvisa impressione di inutilità.
Ario tuttavia, a momenti - ed erano gli stessi in cui più gli cresceva l’impazienza -, non cessava di sperare. “Ha mangiato, ha bevuto, presto avrà finito quella sua sporca pulizia: speriamo che se ne vada.”
“Eccoli!” gridò a un tratto Berto, e indicò sulla riva, dietro le alberature dei trabaccoli sulle quali s’erano già spenti gli ultimi riflessi del sole, Lidia ed Eneo. Camminavano un po’ discosti, con indifferenza, come se non avessero nulla da dirsi.  E ogni tanto li nascondeva, sinché non riapparivano dall’altra parte, uno dei vagoni rimasti lì dal mattino.
Ario e Berto li seguivano con gli occhi di passo in passo, e avevano un’unica speranza, ormai: che procedessero adagio, che tardassero, in modo da dar tempo all’alpino di andarsene.
Guardavano un po’ loro due, mentre continuavano ad avanzarsi, discosti, come annoiati, e un po’0 sulla maona; ed ecco, ebbero un grido:
“È andato via!”
La maona era deserta, come prima. Mentre guardavano Eneo e Lidia, l’alpino doveva essere finalmente sbarcato. Lo cercarono con gli occhi sulla riva, e cedettero di riconoscerlo in una figura che si allontanava dalla parete della stazione e che scomparve dietro alcuni vagoni.
“Non perdiamo tempo. Sbrigati,” gridò Berto. “Monta in caício. Io rimango quassù, e sto all’erta come stamattina.”
Proprio in quel momento, mentre Eneo proseguiva solo sin oltre i rimorchiatori, come se si fossero lasciati, Lidia era giunta davanti alla maona. Nell’aria già incerta, distinsero il suo vestito azzurro oscillare sulla passerella. Due passi (e s’intravvide il bianco delle scarpette): era sulla maona; scomparve.
Ario stava già scendendo.
“Hai tutto?” gli gridò dietro Berto. “Aspetta, ti do la tenaglia per togliere i tappi!” e lo raggiunse.
Entrarono assieme nella rimessa. Misero sossopra la cassa degli ordigni; ma, come accade quando si ha fretta, non riuscirono a trovare la tenaglia.
“Maledizione!” esclamò Berto. “Perché non me l’hai… Bisognava cercare prima.”
La trovarono finalmente, quando già disperavano. Era lì a terra, fuori della cassetta.
Dal caício , mentre si allontanava dalle canottiere,  Ario vide Berto riapparire in cima al terrazzo della “Virtus”, sotto l’asta della bandiera, e fargli grandi cenni perché vogasse forte.
Cercò d’affrettarsi, e si volgeva di tanto in tanto a misurare sull’acqua la distanza che ancora lo separava dalla maona.
“Anche Eneo sarà in cabina, e da un pezzo” pensava guardando ai propri piedi la tenaglia che gli aveva fatto perdere tutto quel tempo. “Forse in questo momento stanno già…”
Rallentò, sebbene Berto continuasse a esortarlo agitando le braccia. Non poteva vogare con forza.
Gli era riapparsa Lidia, come l’aveva vista varcare, in quel vestitino azzurro che si confondeva con l’aria della sera, la passerella della maona: rapida, risoluta. Le braccia gli si allentarono; sentì un’angoscia, e uno stordimento, assieme a un vuoto allo stomaco; immergeva e ritraeva i remi, quasi senza vogare.
Lidia. L’aveva veduta, coi suoi stessi occhi, salire a bordo, scendere nella cabina degli ormeggi, muovendo senza esitazioni le belle gambe brune (gli riappariva ancora, nell’aria della sera, il bianco delle sue scarpette sul nero della maona). Tutto ciò era di una crudezza da fargli perdere il capo, da togliergli ogni forza. Sentiva, dopo aver tanto fantasticato syui racconti di Berto ora credendoci e ora no, la suggestione semplice e terribile delle cose vere.
Era vero, senza scampo. Non poteva più dubitarne.
