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Il libro della settimana: Marzio Barbagli, Congedasi dal mondo.Il suicidio in Occidente e in Oriente

di Carlo Gambescia - 14/05/2009



Il libro della settimana: Marzio Barbagli, Congedasi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 526, euro 32, 00 - www.mulino.it

Che cos’è il suicidio? Un atto di libertà? O un atto contro se stessi e/o contro Dio? E oggi dal punto di vista sociale il suicida come viene giudicato? Quanto è mutato storicamente e sociologicamente, il metro di giudizio nei riguardi di quello che, dal punto di vista individuale, resta l’ atto anticonservativo per eccellenza?
A tutte queste domande, e allargando l’analisi all’universo non occidentale, prova a rispondere Marzio Barbagli, professore di sociologia presso l’Università di Bologna (Facoltà di Scienze dell’Educazione), nonché membro eminente dell’establishment sociologico italiano e internazionale, in Congedasi dal mondo. Il suicidio in Occidente e in Oriente (il Mulino, Bologna 2009, pp. 526, euro 32, 00).
Barbagli si propone soprattutto, se ci si passa l’espressione, di fare le bucce a quella che da oltre un secolo è la “Bibbia Sociologica” in argomento: Le suicide: étude de sociologie di Emile Durkheim.
In particolare Barbagli si propone di dimostrare l’infondatezza delle due principali tesi durkhemiane. Quali? Quella che con “l’avanzare della storia” il divieto di togliersi la vita sarebbe divenuto “sempre più rigido”. E quella che la riprovazione del suicidio sarebbe cresciuta grazie all’affermazione di una sacralità laica della persona umana, protetta dai poteri pubblici.
Vi riesce? Difficile dire. E non è questa sede per una analisi approfondita. Ci sembra però che il libro abbia una sua debolezza teorica di fondo. Pur rifiutando le tre principali categorie concettuali durkhemiane (suicidio altruistico, egoistico, anomico), Barbagli non riesce a costruire concetti analitici altrettanto efficaci, in particolare sotto l'aspetto socioculturale. E soprattutto commette un errore metodologico di fondo, gravissimo per un sociologo. Esamina il suicidio dal punto di vista delle intenzioni dell’attore sociale, e non da quello delle cause sociali, o se si preferisce, per dirla con Durkheim, dei “fatti sociali” . Ma anche culturali: omettendo, ad esempio, di ricorrere alle tipologie di mentalità socioculturale, coniate da un altro autore classico della sociologia, Pitirim A. Sorokin: ideazionale ascetica e attiva, sensistica attiva, passiva e cinica; pseudo-ideazionale, idealistica. Si veda lo schema in P.A. Sorokin, Social and Cultural Dynamics (Bedminster Press, New York 1962, vol. I, pp. 97-99). Tipologie utilissime per studiare il suicidio, come mostra, sempre Sorokin, ne La crisi del nostro tempo (Arianna Editrice, Bologna 2000, pp. 191-196).
Ma per combattere ad armi pari Durkheim e per riscoprire Sorokin, Barbagli avrebbe dovuto prima riflettere sui limiti teorici dell’individualismo metodologico. O comunque sulla necessità di temperarlo, in alcuni ambiti di studio come quello del suicidio, ricorrendo - certo, senza cadere nell’eccesso opposto - agli strumenti dell’olismo metodologico: dove sono appunto privilegiati i significati sociali e culturali. O se si vuole “il pensiero” delle istituzioni sociali.
E invece no. Scrive Barbagli: “Nelle pagine che seguono mi servirò di una tipologia (…) basata sui propositi degli individui e sul significato che esse attribuiscono al loro gesto” ( p. 15). Di qui la sua bipartizione concettuale del suicidio dal punto di vista del “contro chi” e "per chi" ( se stessi; anche gli altri), che resta psicologistica e quindi riduttiva. E a nulla serve l’ulteriore partizione del suicidio in egoistico e altruistico, aggressivo e come arma di lotta, condannata a muoversi, anch’essa, nell’alveo dell’individualismo metodologico, a sfondo psicologico.
Su queste basi resta perciò difficile seguire fino in fondo la pur densa opera ricostruttiva di Barbagli. Che anche sul piano storico finisce così per disperdersi nei mille rivoli di curiosità che possono solo avere valore antiquario, come certa sociografia d'antan alla Herbert Spencer. Senza così riuscire a dare risposta certa, e soprattutto sociologica, ai quesiti iniziali.
In questo senso Congedarsi dal mondo, resta un libro di psicologia o di storia sociale piuttosto che di sociologia. Peccato.