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Il distanziamento della solidarietà

di Adriano Segatori - 13/05/2009

    

 


La solidarietà limacciosa.

“L’uomo solo incontra la depressione; e
a circolo vizioso, l’uomo depresso è un
uomo a cui mancano la forza e la spinta
per andare incontro al prossimo”.1
Luigi Zoya

Non c’è programma televisivo né giornata cittadina che non sia interrotto o scandita da qualche invito/evento solidaristico. Dai due euro per un sorriso ai bambini del Burkina Faso alla scuola contro l’analfabetismo dell’Alto Volta, dai profughi della Liberia in fiamme alle donne maltrattate di Kabul. E queste espressioni di pelosa compassione, smentite dal vecchietto del pianerottolo crepato da solo e trovato mummia in casa dopo sei mesi, o dalla ragazza violentata in metropolitana davanti a decine di persone impassibili e forse curiose, riportano alla dura accusa – e constatazione – di Giorgio Gaber in “Io se fossi Dio”:  “Infatti non è mica normale / che un comune mortale / per le cazzate tipo compassione e fame in India, / c’ha tanto amore di riserva / che neanche se lo sogna, / che viene da dire: / ‘Ma dopo come fa a essere così carogna?’”.
Qualche volta le manifestazioni partecipative alla sofferenza sono più vicine, e allora si organizzano vendite di uova colorate per le malattie rare oppure marce non competitive per le diverse abilità, o ancora maratone sentimentali contro inverosimili stigma: sempre e comunque accompagnate dalla richiesta di denaro e dall’esibizione di qualche testimonial lacrimoso.
Poi succede che dei lavoratori italiani vincano un appalto nella vicina e democratica Inghilterra, e a questo punto i soldi c’entrano, eccome: tant’è che immediatamente i sindacati più duri organizzano scioperi ad oltranza contro gli stranieri – europei – che vengono a rubare il lavoro, ad impoverire le già magre entrate dei proletari d’oltremanica, a rapinare i miseri capitali di Albione. Ed è con grande soddisfazione che viene riconfermata la profezia di Louis Ferdinand Céline: “Ancora una spudorata menzogna, un credo per teste avvinazzate, una sporta d’infamia, l’<<Internazionale proletaria>>! …L’<<Internazionale proletaria è vera come l’asino che vola…Non esiste fraternità operaia attraverso il mondo…Nei congressi, certo, senza dubbio! Nelle chiacchierate verbali e nelle verbose retoriche dei meetings operai, certo si fraternizza!... Una volta tornati a casa, gli stessi, esattamente gli stessi venduti, come accorrono dalla polizia per esigere, supplicare che si rinforzino le restrizioni, che si controlli l’immigrazione, che si dia ancora un giro di vite… Ecco il linguaggio concreto dei delegati fraternizzanti, dei più opulenti <<trade-unionisti>>, una volta che sono tornati a casa”2 .
In tutti i casi di moderna solidarietà che caratterizza questa organizzazione societaria senza anima e senza apertura verso l’alto entra il denaro: come mezzo per ripulirsi la coscienza e per allontanare da sé il contatto con il problema concreto, oppure come rivendicazione di un diritto che non può essere usurpato neanche di fronte alla diffuse e pervasive problematiche di miseria. In ogni caso è l’egoismo che la fa da padrone, anche di fronte alle ipocrite disponibilità elemosinarie.
Anche questo, in fondo, è il segno dei tempi, che smentisce l’antica ipotesi di Durkheim: la coscienza collettiva, che si dovrebbe rinforzare, che dovrebbe aumentare la sua coesione di fronte alle difficoltà di una comunità considerata come un essere vivente autonomo, in cui le istanze religiose dovrebbero costituirsi in quella volontà sociale rappresentata dal senso del sacro condiviso, si liquefa miserevolmente di fronte al bisogno materiale e al sogno svanito di benessere. Come per il discorso lavorativo vale l’ormai inflazionata considerazione di Evola che il proletario non è altro che un borghese mancato, così per la solidarietà pesano le osservazioni di Zoya per il quale, oggi, vale “il sentimentalismo del dolore-spettacolo”, che ha sradicato la solidarietà reale nella vicinanza concreta, perché “l’incapacità di conciliare legame sociale e desiderio equivale sempre alla vittoria di quest’ultimo”3 . La solidarietà, che è ridimensionamento dei desideri individuali e creazione di un desiderio comune, non può sussistere in una condizione di laicismo esasperato e di indirizzo darwinistico nei rapporti umani; non può nemmeno essere percepita nel momento in cui il legame comunitario è stato degradato a contratto sociale e, nella stessa circostanza, in cui “la morte di Dio ha svuotato il cielo (…) l’uomo ideale è trasfigurato, divinizzato”4 5 .  La solidarietà nasce e si manifesta nel momento in cui il problema dell’altro diventa il problema condiviso nella comunità, mentre viene respinta quando è vissuta come un peso riversato sul singolo, un peso che è sentito come zavorra per le aspettative dello stesso.
Il problema di questo distanziamento è anche dovuto al fatto che l’uomo, ogni uomo, è sempre meno libero – dalle intromissioni dello stato, dall’organizzazione del lavoro, dalle pressioni prestazionali, dai condizionamenti tecnologici, dalla insicurezza esistenziale. Gli è stato fatto credere di essere libero negandogli il senso della trascendenza, il valore delle idee, il significato del dovere e la virtù della responsabilità; e lui è caduto beotamente nella trappola della seduzione, illudendosi di un suo talento intrinseco, di un suo diritto totalizzante, di una sua volontà incontenibile, di una sua inesauribile potenza. Il tutto, ovviamente, esteriorizzato nelle sue manifestazioni, senza educarlo all’unica e vera libertà che è solo quella interiore, perché – come ha perfettamente indicato nel persuaso Carlo Michelstaedter –: “Se anche fossi solo del tutto, la mia solitudine sarebbe più ricca del loro accompagnarsi (…) e non si può dir niente a nessuno, non si può essere niente per nessuno, se non s’ha, se non si è per se stessi”6 . Noi, in parole semplici, possiamo essere sinceramente solidali, concretamente compartecipi all’altro, soltanto nel momento e nella misura in cui abbiamo la consapevolezza – la persuasione – di chi siamo, di quale è il nostro ruolo, di come si prospetta il nostro destino. In una realtà in cui l’amore è liquido, la vita è liquida, il capitale è liquido, tutto è liquido – per usare l’aggettivo tanto caro a Bauman – anche il prossimo diventa liquido e, con esso, qualsiasi forma di solidarietà. Questo sentimento, questa propensione ha la necessità di definirsi attraverso una forma, all’interno di un dispositivo, con delle modalità di reciprocità. Come ha specificato Luigi Zoya, il dono – che è il simbolo principe di azione solidale – nell’Odissea è dòsis, che nella “radice indoeuropea do- significa dare ma anche prendere, [da cui], non è dunque un caso che, nelle lingue europee, <<dose>> significhi ancor oggi <<giusta quantità>>”7 .
 Ecco, quindi, che nel vago, mistificatorio e spesso artificioso argomentare sulla solidarietà, viene ad aggiungersi un ulteriore parametro di misura, un supplementare item di giudizio: la giusta distanza dall’altro, la scelta partecipativa che permette di decidere se accorciare o meno la distanza, la possibilità di stabilire come, dove, quando, perché e con chi mettere in gioco la propria persona.