Pensò, con un empito vorticoso di amarezza, a Eneo, a quel maledetto irresponsabile che l’aveva fatta precipitare, e avrebbe voluto fargliela pagar, vendicarsi, fargli non sapeva neanche lui che cosa. Poi capì che nessuno aveva umiliato e reso ridicolo Eneo, a sua insaputa, più di Lidia stessa. “Gli ha fatti le corna - pensò - e come!”. Gli pareva, ora, tanto quell’immagine lo inquietava, di essere stato lui, e non il cugino Berto, a vederla mentre saliva in camera accesa in viso e ridendo col sottufficiale di marina. “Eneo credeva di poter fare il gallo a Roma, a Capri, o dov’era; e lei frattanto lo faceva becco, si lasciava alzare la gonna dai maschi che le piacciono.”
Nulla poteva colpire Eneo più nel vivo. Ella aveva dato ad altri (e forse anche a qualche canottiere della “Virtus” e pesino alla guardia di finanza) la cosa alla quale egli ci teneva di più. (Che poteva importargli, in confronto, delle signore che gli regalavano quattrini e di sua madre che tentava anche lei di legarlo coi soldi?). Lidia aveva dato oggi all’uno e domani all’altro, per divertirsi, il proprio corpo.
Risollevando il capo verso la “Virus”, vide Berto, sotto la bandiera che in quel momento aveva ripreso a sventolare nel crepuscolo, rizzare il mento e fargli dei cenni interrogativi, come per dirgli: “Che c’è? Perché ti fermi?”.
Un alito freddo trascorreva l’acqua, e s’udì qua e là sugli alberi qualche schiocco: le poche bandiere non ancora ammainate ebbero alcuni sussulti, pesanti, come di stoffa bagnata, e poi ricaddero.
Quasi nudo sull’acqua, Ario sentì un brivido, e si scosse. Tornò a stringere i remi con forza, e si guardò in giro, respirando a fondo. Si allargava tutt’intorno la sera del mandracchio, ariosa e insieme densa, che sapeva di salso, di catrame, di sardelle e dei fuochi accesi qua e là sui trabaccoli.
La sentì, mentre riprendeva a vogare con impeto verso la maona, come in un risveglio, quasi si trovasse lì per la prima volta. E ascoltò, da ogni parte, gli scricchiolíi delle alberature e i cigolíi degli ormeggi.
Vogava con impeto, ma non con quel calore che lo aveva acceso nel pomeriggio pensando ai convegni di Lidia e di Eneo sulla maona. Provava adesso soltanto una fredda decisione; quasi dovesse, ormai, compiere quell’atto per una fatalità che pesava su di lui da tutta quell’estate – no, da anni, da sempre – e stava ora forse per traboccare, per giungere al suo estremo.
Rabbrividiva, vogando; si sentiva freddo, tutto freddo, come quell’acqua già scura delle prime ombre e corsa dagli aliti che si levano sul mare dopo il tramonto.
Era giunto.
Scivolò col caício sotto la murata nera, che trovò ancora tiepida di sole, specie ov’era più ruvida di catrame.
Tastò sott’acqua immergendo la mano sino al polso. I tre tappi.
Con l’aiuto della tenaglia, li estrasse l’uno dopo l’altro; e udì nell’interno, dopo un primo momento di silenzio, uno scroscio che si alzò e si espanse risuonando cupamente, e andava ancora crescendo mentre egli afferrava i remi, svelto, e si allontanava.
Voleva raggiungere la boa, per appiattarsi lì dentro e star a vedere.
Ma un’ondata improvvisa – di cui non seppe rendersi ragione perché l’aria era ferma – lo sollevò, gli torse tra le mani i remi,e lo riportò con un solo balzo nel punto di prima, vicino alla maona.
Vide allora una cosa che gli fece intirizzire i capelli.
La maona cominciava già a sbandare sul fianco forato, di quel tanto che bastava perché l’ondata, che veniva proprio da quella parte, le salisse sopra, la invadesse, la sommergesse forse in pochi attimi, e Lidia ed Eneo non apparivano ancora.
Guardava a poppa, tutto teso, con spasimo. Niente. Il boccaporto restava chiuso, nero sul nero della coperta. “Sono rimasti al buio – pensò, - e non trovano l’uscita.”
In quello stesso istante, mentre l’ondata s’abbatteva spumeggiando sul corpo sbandato massiccio e inerte della maona, varcandone il bordo e investendo il cumulo di carbone, che alzò una specie di sfriggolío, uscì, dentro, come un ululato, e il sangue gli si gelò.
L’onda passò. E la maona sussultava ancora, inclinata sempre più, simile a un mostro ferito, quando gli apparve di udire lì dentro uno sbattere di braccia e di gambe contro le pareti, come di corpi sballottati nel buio, e tornò a levarsi quell’ululato.
