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Occorre farsi piccoli per divenire così grandi da accogliere l'universo sul palmo della mano

di Francesco Lamendola - 18/05/2009


Vi sono, verso la fine di maggio e al principio di giugno (quel mese straordinario, inebriante, che gli antichi Greci chiamavano Targelione) delle giornate strane, in cui pare che la Natura sia come sospesa e che il mondo voglia quasi trattenere il fiato.
Il cielo è chiuso, grigio, carico di nubi; cade una pioggerella sottilissima, preannuncio di un temporale imminente, che però non si decide a sfogarsi e indugia lungamente dietro la cortina delle nuvole, oltre le cime dei poppi e delle betulle che si piegano al vento.
È un vento fresco che irrompe nell'aria tiepida della tarda primavera e porta con sé il profumo della terra umida, della vegetazione che erompe dai campi e dalle colline, della vaga e indefinita attesa di una promessa che sembra ormai sul punto di realizzarsi, sebbene noi stessi abbiamo scordato di che cosa si tratti.
Le fronde stormiscono, le rondini volano basse, il concerto dei grilli si fa più intenso, come se gli insetti e le creature tutte fossero afferrati da una sorta di magia e volessero vivere più intensamente, prima che la pioggia torrenziale li costringa a rintanarsi nel silenzio.
Sono i giorni azzurri che annunciano l'estate; e nei quali, tuttavia, è come se l'inverno ormai finito volesse far sentire un'ultima eco della sua forza perduta.
Bello è il contrasto fra la dolcezza del clima e la cupezza incombente del cielo basso e corrucciato; fra la sensualità di una natura ormai vestita di luce e di calore e il respiro severo del vento che scende dalle montagne e scuote le chiome degli alberi.
Vi è in esse una dolcezza venata di profonda malinconia, una pensosità che si nutre dei dolci succhi della frutta che va maturando sui rami, ma che si rannuvola come la ruga comparsa d'improvviso sulla fronte della persona amata.
Si vorrebbe che il tempo si fermasse, che le ore non scorressero più; che tutte le lancette di tutti gli orologi smettessero di avanzare.
Ed ecco che la pioggia, la pioggia vera, lungamente trattenuta, precipita dal cielo e bagna ogni cosa in un istante, gettando una lucida patina fresca sulle strade e sui tetti delle case, tamburellando sulla corrente del fiume, avvolgendo i tronchi dei pini in una veste rorida e zampillante, che esalta il profumo della resina e getta riflessi come scaglie di luce.
In terra, si spalancano quasi di colpo innumerevoli occhi di cielo, minuscoli laghi evocati come al sussurro di una formula indecifrabile; e da ciascuno di tali mondi capovolti ammicca un altro mondo lontano, pieno di freschezza e di vigore, circonfuso di mistero, vicinissimo eppure inafferrabile.
Una sensazione penetrante carezza le membra, s'insinua sotto i vestiti, esplode nella mente con la forza di un ricordo meraviglioso e inesplicabilmente dimenticato.
Mai, come in questi momenti, ci si sente ad un passo dal mistero della vita: come se l'ultima parete trasparente fosse già sul punto di cadere, lasciandoci a tu per tu con lo splendore dell'Essere. Eppure mai, come in questi momenti, ci si sente stranamente fragili e indifesi e oscuramente consapevoli che quell'ultima parete non cadrà: e che è giusto, in fondo, che sia così, se ancora non siamo pronti.
Ci si sente uno col Tutto; ma anche, chissà come, distaccati e contemplativi: perché contemplare vuol dire che vi sono ancora un io e un tu, un dentro e un fuori, un qui e un altrove.
È come trovarsi sospesi fra due abissi: l'abisso del contingente e quello dell'assoluto; l'abisso della necessità e quello della libertà: e alla fine scoprire che, in effetti, essi coincidono, sono una cosa sola.
Brandelli di ricordi, di sensazioni, di sogni, si accavallano e si sovrappongono: volti di sconosciuti, gesti di saluto, colori gioiosi, voli d'uccelli, sorrisi, odori, la mano del nonno che stringe la nostra lungo la strada, l'arcobaleno che si stende al di sopra di un verde giardino, il treno che lentamente si mette in movimento ed esce dalla stazione, sotto la pioggia.
È in questi momenti che si fa strada - dapprima timida e incerta, poi sempre più chiara e netta - la certezza che solo facendosi piccoli, solo lasciandosi andare, smettendo di gonfiare il proprio ego, si può diventare grandi abbastanza per accogliere il mondo intero sul palmo della mano; e che ciò dipende da noi, solamente da noi e da nessun altro.
Così come la goccia d'acqua riflette il mare e la pozzanghera rispecchia l'immensità del cielo, allo stesso modo l'anima può dilatarsi fino ad inglobare in sé il mondo intero: benché, propriamente parlando, né essa si dilati, né abbia il potere di inglobare le cose: essa è il mondo, è tutt'uno col mondo; ma tende a scordarlo.
Quando il soffio dell'Essere la sfiora, l'anima torna in sé, si riscuote, diviene consapevole: si trasfigura, si riconosce, si ama e si abbandona; e, attraverso di essa, i cieli e gli universi si spalancano, la luce irrompe a fiotti possenti, ventate d'aria fresca spazzano l'odore di chiuso e rinnovano il miracolo della gioia, della consapevolezza.
Quando il soffio dell'Essere la sfiora, l'anima ritrova la strada di casa, ritorna a se stessa: e, ritornando, non perde più nulla, non dimentica nulla, non si separa da niente e da nessuno, ma tutto ritrova, tutto accoglie, di tutto gioisce illimitatamente.
Essa non è più debole e indifesa, ma grande, possente, indistruttibile, trionfante e partecipa della magnificenza del mondo.

