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20 anni senza socialismo reale

di Giovanni Di Martino - 18/05/2009

Iniziava tutto 20 anni fa. Il 1991, al termine del quale andava in frantumi l’ultimo tentativo di salvare l’Unione Sovietica dall’implosione non spontanea passata alla storia come la “fine del comunismo” (?), è considerato come l’ultimo anno del così detto “secolo breve”, ossia l’era in cui secondo Hobsbawn (e non solo) sono concentrati tutti i cataclismi e i crimini della storia. L’era dei totaliarismi da non ripetere mai più è finalmente terminata e si può voltare pagina, guidati, anzi condotti, da Bill Clinton negli Stati Uniti, Boris Elstin in Russia (allora C.S.I.), e Arrigo Sacchi nell’italietta vassallo - satellitare (dove l’evento significativo dell’anno è probabilmente stata la fine del gioco a uomo della Nazionale di calcio, l’unico campo che veramente interessi a tutti).

soviet_propaganda_-fondo-magazinePur non ritenendo valida l’assurda e semplicistica teoria del “secolo breve”, il 1991 deve essere considerato come una data spartiacque sia a livello storico (finisce la Terza Guerra Mondiale, “fredda” in Europa, ma estremamente calda altrove, per improvvisa sparizione di uno dei due attori), che a livello politico e sociale (i socialismi reali - o capitalismi di stato - lasciano il posto a un capitalismo immaturo e oltranzista che trasforma l’est europeo in un gigantesco bordello governato dalla mafie). Prima dell’Unione Sovietica, però, cadono uno ad uno i governi socialisti del Patto di Varsavia: Romania, Germania, Polonia e tutti gli altri al seguito.

L’inizio della fine va quindi retrodatato di due anni, con la caduta del muro di Berlino e l’esecuzione del presidente - despota rumeno Ceaucescu, a seguito di un colpo di stato promosso dai servizi segreti di americani e sovietici, e benedetto dalla chiesa locale. Una sorta di punizione per avere tentato di non chinare la testa a nessuno (condannando l’invasione russa di Praga, ricevendo Nixon, concludendo accordi con la Cina prima del disgelo sovietico con quest’ultima, e addirittura con l’Iran, ma soprattutto non indebitandosi con nessuno), poi fatta passare come rivolta del popolo affamato contro un tiranno che viveva nel lusso.

Ma se l’inizio della fine (per il socialismo reale) va posto nel 1989, l’inizio dell’inizio va collocato qualche anno prima, con un barbaro cambio della guardia avvenuto in due posti nello stesso modo: prima al timone dell’Unione Sovietica, e poi a quello del misero e mastodontico Partito Comunista Italiano. I vecchi dirigenti consumati dall’età, vengono sostituiti da nuovi quadri più giovani anagraficamente ed assolutamente non adatti alla guida di uno stato (e di un partito) comunista in un momento così delicato. Il dilettantismo si è presto riconvertito nel tradimento di ideali che erano stati imparati a memoria come le preghiere e perciò sbandierati in lungo e in largo, ma mai veramente compresi, e successivamente nel tradimento di tutto il seguito, al quale, in qualche modo, occorreva spiegare come prima non si fosse capito nulla e come le cose stessero in modo diverso (ma in Italia, l’eurocomunismo sotto l’ombrello dalla NATO di Berlinguer aveva già spianato la strada al nuovo corso).

In Unione Sovietica, la morte di Cernenko (1985), ampiamente attesa dai burocrati di nuova generazione, viene annunciata in ritardo e addirittura sui giornali è collocata dopo l’elezione di Gorbaciov a nuovo premier. In questo strano modo finisce il breznevismo e inizia la perestrojka. In Italia, la morte di Alessandro Natta, ampiamente attesa (fin dal 1984, ossia quando Natta sale alla segreteria del PCI) da Achille Occhetto (pare che a Botteghe Oscure Natta fosse soprannominato Capannelle), avviene solo nel 2001. Ma nella primavera del 1988 un infarto e la relativa convalescenza di Natta, vengono fatti passare dai nuovi burocrati picisti come un male dal quale il vecchio Capannelle non avrebbe più potuto rialzarsi, e dunque si affrettarono a sostituirlo con Occhetto (il resto è storia nota: PCI - PDS - DS - PD - DC, ossia Franceschini, allievo di Zaccagnini, a capo degli ex comunisti pentiti).