Sussultò anche la petroliera deserta al di là della maona, e rollarono e beccheggiarono come il mattino con schiaffate e scricchiolii e un oscillare pazzo di alberature tutti i trabaccoli e le barche del mandracchio, e persino, là in fondo, le canottiere.
Coi capelli irti, Ario capì. Erano gli incrociatori che uscivano dal porto. Alla prima ondata ne seguirebbe una seconda, una terza, e altre ancora, come il mattino.
Non sperò più. Guardò un’ultima volta la maona, a poppa, ove il boccaporto restava sempre chiuso, ed ebbe non più l’intuizione ma la coscienza, spietata, del disastro.
Pure, in quei pochi momenti tra la prima e la seconda ondata – ch’ebbero in lui una durata immensa: lo spasimo gli dilatava ogni attimo – egli supplicò che la disgrazia non avvenisse, che qualcosa d’inaspettato, d’assurdo magari, si verificasse.
Il pensiero gli era volato d’istinto a suo padre, a quell’oscuro padre lontano, e lo invocò con tutta l’anima. “Fa’ tu che Lidia sia salva!” gli gridava come s’egli oltre lo spazio vedesse e potesse tutto. “Salvali!” urlò ancora, sentendo l’onda avvicinarsi.
Negli ultimi istanti, prima che il caício fosse sollevato e sbattuto. Lo incalzò un pensiero: “Papà - pensò - perché non sono venuto da te sinché ero in tempo? Dovevo partire, partire, anche se non avevo l’età giusta; potevo scappare. Ora è troppo tardi.”
Le cose che avrebbe voluto fuggire - il pontone, e le angosce dell’infanzia e di quell’estate - lo avrebbero seguito dovunque. Era inutile ormai andar via: le avrebbe portate in sé tutta la vita, assieme al ricordo di Lidia e di Eneo annegati per colpa sua.
Venne l’onda, più violenta della prima, e gli sfuggirono i remi.
Si trovò in alto, e vide – nella luce della Lanterna che s’accese in quell’istante – la maona scendere in un avvallamento.
Poi ricadde, e la ebbe dinanzi a sé, incombente nel buio, per pochi attimi, mentre l’acqua le spumeggiava intorno da ogni parete.
Risollevandosi infine col caício, la vide sbandata sino all’estremo limite, con l’acqua nerastra e gonfia, chiazzata qua e là di petrolio, sul punto di superarne il bordo e di sommergere la coperta: si mantenne così immobile, come se quell’equilibrio potesse miracolosamente durare, per pochi istanti, mentre il faro di nuovo la illuminava. E il boccaporto a poppa restava chiuso, sebbene sui udissero, dentro, dei colpi ripetuti e furiosi.
“Lidia! Lidia!” fu per gridare, ma non aveva più voce. Avrebbe voluto buttarsi a nuoto, raggiungere la maona, spalancare il boccaporto, trarla in salvo; ma era come paralizzato, con le gambe inerti.
Che cos’era, e che importava, adesso, tutto ciò che Berto gli aveva raccontato negli ultimi tempi di Lidia, tutto ciò che lo aveva sconvolto tanto? Nulla. Poco più che giochi da bambina, in confronto della cosa fredda e terribile che le stava ora dinanzi: la morte.
Tutto si poteva cancellare, dimenticare; tutto (anche ciò ch’era venuto a sapere di Lidia poche ore prima) era come niente, come se non fosse stato, come se lo avesse soltanto immaginato.
In quel momento, silenziosamente, l’acqua varcò di pochi centimetri il bordo, si arrestò; fece un altro piccolo balzo, tornò ad arrestarsi, poi, pianamente, senza un sussulto, tutta la maona si mosse e scivolò sott’acqua.
Rimase soltanto un gorgo, sul quale egli venne trascinato col caício; e, orrendo, di sotto, un rumore di risucchio. Udì anche  uno scroscio, irrompente: “Il boccaporto s’è aperto: l’acqua precipita nella cabina.”
Non percepì, non capì più nulla; soltanto questo sapeva: che avrebbe voluto non andar via ormai, ma sparire, annullarsi, non esistere più.
Risuonò in quella, dall’una all’altra parte del mandracchio, un urlo di donna, pazzo:
“Eneooo! Eneooo!”
Desiderò, per l’onta, di essere lui sott’acqua, più in fondo della maona, mille metri più in fondo.