La volontà della scelta.

“La liberazione infatti non ha contenuto se non
 individuale, per ciascuno di noi e non per la
turba, che è incapace di comprendere il rap-
porto esistente fra idea di vuoto e sensazione
di libertà. Non si vede come l’umanità po-
trebbe essere salvata in blocco; impantanata
nel falso, destinata ad una verità inferiore,
sempre confonderà apparenza e sostanza”8
Emil M. Cioran

È impossibile definire in successione temporale la causa e l’effetto di questo degrado dei rapporti umani. Certo è che, in simultaneità, più la solidarietà è diventata oggetto di rappresentazione mediatica ed argomento di carattere giuridico-amministrativo e più la concretezza del gesto di ascolto e di aiuto si è resa evanescente e lontana. Osserva giustamente Zoya che l’indicazione evangelica “Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua anima, con tutta la tua mente…Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22, 37-39b) presuppone tre paradigmi ineludibili e totalmente allegati tra loro: un Dio, un se stesso e un vicino – da amare. Questi stessi paradigmi sono i nuclei fondanti della comunità: sacralità, personizzazione9 , legame, e non sono neppure lontanamente – come si è ripetuto più volte e in diverse circostanze –riconosciuti in una organizzazione societaria. La partecipazione del divino è il nucleo essenziale per sublimare le istanze individualistiche, per convogliare verso l’alto tutte le pulsioni umane trascendendole in un progetto elevato; l’amore di sé equivale alla riconquista, alla riattivazione della propria anima: un’operazione che porta al riconoscimento di una essenzialità personale che può essere chiamata anche vocazione e destino; il prossimo è il vicino, quello che si può toccare, con il quale si può condividere la parola e il significato psicologico e culturale della stessa.
Quando il grido di Nietzsche – Dio è morto! – è stato assunto come parametro fondante della società laica e illuminista, quella stessa società la cui politica è impersonata da figure evanescenti che esaltano “la fine delle ideologie”, il ripudio del “ciarpame delle nostre radici”, la “ammenda per il nostro passato”, il prossimo non è morto, semplicemente è stato virtualizzato, e la benevolenza distanziata nel tempo e nello spazio: i due euri da inviare domani con un sms!
Quando amare se stessi, nel senso più nobile di educarsi, di elevarsi, di faticare per trovare il mito personale che – come osserva Hillman – ha in sé qualcosa di divino, è stato tradotto nel più sterile narcisismo, nella più patologica negazione della propria identità, nell’aberrante dipendenza dalla considerazione e dalla accettazione esterna, nel più irrealistico ideale proposto dai manipolatori di massa, il prossimo è al massimo o un antagonista sociale che deve essere superato o un esempio di fallito che deve essere emarginato: mai, comunque, un interlocutore diverso da accettare in quanto tale
Quando il vicino, poi, non è concreto e quotidiano del legame comunitario, quel prossimo che per “l’Antico testamento riguardava i fedeli di Yahweh, non gli altri popoli”10 , ma che l’astrattezza cristiana ha trasformato “in prossimo anche l’abitante più lontano della Terra”11 , ecco che allora la solidarietà svanisce nel grigiore del condominio e si ripropone nelle luminarie delle serate televisive: con cinque euri mensili per un’adozione a distanza tutti si sentono più buoni!
