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Crisi e anarchia del mercato

di Raffaele Ragni - 18/05/2009

 

 
Crisi e anarchia del mercato
 


La storia economica del XX secolo evidenzia come la crisi attuale, innescata dai mutui subprime (2007) e dal fallimento della Lehman Brothers (2008), è stata preceduta da crisi altrettanto gravi a cadenza regolare, nel medio e lungo termine. Se andiamo indietro nel tempo, notiamo che, a un decennio d’intervallo l’una dall’altra, ci sono la crisi monetaria delle tigri asiatiche (1997) ed il lunedì nero di Wall Street (1987), mentre distanziate di quasi mezzo secolo seguono due eventi epocali collegati a guerre. Innanzitutto la fine del sistema di Bretton Woods ed il primo shock petrolifero, situato tra due attacchi sionisti, la guerra dei 6 giorni (1967) e la guerra del Kippur (1973). In secondo luogo il celebre crollo di Wall Street (1929) e la fine della grande depressione che coincide con l’inizio della seconda guerra mondiale (1939).
Questa cronologia degli eventi critici del recente passato sembra rivalutare la teoria delle fluttuazioni cicliche, cara alla critica marxista e sottovalutata dall’apologetica liberista, secondo cui l’andamento dell’economia di mercato procede alternando fasi di espansione e di contrazione. Collocare la nozione di crisi nella dinamica globale del capitalismo, porta ad affermare che tutte le disfunzioni - carenza di domanda, disoccupazione, inflazione, e perfino i crack finanziari - non sono calamità isolate, ma fenomeni che caratterizzano il normale andamento dell’economia, e come tali sono prevedibili e controllabili, con una duplice finalità: per mantenere l’equilibrio sistemico, o per destabilizzarlo.
Gli economisti delle scuole classica e neoclassica, convinti che libero mercato porta necessariamente all’equilibrio tra domanda e offerta (legge di Say), non riuscirono ad elaborare tesi specifiche sull’incidenza periodica della crisi. Soltanto Karl Marx avvertì il carattere contraddittorio dello sviluppo capitalistico legato alla dinamica del ciclo industriale. La differenza fondamentale è che per i liberisti le fluttuazioni cicliche, per quanto possano sfociare in crisi gravi, non sono destabilizzanti. Invece per i marxisti la discontinuità dello sviluppo, associato alla lotta di classe, determina il crollo del sistema.
Partendo dal presupposto classico che l’uguaglianza tra risparmi e investimenti è la condizione basilare per l’equilibrio macroeconomico di lungo periodo, e condividendo la tesi secondo cui il risparmio globale dipende essenzialmente dalla distribuzione del reddito tra le classi sociali, Marx afferma che non c’è alcun meccanismo distributivo che assicuri una quota di risparmio tale da garantire l’equilibrio del sistema. Anzi, la stessa intensità dello sviluppo, richiedendo incrementi di produttività proporzionalmente maggiori degli incrementi salariali, determina una distribuzione favorevole ai profitti e perciò una formazione di risparmio periodicamente maggiore di quella che basterebbe a sfruttare tutte le occasioni di investimento di volta in volta possibili. Lo sviluppo discontinuo è quindi una connotazione tipica del capitalismo, e viene definita anarchia del mercato.
Nel 1939 Alois Schumpeter, organizzando in modo sistematico la miriade di studi precedenti sulla crisi e le fluttuazioni cicliche, definì una sua teoria dello sviluppo economico basata sull’importanza dell’innovazione e sull’incidenza di tre cicli di ampiezza differente, ognuno identificato col nome dell’economista che ne aveva ipotizzato l’esistenza. Si parte dal ciclo breve, della durata media di 3 anni (Joseph Kitchin). Segue il ciclo medio, della durata di 8-10 anni (Clement Juglar). Infine c’è il ciclo lungo, della durata di 40-60 anni (Nicolai Kondratev).
Ad un primo approccio ogni ciclo è diviso in due fasi. La fase ascendente, definita espansione, ha inizio con l’innovazione e si caratterizza per la sua diffusione, attraverso un ventaglio di imitazioni che fanno seguito all’iniziativa innovatrice. Prosegue con l’allargamento del credito, la crescita dei saggi d’interesse, l’aumento dei consumi.
Termina non appena ha sconvolto le relazioni tra prezzi e quantità, al punto da rendere impossibile formulare piani per il futuro. Il punto di inversione è raggiunto tanto più velocemente quanto più le innovazioni si concentrano in pochi settori e si diffonde un clima di incertezza circa l’esaurimento delle opportunità di innovare. Da quel momento il saggio di innovazione rallenta e segue un periodo in cui gli imprenditori accumulano stock. L’economia si stabilizza ad un reddito di equilibrio superiore al punto d’inizio dell’espansione appena terminata e ha inizio la fase discendente, definita contrazione, in cui il processo s’inverte.
Ad un’analisi più dettagliata ciascuna fase può essere divisa in due momenti. L’espansione si divide in ripresa, periodo in cui il sistema si allontana dalla crisi per muoversi verso una condizione di equilibrio, e prosperità, periodo in cui la crescita del reddito e dell’occupazione è talmente veloce da avvicinare il sistema alla situazione di pieno impiego di tutti i fattori. La contrazione si divide in recessione, periodo in cui il sistema spontaneamente o per effetto di politiche economiche si allontana dal surriscaldamento per tornare al suo normale equilibrio, e depressione, periodo in cui si manifestano preoccupanti squilibri.
