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Le più alte conoscenze scientifiche non disdegnano la sapienza che proviene dalla tradizione

di Vandana Shiva - Chiara Zappa - 18/05/2009

 Le più alte conoscenze scientifiche non disdegnano la sapienza che proviene dalla tradizione. È forse questo l’insegnamento più evidente di tutta l’opera – scritta e vissuta – di Vandana Shiva, fisica nucleare formatasi negli Stati Uniti e poi tornata, come attivista, nella sua India natale. La fondatrice della Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy, paladina della «saggezza dell’ambiente e di quella delle donne», venerdì incontrerà il pubblico alla Fiera del libro di Torino (Sala Gialla, venerdì ore 18) per presentare il suo ultimo lavoro, Ritorno alla terra, insieme a Carlo Petrini di Slow Food (di cui Shiva è vicepresidente internazionale) e a Ermanno Olmi, che nel suo recente documentario Terra madre racconta l’avventura dell’attivista e del suo movimento, Navdanya, per la valorizzazione dei semi autoctoni. L’importanza della biodiversità – e la necessità di tutelarla dagli attacchi dei brevetti – è da sempre al centro dell’opera di questa energica cinquantasettenne, che tuttavia nella sua ricerca non ha rinunciato a delineare le interconnessioni tra risorse naturali e dinamiche sociali e politiche: basti ricordare il suo libro Le guerre dell’acqua (Feltrinelli, 2004), ma anche India spezzata (Il Saggiatore, 2008), ritratto di un Paese dove il miracolo economico non è sinonimo di benessere per la maggioranza. Nell’ultimo libro, la scienziata mette in relazione tre grandi emergenze del nostro tempo: la crisi alimentare, la dipendenza dal petrolio, il surriscaldamento globale. Spiegando che non è possibile affrontarne una, senza preoccuparsi anche delle altre.

Professoressa Shiva, perché sostiene che la fine della disponibilità di petrolio a basso costo è un’opportunità per tutti noi?
«L’economia, l’ecologia e la società sono interconnesse. Purtroppo, pensando che l’energia del petrolio sarebbe sempre stata disponibile e vantaggiosa, abbiamo costruito un intero sistema politico ed economico che dipende dai combustibili fossili e che sta devastando il pianeta. Ma i rischi di questa ‘civiltà del petrolio’ riguardano anche l’economia – perché i barili a basso costo hanno significato la distruzione della produzione e dell’occupazione locale a favore dell’importazione dalla Cina – e persino la democrazia, perché la politica è stata centralizzata in misura crescente. Per questo sostengo che l’esaurimento del petrolio rappresenta un’opportunità attraverso cui possiamo dare forma a società più sostenibili ma anche più democratiche, tornando a rilocalizzare la produzione, il consumo ma anche il processo decisionale».

Lei parla di «ritorno alla terra»: dovremmo diventare dei nostalgici del passato?
«È come se la nostra società stesse guidando verso la cima di una collina scoscesa e avesse imboccato una strada che porta dritta al precipizio: quello che noi sosteniamo è che sarebbe saggio trovare un’altra via. Così, io penso che dovremmo imparare dalle tecnologie agricole del periodo preindustriale, coniugandole però con le nuove conoscenze scientifiche: mettere insieme il passato e il futuro nella combinazione migliore in termini di mutuo arricchimento. Per questo io parlo di ‘economia della biodiversità’: arricchire i nostri ecosistemi, valorizzare le biomasse non commestibili come fonte di energia decentralizzata, rilocalizzare la produzione e l’economia».

Spesso gli attivisti che mettono in relazione l’azione umana con le devastazioni ambientali sono accusati di una visione negativa dell’uomo: lei tuttavia sostiene che «l’essere umano rappresenta la forma di energia più importante che abbiamo». Che cosa significa?
«Riconoscere gli errori commessi da alcuni uomini non è certo in contraddizione con la convinzione che gli esseri umani custodiscano un’enorme energia, un’energia che nelle sue diverse forme – spirituale, intellettuale, culturale… – rappresenta la più grande spinta alla trasformazione. È importante che tutte le persone, anche i cittadini più semplici, prendano coscienza di questo potere di cambiamento, di cui spesso si dimenticano».

Qual è il ruolo di chi scrive libri nell’aumentare l’autocoscienza dei cittadini?
«Nel mio Paese, nelle comunità dove vivo e lavoro, ho l’opportunità di parlare direttamente alla mia gente, quindi non ho una particolare necessità della mediazione dei libri. Attraverso l’azione, cerco di rendere alla mia società il meglio di ciò che ho imparato da essa, e di combattere le realtà che giudico negative: discriminazione, ineguaglianze… I libri, invece, li scrivo soprattutto per diffondere certe idee ed esperienze a livello internazionale: visto che mi occupo di temi che riguardano l’intero pianeta cerco di avere un impatto su una scala il più possibile ampia. Ma vorrei che la mia voce fosse sentita non solo in quanto scrittrice, ma in quanto essere umano che vive in un momento cruciale per il nostro pianeta e per le nostre società, e che vuole comunicare alla gente la speranza che proviene dalle azioni positive». […]