La solidarietà, perciò, non può che essere l’espressione di un sentimento di comunanza, ben diverso dal buonismo accattone e dalla compassione lacrimevole. Del resto, sia l’uomo che il suo contesto di specifica appartenenza hanno perduto il senso del loro essere, e come afferma Hillman: “Tanto il mondo là fuori quanto quello dentro di noi hanno subìto il medesimo processo di depersonificazione. Siamo stati tutti privati di anima”12 . La desanimazione ha sterilizzato rapporti ed ha burocratizzato relazioni, e per surrogare a questa aridità sono state inventate delle finzioni accomodanti: il <<Tu>> come pronome di familiarità, di fasulla intimità; il bacio distribuito tra estranei, tra capi di Governo, tra ignoti conviviali; gli happenings della bontà, in cui tutti si sbrodolano in dolorose prefiche e in gioiosi intenti, sempre – come declamava Giorgio Gaber – “con il gusto della lacrima / in primo piano”.
Il fatto è che la distanza vera, quella dello stile e del garbo del tempo passato, era paradossalmente il presupposto della solidarietà, in quanto ciascuno si sentiva responsabile della comunità di appartenenza secondo il proprio ruolo e la propria possibilità. Ognuno, secondo la disponibilità possibile, dosava il dono e lo distribuiva secondo necessità ed obiettivi impersonali. Ora, nella vicinanza fittizia, il donatore, il solidale partecipa in maniera esibizionistica alla saga della bontà, purché nessuno gli chieda mai un contatto fisico, una continuità corporea, la preziosità di un po’ di tempo giornaliero.
Per ritornare alle triadi che definiscono il senso dell’amore e della solidarietà, l’amore per un Dio non può che essere infinito, come infinito deve essere l’amore per se stessi nell’accezione di voler “diventare ciò che si è” secondo un proprio destino. Ma se non c’è nessun Dio da amare, e se l’amore di sé è solo la copertura narcisistica di una depressogena e disperante insufficienza terrena, cosa può distribuire quest’uomo ad un altro? In un mondo globalizzato, dove certe vicinanze sono diventate estreme e spesso non volute, e dove le distanze personali e geografiche si sono allentate a causa dell’artificialità dei contatti e della contrazione del tempo, forse occorre – come auspica Alain Touraine – un nuovo paradigma per costruire il presente. Forse occorre ritornare all’ipotesi di Carl Schmitt per ridefinire il senso della solidarietà: individuare un nemico al quale negarsi ed un amico al quale donarsi; selezionare l’obiettivo del proprio rifiuto e del proprio sostegno; ripensare all’etimologia del munus che è dovere, che è dono, ma che è anche muro, limite, confine. In questo modo, finalmente, si avrà il coraggio di ripudiare quel concetto falso, mistificatorio e fuorviante che è l’umanità – quasi sempre un paravento della vuotezza parolaia – per ritornare alla concretezza della comunità, che è identità e destino condivisi. Con un po’ di spregiudicatezza, è auspicabile un’accettazione del concetto di prossimo dell’Antico Testamento, o almeno al vecchio proponimento politico che ricordava come “la mia Patria è là dove si combatte per la mia idea”. Anche per la solidarietà devono valere questi principi.  La bontà distribuita a pioggia rientra nel “pauperismo vetero-marxista” denunciato da Costanzo Preve: una elemosina diffusa a troppi, una insoddisfazione dilatata a molti, una ripulitura di coscienza elargita a tutti.

 1 L. ZOYA, La morte del prossimo, Einaudi, Torino, 2009, p. 13.
 2 L.F. CÉLINE, Bagatelle per un massacro, trad. it., Corbaccio, Milano, 1938, pp. 153-4.
 3 L. ZOYA, La morte del prossimo, cit., pp. 21 e 99.
  5 Ivi, p. 5.
 6 C. MICHELSTAEDTER, Epistolario, Adelphi, Milano, 1983, pp. 448-52.
 7 L. ZOYA, La morte del prossimo, cit., p. 4.
 8 E.M. CIORAN, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano, 1986, p. 62.
 9 Personizzazione – secondo l’indicazione di Hillman – è un po’ di più di individuazione: non è solo percorso di riconoscimento del Sé, ma la concretizzazione responsabile di un proprio unico ed irripetibile destino.
 10 L. ZOYA, La morte del prossimo, cit., p. 4.
 11 Ivi, p. 4.
 12 J. HILLMAN, Re-visione della psicologia, trad. it., Adelphi, Milano, 1983, p. 32.