“la mamma”, pensò, e la distinse un attimo nel chiarore della Lanterna, ritta sulla zattera davanti al pontone, mentre continuava a urlare.
Tutto il mandracchio la udiva. Avrebbe dato la vita pur di farla tacere.
Cercò con gli occhi anche Berto, sul terrazzo della “Virtus”.
Non c’era più.
“È scappato - pensò, - è fuggito.”
E si sentì solo con la sua colpa, com’era solo lì nel caício.
A un certo punto, mentre da ogni parte si levavano voci e sui trabaccoli s’agitavano figure davanti ai fuochi e sulla riva qualcuno correva, sua madre non urlò più. Guardava, anziché nel tratto di mare lasciato vuoto dalla maona, più in là, verso i rimorchiatori.
Nello stesso istante, da quella parte, giunsero ad Ario alcune voci.
Si volse a guardare verso il “Titanus”, che grandeggiava accanto ai due rimorchiatori più piccoli, e vide, nel riquadro illuminato del boccaporto di prua, una figura atletica.
Era lui, Eneo; e dietro di lui – riuscì a scorgerla – Lidia. Si affacciavano a guardare verso la sacchetta.
La prima, assurda impressione che provò fu che suo padre, di lontano, attraverso lo spazio, gli fosse venuto in aiuto e li avesse salvati. E si sentì un istante palpitare il cuore.
Mentre il caício sobbalzava sulle ultime ondate, scorse, vicino, un cappello che galleggiava con la cuba all’ingiù.
“L’alpino!” pensò, e gli sembrò di rivederlo seduto sul bordo con la bisaccia al fianco e il fiasco in mano. “Era dunque lui, dentro. Non era andato via come credevamo. Lidia, salendo sulla maona, si dev’essere accorta che nella cabina c’era qualcuno, ed è subito uscita per andare con Eneo sul rimorchiatore. Era dunque lui, al buio”.
Ebbe un brivido, riudendo quell’ululato. “Sono un assassino lo stesso”, pensò. “Un assassino.” E afferrò i remi per lasciare subito quel posto.
Il cappello, urtato dal caício, si riempì d’acqua con un piccolo gorgoglio. Poi rapidamente affondò.»

Un dramma dell’adolescenza, dunque.
Un’estate in cui tre amici - Ario, Berto e Lidia - scoprono che, di colpo, tutto è cambiato fra loro. Lidia è diventata una ragazza, non è più una bambina; trascura i due vecchi compagni di giochi e diventa una delle numerose amanti di Eneo, bellimbusto di provincia, tanto fascinoso quanto vuoto e vile.
Perfino la mamma di Ario - il cui marito è lontano, chissà dove - stravede per Eneo e gli corre dietro, senza dignità, senza pudore; e suo figlio se ne vergogna terribilmente.
Un giorno, quando suo cugino Berto gli dà le prove della «infedeltà» di Lidia con Eneo, Ario decide di vendicarsi con una beffa atroce: togliere i tappi sul fondo della maona ove i due amanti si sono appartati, costringendoli così a scappare in gran fretta, sotto gli occhi di tutti.
Ma sulla maona, per un puro caso, non ci sono Lidia ed Eneo, bensì uno sconosciuto, un alpino capitato lì per partecipare ad un raduno del suo corpo; e sarà lui a finire intrappolato nella cabina, mentre la maona affonda,  travolta dalle ondate sollevate dagli incrociatori in movimento per le esercitazioni militari.
Ario, che voleva solo dare una lezione a Eneo e vendicarsi, in qualche modo, di Lidia, è gelato dall’orrore di ciò che ha fatto; né il suo atroce senso di colpa diminuisce, allorché si rende conto che la vittima involontaria della sua azione è un perfetto sconosciuto. Ha compiuto un omicidio, e sia pure senza volerlo; non potrà mai più dimenticare quella sera, nel porto di Trieste: la sua vita ne resterà segnata per sempre.
Come in altre sue opere, e specialmente ne «La calda vita» (1958), Pier Antonio Quarantotti Gambini, in questo romanzo «L’onda dell’incrociatore» (1947) - di cui abbiamo riportato il capitolo conclusivo - si dimostra un attento e sensibili esploratore dei meandri della psicologia adolescenziale, con i suoi turbamenti e soprassalti, con le sue paure e insicurezze, con le sue ardenti attese e le sue precoci, crudeli delusioni.