Il socialismo reale, o comunismo storico novecentesco, ha seguito, a partire dal biennio 1989 - 1991, tre differenti percorsi: quello della dissoluzione catastrofica implosiva, quello della riconversione guidata e quello della marginalizzazione testimoniale - identitaria (la tripartizione è di Costanzo Preve, Un’approssimazione al pensiero di Karl Marx, Il Prato, 2008).

La dissoluzione catastrofica implosiva è l’infelice ultimo atto del socialismo reale sovietico ed europeo: una sconfitta non militare, né, tutto sommato politico economica, in quanto il sistema sovietico avrebbe potuto essere ancora vivo oggi con pregi e difetti. Un’implosione dovuta a quattro cause principali: la riconversione dei ceti medi socialisti, e soprattutto degli apparati di partito, in nuova classe dirigente para mafiosa, l’introduzione di ingenti capitali da parte delle potenze straniere (a testimoniare che le rivoluzioni oggi non si fanno più prendendo la Bastiglia o assaltando il Palazzo d’Inverno), l’apatia del ceto operaio/proletario, ormai solo più formalmente base sociale di riferimento e, last but non least, la finzione riuscita perfettamente a Regan e Bush padre, che hanno fatto credere a Gorbaciov (l’apprendista stregone poi riconvertitosi in traditore della sua patria) di avere scudi spaziali ed altre irreali amenità, con conseguente aumento preoccupato della spesa militare sovietica ai danni del sociale.

Il risultato della dissoluzione catastrofica sono molti paesi in mano ad ex burocrati diventati mafiosi, le basi Nato oltre la “cortina di ferro”, l’eliminazione fisica degli ex burocrati che non si sono riconvertiti in capi mafia (tipo Milosevic), e un degrado diffuso che fa rimpiangere la pianificazione economica (perché il piano regolatore lo puoi anche sbagliare, ma resta comunque meglio avere i servizi sociali che non averli, e fare una lunghissima coda per un paio di scarpe, piuttosto di non avere i soldi per comprarle). Con la sola eccezione del “fattore K”, ossia di Vladimir Putin, l’ex ufficiale dei servizi segreti che ha resistito alla tentazione della riconversione per tentare nobilmente (con parziale successo, e tra diversi tentativi di destabilizzazione ed accerchiamento) di ribaltare l’avvento del mostro liberista in Russia. Si dirà che con Eltsin c’era la democrazia…ma non penso che fosse questa la priorità quando hanno tirato giù lo zar e le altre teste coronate.

Il secondo tipo di percorso seguito dagli stati del socialismo reale è quello della riconversione guidata, ossia del mutamento delle politiche economiche interne ed esterne non lasciato allo spontaneismo post atomico, ma, appunto, “guidato” dalle stesse dirigenze socialiste. Detto così potrebbe essere confuso con l’evoluzione/involuzione dei comunisti italiani del PCI, che in venti anni hanno compiuto il passaggio dal bozzolo del PCI all’ombrello della Nato tappa dopo tappa (con Veltroni inevitabilmente chiamato a fare il ruolo del “bruco”, che oggi, a mutazione compiuta, ha appunto esaurito la sua funzione). In realtà qualche esempio consentirà di capire se con la riconversione guidata si sia rimasti o meno nel terreno socialista. È il caso del Viet - Nam, paese che ha intrapreso la riconversione guidata già nella seconda metà degli anni ottanta, e che oggi è uno dei paesi più in salute dell’Asia, e soprattutto della Cina. Per capire la riconversione guidata cinese, occorre però capire di che tipo fosse il socialismo reale cinese. Riporto quindi brevemente quanto già scritto sul passaggio dal socialismo reale al socialismo di mercato, da me ribattezzato “capitalismo pianificato” (G. Di Martino, Il Tibet come moda, in www.eurasia-rivista.org, 2008).