«Voi dunque partirete con gioia,
sarete condotti in pace.
I monti e i colli davanti a voi
eromperanno in grida di gioia
e tutti gli alberi dei campi batteranno le mani.
Invece di spine cresceranno cipressi,
invece di ortiche cresceranno mirti;
ciò sarà a gloria del Signore,
un segno eterno che non scomparirà.» (Isaia, 55, 12-13).

Una musica si dispiega nell'anima, un'armonia celestiale: come una fuga per organo di Bach, ove tutto è grazia, misura, proporzione, forza e incondizionata fiducia in Dio.
Questo, dunque, è il segreto: non stringere il pugno, ma aprirlo; non sgomitare per farsi avanti, ma trarsi indietro; non alzare il tono della voce per farsi udire, ma fare silenzio e ascoltare. Non dire più «io», non bramare, non protendersi, non cercare di afferrare; smettere, una buona volta, di lasciarsi ridurre in servitù dall'avidità, dall'ansia di riconoscimenti.
Il mondo è generoso quanto basta per introdurci al suo segreto, se la smettiamo di picchiare all'uscio come chi ha il diritto di entrare: perché la porta è solo socchiusa, ma non cede che al tocco di una mano disinteressata. Ed è abbastanza lieve da lasciarsi prendere tutto in una sola mano, se quella mano non pretende di farne una sua proprietà.
Questo, dunque, è il segreto: farsi piccoli, farsi leggeri, lasciarsi andare; farsi trasparenti, per non frapporre uno schermo tra sé e l'Essere; farsi umili e semplici come la foglia portata dal vento e trascinata dalla corrente del fiume, verso il mare.
La nostra anima anela al mare, al mare dell'Essere: vorrebbe raggiungerlo per fondervisi, per trovarvi infine la sua pace.
Dunque, si tratta di non lasciarsi trasportare dall'istinto di aggrapparsi alle cose, di volerle afferrare; istinto che, in fondo, nasce dalla paura. L'anima ha terribilmente paura di perdere le cose, di vedersele sfuggire: e più stringe la presa, più sente che esse si allontanano da lei; pure, fatica molto a liberarsi da un tale istinto.
Tutta la nostra vita è intessuta di paura: paura di non essere amati, di non ricevere gratificazioni e riconoscimenti, di non avere quanto ci spetta; paura di ammalarci, di invecchiare, di morire; paura di essere abbandonati, ingannati, traditi. E a tutte queste paure tendiamo a reagire mettendoci in competizione con tutto e con tutti: con gli uomini, con il tempo che fugge, con  il mondo che sembra ignorare le nostre richieste, eludere la nostra presa.
Desistere dalla competizione, è come udire di nuovo le note gioiose del merlo che risuonano alla fine del temporale e che annunciano il ritorno del sole attraverso il sipario delle nubi squarciate, come se quest'ultimo illuminasse il mondo per la prima volta.
Udire il merlo con l'anima svuotata, finalmente, dalla paura e dall'ansia di competizione, è come udirlo per la prima volta; guardare il mondo con l'anima alleggerita da quel fardello, è come vederlo realmente per la prima volta.
Non stringere più le dita, non voler più strappare brandelli di felicità, è come rinascere; ed è come ritrovare ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, perché non esiste ricchezza maggiore del non voler possedere più nulla.
Questa è la grande lezione di vita che ci viene dall'Essere: più vogliamo essere grandi, più diverremo piccoli ed infelici, eternamente minacciati; e più ci sforziamo di diventare piccoli, più diverremo grandi, gioiosi e sicuri.
Allora potremo levare un inno di lode all'Essere, esprimendo riconoscenza per ogni più piccola cosa; tutto sarà come rinnovato da un alone di splendore.
Una poetessa inglese, Eleanor Farjeon (1881-1965), ha espresso mirabilmente questo senso di trepidante stupore e di intensa commozione nel celebre inno «Morning has Broken», del 1931,  per un'antica canzone gaelica legata al villaggio scozzese di Bunessan.
Esso è poi stato cantato da Cat Stevens - in seguito, Ysuf Islam, - all'inizio degli anni Settanta del Novecento:

«Morning has broken, like the first morning
blackbird has spoken, like  the first bird.
Praise for the singing, praise for the morning
praise for the springing fresh from the word.

Sweet the rain's new fall, sunlit from heaven
like the first dewfall, on the first grass.
Praise for the sweetness of the wet garden
Spring in completeness where his feet pass.

Mine is the sunlight, mine is the morning
born of the one light, Eden saw play.
Praise with elation, praise every morning
Gods recreation of the new day».

Versione italiana di Maurizio Lamendola:

«Il mattino è sorto come il primo mattino,
il merlo ha parlato come il primo uccello.
Lode (sia) per il canto, lode per il mattino,
lode perché essi sgorgano freschi dalla parola.

Dolci le piogge nuove cadono, illuminate di sole, dal Cielo,
come la prima rugiada caduta sulla prima erba;
lode per la dolcezza del giardino bagnato,
sorto in completezza dove i Suoi piedi passano.

Mia è la luce del sole, mio è il mattino
nato da quella luce che l'Eden vide (brillare);
Lodate con esultanza, lodate ogni mattino
la ri-creazione di Dio del nuovo giardino.»