Nella luce abbagliante di una Trieste colta nella vita popolare e, per certi aspetti, sordida, del mandracchio, una sottile striscia di terraferma che si protende sul mare, irto di piccole imbarcazioni, chiatte, rimorchiatori, e popolato da una umanità di diseredati che ricorda quella di poesie come «Città vecchia» di Umberto Saba, l’Autore riesce ad evocare con arte sobria e tuttavia efficace la sottile sensualità che s’impadronisce di questi ragazzi non ancora uomini e non più bambini, i loro trasalimenti e le loro angosce, nel solco della migliore tradizione mitteleuropea, da Svevo a Musil, da Roth a Thomas Mann.
Anche questa, in fondo, come quella narrata ne «La morte a Venezia» dal grande scrittore tedesco, è una storia di amore e morte, ove l’iniziazione di un adolescente alla vita adulta assume le forme allucinanti e drammatiche di un rito crudele e incomprensibile, che spezza i sogni giovanili prima ancora ch’essi abbiano potuto materializzarsi nella foschia dell’incerto orizzonte.
E anche la scoperta del sesso, delle prime pulsioni ancora quasi inconsapevoli, si mescola e si brucia a contatto con il dramma di una morte assurda, causata da una vendetta insensata; per cui tutto il fascino di quella rivelazione si disperde e rimane irrimediabilmente sfregiato dal trauma che vi si accompagna, trauma che rivela le pulsioni oscure dell'anima.
Perché è difficile negare che, se Ario non desiderava, razionalmente, la morte di nessuno, pure, in qualche meandro del suo io, si era destato un impulso violento, potenzialmente omicida; e, se è vero che non aveva realmente desiderato la morte di Eneo, e meno ancora di Lidia, è altrettanto vero che avrebbe voluto infliggere loro una sorta di morte simbolica, una esclusione sociale, esponendoli alla curiosità malevola e al disprezzo di tutti gli abitanti del mandracchio.
Ecco, allora, che la morte di quel disgraziato alpino, capitato in città forse per salutare un suo figliolo, e venuto giù dai suoi monti ignaro di andare incontro alla propria fine, non può dirsi realmente casuale; egli è stato, piuttosto, la vittima espiatoria di un groviglio di tensioni, paure e delusioni che sono scaturite da quell'ultima estate del piccolo gruppo di adolescenti, allorché la maturazione sessuale di Lidia ha spezzato per sempre la loro collaudata intesa.
Qui l'Autore rivela il suo debito - come tutti gli scrittori triestini moderni, del resto, a cominciare dal suo amico Umberto Saba - con la psicanalisi; ed è, a nostro avviso, la dimensione meno felice del romanzo, troppo legata alle discutibili teorie freudiane sull'incesto e sulla libido infantile.
Quella più felice, invece, risiede nella notevole capacità di Quarantotti Gambini di evocare stati d'animo e paesaggi, gli uni e gli altri incerti come la linea della battigia, ove le onde del mare vanno a morire sull'umida sabbia: linea anfibia e misteriosa, che non è più terra e non è ancora mare; e che, come tutte le regioni di confine, è suscettibile di svelare le più inaspettate sorprese, prima fra tutte la rivelazione dell'io a se medesimo.

Nato a Pisino d'Istria, non lungi da Pola, nel 1910, e morto a Venezia nel 1965, Pier Antonio Quarantotti Gambini è uno dei più «mitteleuropei» scrittori italiani.
Laureato in legge a Milano, giornalista, collaboratore della famosa rivista fiorentina «Solaria», ha esordito nel 1932 con una raccolta di racconti, «I nostri simili», seguita dal romanzo «La rosa rossa», del 1937.
A queste prime prove ha fatto seguito il racconto lungo «Le trincee» (1942), poi confluito nel ciclo «Gli anni ciechi» (1955), cui appartengono «Amor militare», «L'imperatore nemico» e «Il cavallo Tripoli».
Poi è stata la volta dei due romanzi maggiori, «L'onda dell'incrociatore» (1947), di cui già si è detto, e «La calda vita» (1958), che riprende il tema centrale della difficile iniziazione dell'adolescenza all'età adulta, fra ombre e inquietudini; ma la proietta su un vasto sfondo storico che vorrebbe descrivere la parabola della borghesia triestina fra le due guerre mondiali.
Postumi sono stati pubblicati «Le redini bianche» (1967) e «La corsa di Falco» (1969).