cina_-fondo-magazine<<Le differenze tra il comunismo cinese e il comunismo sovietico e dell’Europa orientale sono sostanziali. Si tratta, in entrambi i casi di comunismo storico novecentesco, ossia di concrete applicazioni del comunismo a situazioni contingenti, che però sono diversissime tra loro. E dunque il modello richiede delle modifiche sul campo. Questa è la prima sostanziale differenza tra comunismo eurosovietico e maoismo. In Cina il comunismo non sorge spontaneamente in un contesto di capitalismo maturo, come avrebbero voluto Marx e i menscevichi, né si instaura in un contesto di capitalismo immaturo grazie ad una elite rivoluzionaria, come hanno fatto Lenin e i bolscevichi. Né si instaura su un modello feudale che ha saltato la fase capitalistica per estrema arretratezza. In Cina il comunismo si instaura su un modello di produzione asiatico (fattore del quale Marx ha comunque tenuto conto), e quindi differente da quello europeo. Un modello di produzione che lascia alle comunità contadine una autonomia produttiva, senza però che essi siano proprietari della terra. Questa la prima osservazione da tenere presente quando si parla di comunismo in Cina, e grazie alla quale si può comprendere quali grandi differenze ci siano tra esso e gli altri comunismi storici novecenteschi.

La seconda grande differenza tra il comunismo di Mao e gli altri, sta nell’avere ossessivamente teorizzato, e cercato invano di reprimere, l’imborghesimento degli apparati di partito. Imborghesimento che negli anni ottanta e novanta si è fisiologicamente verificato.

Tuttavia la Cina di oggi non è il frutto dell’imborghesimento degli apparati del partito comunista di terza e quarta generazione che ha fatto sì che il capitalismo si espandesse (quello è il PD!). É qualcosa di differente, e va analizzato per quello che è, perchè non si tratta di un modello politico inquadrabile sulla base di paradigmi già esistenti e solo da comporre nel modo più adatto. Si tratta di un nuovo modello politico, con il quale occorrerà, nel bene e nel male, fare i conti.

Ora, è evidente che il modo di produzione capitalistico è diventato dominante nella Cina degli ultimi 15 anni. Il socialismo, però, è ben lungi dall’essere scomparso, anzi, si è solamente rinnovato ed adattato. In Cina si può e si deve dunque ancora parlare di socialismo, ma con le dovute precisazioni. A seguito del crollo dell’Unione Sovietica, infatti, le autorità cinesi non si sono arroccate come ultimo baluardo di un sogno svanito in attesa che venisse il proprio turno, ma hanno pensato ad una possibilità per evitare di finire come l’Urss e i suoi satelliti.

La soluzione (suggerita anche da economisti ex sovietici, sperimentata a metà degli anni novanta, e valutabile solo tra moltissimi anni) è stata quella di una apertura controllata al capitalismo ed al suo modo di produzione, consentendo però al partito comunista di mantenere ben saldo il bastone del comando. Il che sta facendo registrare effetti interessanti dal punto di vista dei rapporti sociali (e per questa ragione è corretto, a mio avviso, parlare ancora di socialismo): anzitutto c’è stato recentemente un aumento medio superiore al 10 % dei salari; in secondo luogo sono state ammesse rappresentanze sindacali in filiali cinesi di multinazionali che mai hanno accettato i sindacati nelle proprie filiali in giro per il mondo. Ciò non significa che lo sfruttamento insito nel modo di produzione capitalistico non sia dietro l’angolo, ma comunque il tutto non è poco. Anche perchè il tutto accade in un paese estremamente eterogeneo e con un miliardo di abitanti, politicamente nel tempo isolato e soprattutto obbligato, per difendersi dalle minacce statunitensi, a generare nel minore tempo possibile nuove forze produttive.

