Nei discorsi pubblici su «cosa ci vorrebbe» si vola alto, si parla di bisogno di civiltà, umanità, accoglienza. Tutto vero naturalmente, ma a molti sembra spesso vago. Le civiltà sono molte e diverse; le idee sull’«umano» anche; l’accoglienza forse dovrebbe essere reciproca, l’autoctono deve accogliere lo straniero, ma anche questo ultimo deve accogliere chi è già lì, le sue idee, norme e costumi.
C’è però un bisogno più semplice, elementare, condiviso da tutti: quello di gentilezza.
Basta ascoltare le vecchie canzoni, e confrontarle con gran parte dei rap di oggi, per capire che è in atto un indurimento dell’esistenza. La vita appare intrisa di un’aggressività esagerata, a volte caricaturale. Che i giovani per primi denunciano, anche se spesso proprio loro vi indulgono (come il gruppo tedesco di Kannibal Instinct). Anche i media, amplificando ogni cosa, danno però molto più spazio ai gesti di aggressività che a quelli di gentilezza.

Fin da prima della crisi, ormai da molti anni nessuno dice più a una donna: «Ti amo», oppure: «Buon compleanno!», comprandosi una pagina di quotidiano. Mentre giornali e televisioni divulgano e amplificano accuse coniugali, privatissimi retroscena sentimentali, notizie e commenti rancorosi, dove ogni gentilezza è assente.
La mancanza di gentilezza continua poi nei gesti quotidiani di tutti, nel fare la spesa, nel modo di rivolgersi al cliente, al venditore, al fornitore. Migliaia di durezze, di sguardi taglienti, di commenti secchi, hanno nel corso degli anni preso il posto dei sorrisi, delle battute cordiali, delle occhiate sorridenti. Gli italiani, grandi e apprezzati protagonisti del sorriso e della battuta, non sorridono quasi più, e negli incontri di ogni giorno si tengono molto sulle loro. I soldi non c’entrano: tutto ciò è cominciato in anni di benessere senza precedenti, e da allora non si è più arrestato.
Tanta durezza non è affatto naturale. Anche se la vita non è un’infinita festa da ballo, e anzi proprio per questo, ogni società si è sempre impegnata ad accompagnare i suoi riti e momenti sociali con forme e modi di scambio più piacevoli, e meno distruttivi possibile. L’essere umano non regge una vita quotidiana incessantemente competitiva, sgradevole, dove l’altro che incontri non solo non ti ama (non è suo compito), ma ti attacca. Non ce la fa.
Dietro la moltiplicazione di disagi come gli attacchi d’ansia, quelli di panico, le diverse forme di fobia sociale (i ragazzi che non escono dalla propria camera, gli adulti asserragliati nel proprio tinello, o nel locale-cantina degli attrezzi), c’è anche questo: la fatica di vivere una socialità ostile, non amichevole, diffidente e chiusa.
La modernità ricca e sviluppata deve porsi il problema di come recuperare la gentilezza quotidiana delle società più povere e tecnicamente arretrate che l’hanno preceduta. Si tratta di un’operazione ormai indispensabile. Non per superiori ragioni morali, o dettami politici, ma perché la socialità senza gentilezza non funziona, si inceppa, crea problemi (e costi, anche sociali) infiniti. Il tranviere perennemente arrabbiato (come quelli di molte grandi città), che riparte senza badare alla vecchietta che sta ancora scendendo, diffonde aggressività e malessere, anche se è sindacalmente tutelato. Altrettanto, naturalmente, vale per l’industriale o il politico arrogante che non si fa carico dei bisogni dei dipendenti, e dei cittadini. Basta poco.
Un po’ di gentilezza: un sorriso, uno sguardo di simpatia, una mano tesa. Coloro che faranno spontaneamente questi gesti, saranno i protagonisti di domani.