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Le molte anime del Sionismo

di Sergio Romano - 12/05/2009

 

Ho riflettuto sulla sua risposta a Stanley Feiwell. Una società forte e in formazione come Israele può sempre trarre vantaggio dalle critiche. Credo di poter affermare che il sionismo non ha trapiantato in Israele un irredentismo di «terra e sangue». È stato influenzato dal nazionalismo romantico europeo. Ma né i «sognatori del ghetto», né i socialisti che hanno creato e sviluppato lo Stato, né le masse religiose di immigranti dai Paesi arabi, né gli ortodossi stessi, ostili al sionismo, hanno fatto loro l’idea del «sangue e della terra». Persino i coloni più radicali hanno sempre considerato idolatra l’idea di santificare il popolo attraverso la terra e il sangue. Non pochi credono di poterlo fare attraverso il ritorno alla terra.
Quelli che hanno pensato di farlo a scapito dei palestinesi nelle zone occupate non rappresentano un gruppo significativo. Non ne fa parte l’attuale dirigenza nazionalista religiosa, convinta come la maggioranza dell’elettorato, che un «grande Israele» sia irrealizzabile e pericoloso. L’evacuazione di Gaza lo dimostra. Ancor meno crede nell’efficacia delle armi dopo le operazioni contro gli Hezbollah del Libano e di Hamas a Gaza. Pensa che le vecchie formule di trattativa di pace siano illusorie. Cerca vie nuove, forse irrealistiche, ma non ispirate da un’ideologia di «sangue e terra». Mi sembra dunque onesto concederle il beneficio del dubbio. Analisi necessariamente brevi e puntuali come la sua possono indurre a pensare che il movimento nazionale ebraico sia identificabile con nazionalismi europei che degli ebrei e del sionismo sono stati i peggiori nemici.


Dan V. Segre,


Caro Segre, ai lettori che non la conoscono (pochi, ne sono certo) debbo dare qualche notizia che renderà la sua lettera ancora più interessante.
Lei ha fatto una scelta sionista nel 1938, all’età di 16 anni, quando si è imbarcato a Trieste su una nave per la Palestina.
Ha lavorato in un kibbutz, ha combattuto con gli inglesi nella Legione ebraica, ha risalito la penisola con gli Alleati, ha preso parte alla prima guerra arabo-israeliana ed è stato uno dei primi diplomatici inviati all’estero dal nuovo Stato.
Più tardi, dopo un tragicomico scandalo da cui uscì trionfante, lei si è diviso fra mestieri diversi: professore universitario, scrittore, saggista, giornalista.
Ha descritto il Medio Oriente per i lettori del Corriere e del Giornale. E ha raccontato la sua vita in due libri («Memorie di un ebreo fortunato», «Il bottone di Molotov») che sono, con i ricordi di Augusto Segre e quelli recenti di Arrigo Levi, piccoli capolavori di letteratura autobiografica.
Comincio dall’ultimo punto della sua lettera. È paradossale che un certo sionismo possa assomigliare a quei nazionalismi europei di cui le principali vittime furono, per l’appunto, gli ebrei. Ma il paradosso appartiene alla storia di una ideologia che si è progressivamente diffusa, dopo la rivoluzione francese, provocando guerre sanguinose fra Stati che si erano contagiati a vicenda con lo stesso morbo. Zev Jabotinskij, uno dei maggiori protagonisti della destra sionista, non poteva ignorare che l’amicizia del fascismo per il suo movimento era, nella migliore delle ipotesi, strumentale, e che il nazismo era nemico degli ebrei. Ma fu attratto in alcuni momenti da modelli che sembravano rispondere alle sue strategie.
In realtà nel sionismo vi sono molte anime. Quella che lei ha descritto è l’anima del sionismo mazziniano e socialdemocratico dei fondatori dello Stato.
Ma vi è anche un sionismo radicale che nasce dalle concezioni di Jabotinskij, passa attraverso l’organizzazione giovanile Betar, le cellule clandestine dell’Irgun Zwai Leumi, il partito Herut, costituito da Menachem Begin dopo la proclamazione dello Stato, il partito Gahal, nato dalla fusione tra Herut e i nazional-liberali, e infine il partito Likud, creato nel 1973 da Sharon e Begin. Jabotinskij, quindi, è il capostipite di una dinastia nella quale figurano alcuni dei maggiori uomini politici israeliani: Begin, Ytzhak Shamir, Benjamin Netanyahu e, benché appartenga a un partito diverso, Avigdor Liebermann, da poco ministro degli Esteri: tutti, in un modo o nell’altro, contrari alla creazione di uno Stato palestinese.
Lei ha ragione quando descrive le opinioni ragionevoli della maggioranza degli israeliani.
Ma il sionismo radicale ha finito per dettare o condizionare le strategie dello Stato.
Lo dimostra il fatto che nessun governo abbia potuto o voluto interrompere gli insediamenti coloniali nei territori occupati. Credo che con il ritiro da Gaza Sharon volesse soltanto «gettare zavorra», vale a dire sbarazzarsi di un territorio dove 20.000 soldati israeliani erano impegnati nella protezione di 8.000 coloni.
A questo punto, caro Segre, non ci rimane che attendere i risultati della visita di Netanyahu a Washington nei prossimi giorni. Mi auguro che diano ragione alle sue analisi e alle sue speranze.