É dunque del tutto errato parlare di una Cina ultracapitalista e consumista in modo sfrenato e sregolato, così come è sbagliato parlare di un capitalismo di stato (quella era probabilmente l’Urss, come già Bordiga sessant’anni fa la definiva) o, peggio, di un liberal - comunismo. Sono tutte, bene o male, categorie politiche vecchie e mal riadattate. La Cina di oggi ha generato un paradigma nuovo, una specie di capitalismo pianificato, che come tale andrebbe trattato.>>

Nel frattempo la Cina ha mostrato a tutto il mondo la propria crescita e la propria potenza con l’impeccabile organizzazione delle olimpiadi del 2008 (le più seguite di sempre, in barba al fuso orario e al boicottaggio), ed ha iniziato una riforma agraria veramente sociale che segnerà il superamento del modello collettivista - cooperativo. La riconversione guidata, dunque, funziona, la prospettiva socialista resta (e di questi tempi, come già detto, non è poco), ma soprattutto la Cina cresce e con lei le speranza di chi oggi ha preso posizione contro l’impero ideocratico americano e i suoi alleati.

Contro un paese economicamente potente e demograficamente strabordante, le menzogne sui diritti umani servono solo a far stare bene con se stessi coloro che hanno scelto di non vedere al di là del proprio naso. Menzogne, bene inteso, non significa che la Cina sia il paradiso della libertà di espressione, ma significa che il dito sulla libertà di espressione in Cina è puntato da stati che reprimono e nel tempo hanno represso le minoranze e le opposizioni in modo molto peggiore, e che dunque sbandierano i diritti umani solo per ragioni di strategia politica.

Il terzo possibile percorso del socialismo reale nel mondo di oggi è quello della marginalizzazione testimoniale - identitaria, battuto, loro malgrado, da Cuba e dalla Repubblica Popolare Democratica di Corea. I due stati sono molto differenti tra loro: emotivamente ben voluto e mitizzato dalle sinistre comuniste mondiali (che però non hanno mai fatto lo sforzo di capirlo) il primo, fastidiosamente ignorato, nel bene e nel male, il secondo (che fu terreno del terrificante primo scontro bellico della Terza Guerra Mondiale). Anche con il crollo dell’Unione Sovietica le scelte politiche dei due consumati capi sono state differenti: Castro ha infatti tentato la via della riconversione a guida socialista (e poi ha ricevuto ossigeno dal sud e dal nuovo socialismo chavista), mentre Kim Il Sung e suo figlio hanno optato per un giro di vite socialista reale, con una militarizzazione totale dello stato (e nella posizione in cui erano e sono non avrebbero avuto molte altre strade). Tuttavia ricadono nella stessa categoria, quella della marginalizzazione testimoniale - identitaria, principalmente perché vengono considerati come due stati destinati a crollare a breve. Auguro vita ancora lunghissima a Cuba ed alla Corea, ma in entrambi i casi, il ritiro dei rispettivi presidenti potrebbe significare la fine di tutto…e c’è, in America e in Asia, chi non aspetta altro. La sensazione è addirittura quella che ad oggi siano “tollerati” dai padroni del mondo, perché tanto si capisce che tra poco tutto finirà. Si parla già del dopo Castro come se lo stato socialista dovesse morire con lui (e le zampacce di Obama si stanno preparando a riuscire senza sforzi là dove Kennedy aveva fallito), mentre i giornali danno notizie sempre più allarmanti sulla salute di Kim John Il, notizie assolutamente non confermate da nessuno, ma comunque divulgate. Pesa, in entrambi i casi (e questo è il dato accomunante della marginalizzazione) il non essere riusciti a creare una classe dirigente più giovane in grado di continuare la strada intrapresa. Ma forse questo è il compito più duro di tutti i partiti politici, non solo socialisti e comunisti, se si pensa che il posto di Gramsci e di Togliatti è stato occupato da Occhetto e Giordano, quello di Fanfani da Casini e Buttiglione, e quello di Nenni da Boselli e Del Turco (e la sequenza potrebbe continuare declinando passato e presente di ciascun partito politico italiano).

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