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Heidegger e la meditazione del margine contadino

di Marco Baldino - 21/05/2009

Fonte: tellus

Nella poesia L’infinito Leopardi nomina il silenzio; questo silenzio è detto “sovrumano”: la parola delimita i confini del mondo. Il mondo possiede dunque qualcosa come un bordo superiore, oltre il quale non v’è più l’umano, ma il sovrumano, sondando il quale l’animo si perde, si spaura. Wittgenstein dice in fondo la stessa cosa: «i limiti del mio linguaggio (il solo linguaggio che io comprendo) sono i limiti del mio mondo», ma ciò non significa che non vi sia dell’altro: ai confini del linguaggio, del mondo, della logica, si aprono territori la cui natura non ha più i caratteri della trasmissibilità, della traducibilità, ma della incomunicabilità. La tradizione mistica d’Occidente ci fornisce tutta una serie di esempi di esplorazioni ai confini del silenzio. La generazione del Verbo, sosteneva Eckhart, avviene nel fondo dell’anima: quando l’Io raggiunge il fondo dell'anima la Parola sgorga spontaneamente e l’Io stesso diventa tutt’uno con la Parola. Questo fondo è però essenzialmente un fondo silenzioso. Ora, è dal distacco dalle cose che si genera questo silenzio. Da questo distacco procedono, in un certo senso si creano, i luoghi dell’ascesi: a Oriente il deserto, a Occidente la foresta e, quasi a cavallo fra i due, la montagna, grandi simboli della mistica cristiana - Mosè è sul monte che ha i suoi ripetuti colloqui con Dio, i primi padri, al pari di Gesù, si avventurarono nelle plaghe desertiche, mentre Bernardo di Chiaravalle, all’inizio del XII secolo, si spingerà nel cuore della foresta borgognona, alla ricerca di una nuova visione del Cristo, e comincerà col dissodare la terra. Silenzio e distacco dalle cose possono tuttavia rivelarsi frutti velenosi. Voglio qui ricordare l’esperienza del padre gesuita e mistico Jean-Joseph Surin, il quale, durante la ricerca di quel fundus da cui si genera la Parola, smarrì il dominio di sé in una follia che lo tenne avvinto per vent’anni ad una violenta paralisi della volontà, che tuttavia, com’egli stesso ricordò più tardi, lo lasciava crudelmente libero nella sensibilità. Afasico, immobile, sopraffatto dall’aridità spirituale, Surin ci dice che niente in quell’esperienza patologica era rimasto intatto della sua personalità, solo gli elementi più ripugnanti, «il lato sessuale e animale». Il mondo possiede dunque anche un bordo inferiore, oltre il quale non v’è più l’umano, ma il sotto umano, il selvatico, l’animale. Come diceva Aristotele, la città è «anteriore a ciascun individuo», difatti «ogni individuo separato», essendo «nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto», «non è in grado di entrare nella comunità» e questo avviene «o per la sua autosufficienza» o perché «non è parte della città, e di conseguenza è o bestia o dio» (1). Il mondo, si sa, è mondo della parola, spazio e tempo dominati dalla voce che nomina con certezza quanto v’è di universalmente stabile nelle cose, e questa parola è parola filosofica. Può questa chiara voce educarsi nella baita della Foresta nera o sul tracciato del sentiero campestre? La parola ha una sua specifica appartenenza, una sua stabilità storica, la città, in un certo senso, è il solo spazio che la parola filosofica riesca ad aprirsi. In «Perché restiamo in provincia?» (2), un breve scritto del 1934 con cui Heidegger dà inizio alla sua produzione völkisch, c’è il famoso episodio di Heidegger e del contadino: siedono accanto al fuoco, nella stüa, sulla panca, nell’angolo delle preghiere e fumano in silenzio la pipa. Il passo è oggetto di lazzi da parte di Adorno, che vi scorge la prova concreta dell’isomorfismo tra il pensiero di Heidegger, la cultura Blut und Boden e il nazismo. Secondo Adorno il testo di Heidegger è rivelatore del suo originario cedimento nei confronti del nazionalsocialismo. Heidegger, pensatore assai controllato nelle opere scientifiche, diventerebbe un volgare fascista non appena abbassata la guardia dell’autodisciplina accademica, e la contingenza storica irrompe nella sua costruzione heideggeriana con tutta la sua forza costringente (3). Heidegger e il contadino  tacciono, o  meglio:  Heidegger