La teoria del ciclo economico, come elaborata da Schumpeter assimilando gli studi precedenti, parte dal presupposto che il reddito, pur seguendo le fluttuazioni cicliche, manifesta una tendenza di lungo periodo all’aumento. Considerato un certo periodo di tempo, se definiamo trend l’andamento del reddito se pervenisse dal valore iniziale al valore finale in modo uniforme, notiamo che prosperità e recessione si collocano al di sopra del trend, mentre depressione e ripresa si collocano al di sotto del trend. Il problema è capire perché il reddito, invece di procedere nel tempo in modo uniforme, si sviluppi con allontanamenti periodici dal trend, e soprattutto perché si verifichino i punti d’inversione superiore ed inferiore. La spiegazione, secondo Marx, è nella dinamica del reddito e degli investimenti.
Il saggio naturale di sviluppo del reddito è il massimo livello di espansione che il reddito può conseguire. Corrisponde alla piena occupazione della forza lavoro e al massimo livello di produttività consentito dal progresso tecnologico. Invece il saggio d’equilibrio di sviluppo è quel grado d’incremento del reddito che assicura l’equilibrio del sistema. É direttamente proporzionale alla propensione al risparmio, che esprime il rapporto tra reddito e risparmio, ed è inversamente proporzionale al coefficiente di capitale, che esprime il rapporto tra capitale impiegato e prodotto ottenuto. I due saggi - quello naturale e quello d’equilibrio - non devono necessariamente coincidere perché dipendono da grandezze diverse. Ciò significa che il sistema può stare sempre in equilibrio, anche se c’è disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata.
Nel lungo periodo gli investimenti, oltre ad essere una componente della domanda, sono anche un’aggiunta al capitale. Pertanto, nell’ipotesi che il coefficiente di capitale sia costante, le variazioni in aumento o diminuzione del saggio d’incremento del reddito hanno effetti amplificati sul saggio d’incremento degli investimenti. Tale meccanismo è definito principio di accelerazione. Se il saggio d’incremento del reddito aumenta di anno in anno, gli investimenti aumentano ad un saggio maggiore di quello del reddito. Se il saggio d’incremento del reddito diminuisce di anno in anno, gli investimenti aumentano ad un saggio minore di quello del reddito ed eventualmente diminuiscono.
La mancata coincidenza tra i due saggi di sviluppo - imputabile secondo Marx allo squilibrio nella distribuzione del reddito tra profitti e salari - ed il principio dell’accelerazione - che sfasa la dinamica degli investimenti rispetto all’andamento del reddito - possono spiegare perché il reddito cresca con allontanamenti periodici dal trend. Ogni fase del ciclo economico si spiega invece con quanto accade nella fase precedente, Ad esempio, già all’interno dell’espansione, agiscono elementi che portano al suo progressivo esaurimento. Per la crescita del reddito e per la rapidità con cui si formano i profitti delle imprese, dovuta ad un aumento della produttività del lavoro superiore all’incremento dei salari, cresce la propensione al risparmio. L’intenso sfruttamento delle innovazioni determina una loro progressiva rarefazione e ne abbassa la disponibilità. L’impossibilità di investire tutto il risparmio determina una caduta del reddito e dell’occupazione.
Dal punto di vista empirico, dopo il secondo conflitto mondiale, le economie industrialmente avanzate hanno visto attenuarsi il fenomeno delle fluttuazioni cicliche e, dopo il boom dell’immediato dopoguerra, si sono assestate lungo un trend di crescita lenta ma costante. Esistono i cosiddetti stabilizzatori del ciclo, interni al sistema, che operano in modo restrittivo durante la fase di espansione, e in modo espansivo durante la fase di contrazione. Ad esempio citiamo le imposte dirette - il cui gettito può essere aumentato al crescere del reddito per frenare l’espansione e diminuito in caso contrario per ampliare i consumi - i sussidi alla disoccupazione - che impediscono una drastica caduta della domanda in caso di depressione - la politica monetaria - che può essere utilizzata con finalità diverse in base alla congiuntura.
Attualmente, mentre la gente comune si chiede quando inizierà la ripresa, pare che l’oligarchia, dopo aver accentuato la fase recessiva con operazioni finanziarie che hanno causato crack e panico, stia valutando la se prolungare o meno la recessione fino alla depressione. Secondo informazioni trapelate e diffuse da alcuni cronisti investigativi, dovrebbe essere questo il vero contenuto della riunione del Bilderberg Group, che si conclude il 17 maggio. All’interno della lobby mondialista si starebbe discutendo se continuare a lucrare per circa un decennio sulla crescita della povertà o rifondare subito l’economia globale sulla revisione del paradigma dominante in termini di maggiore sostenibilità ambientale e minore sovranità degli Stati.
Malgrado alcuni ambienti cospirazionisti giustamente denuncino, ancora una volta, la gestione verticistica dell’economia mondiale a beneficio di una ristretta cerchia di privilegiati, riteniamo che il vero problema non sia quello di immaginare cosa dicono i potenti della terra dando per scontato che, con i loro potenti mezzi riusciranno a conseguire gli obiettivi pianificati.
Al contrario bisognerebbe chiedersi come eventuali avanguardie popolari dovrebbero gestire il potenziale enorme dissenso che produce l’impoverimento di milioni di persone, di ogni razza e religione, perché di una cosa bisogna essere consapevoli: nonostante le crisi cicliche, il sistema non crolla da solo, ma ritrova sempre e comunque il suo equilibrio economico, con gravissimi costi sociali, se non interviene, come effetto della crisi stessa, una rivoluzione politica capace di fondare un diverso e radioso avvenire.