 tace, mentre il contadino, propriamente, non ha parola. Che può dire il contadino per esempio della chiamata del Professor Heidegger a Berlino? Il contadino, tutt’al più, e come vedremo, secondo un costume che appartiene più alla comunicazione oracolare che a quella filosofica, accenna, non dice. Infatti - scrive Heidegger - il vecchio contadino lo guarda con intensità, lo tocca con la mano, sulla spalla, scuote il capo... ma non dice. Non si può parlare con il contadino, allo stesso modo di come non si può parlare con l’homo salvadego, i quali sono, per definizione, senza parola, senza logos. Il contadino è pertanto un mutolo, può solo far cenni. Ci si chiederà: perché il Professor Heidegger si rivolge al vecchio amico contadino e non, per esempio, a qualche collega universitario? Perché proprio il contadino? Perché proprio “vecchio”? Perché questa figura minore, afasica, la cui sapienza si conchiude nel bosco, si mantiene prudentemente alla legna, al tabacco, al tempo atmosferico? Ecco dunque l’ironica offensiva di Adorno: Heidegger vuol forse suggerire che il vecchio contadino, vuoi perché contadino, vuoi perché antico - come il mondo che rappresenta - possiederebbe una più profonda saggezza? Heidegger vuol forse dire che solo nel mondo rurale, rustico, provinciale, si dà la modalità dell’esistenza autentica (Eigentilch)? Non è forse vero che, secondo Heidegger, ci troveremmo nell’epoca della risoluzione della civiltà occidentale nella tecnica e in cui la Metafisica (che dell’Occidente rappresenta l’animus), risolvendosi in tecnica, pone da se stessa la questione della propria fine? Cioè della sua risoluzione nelle scienze speciali? E che fa Heidegger di fronte a questo problema, ch’egli stesso ha contribuito a sollevare con il suo Essere e tempo (1927), che fa di fronte al cosiddetto naufragio del linguaggio e delle strutture d’interrogazione del tradizionale pensiero filosofico? Semplice, dice Adorno, Heidegger si rivolge al contadino. La soluzione del problema sarebbe cioè pensata in termini di un recupero e di una conservazione dell’elemento arcaico-rurale. All’inadeguatezza del logos di fronte al problema della ripetizione del problema dell’essere überhaupt, in assoluto, Heidegger opporrebbe semplicemente una protrettica dell’ascolto e della conservazione. Non è difficile percepire in questa critica tutta l’ilare sufficienza del filosofo urbano, appena rientrato dagli Stati Uniti - dove già manifestava il per altro poco urbano proposito di distruggere in un attimo la fama di Heidegger (4) -, nei confronti del piccolo professore del Waldschwarz. Ma, il contadino, non è affatto il succedaneo puro e semplice alla cosiddetta inadeguatezza del logos occidentale. Osserviamo quanto segue: il contadino è sempre, in qualche modo, fuori-logos; “lavorare la terra”, “abitare la montagna”, “essere provinciali” sono tutti esempi di una certa acritica prossimità con l’elemento “naturale”, con il “paesano materno”, che fa appunto del contadino, del montanaro e del provinciale degli esseri poveri di cultura nel senso della “trasmissibilità”, della cultura come sistema di comunicazione e quindi degli esseri più simili alla pianta che al nodo di una rete telematica; dei poveri di spirito, dei semplici appunto, senza dottrina e senza quella superiore capacità negatrice mediante cui ci si identifica e ci si appropria del mondo. Quindi, il contadino è semmai il simbolo del silenzio che circonda il logos, che lo delimita, lo regima. Ora, nel momento che Heidegger rimette la propria decisione, circa una scelta che si presenta cruciale, sia dal punto di vista politico che dal punto di vista della scienza, al consiglio del vecchio contadino, non fa che mettere in evidenza proprio il declino del logos occidentale, la sua famigerata inadeguatezza di fronte ai problemi politici posti dalla nuova situazione europea e ai problemi teorici che la riflessione heideggeriana aveva contribuito grandemente a porre. Heidegger non si rivolge   ad   un   altro  professore   perché
 questi si trova nello stesso naufragio del linguaggio; il professore, cioè lui stesso, ha infatti mostrato di perdersi ogni qual volta tenta di affrontare la realtà politica, il concreto impegno fattuale per le cose pubbliche. Il contadino rinvia invece al silenzio come dimensione originaria del logos; tutto l’episodio esprime il naufragio del logos occidentale di fronte alla questione dell’essere così come viene posta in Essere e tempo e di fronte al problema della rifondazione spirituale della Germania così come questo viene posto nell’ «Autoaffermazione dell’Università tedesca». Di fronte all’ergersi “insensato” della metropoli tardo moderna, con le sue reti, i suoi intrichi di linee, la densità insostenibile dei messaggi, sta, dimenticata e perenne, la “provincia”, con il suo carico di perplessità, la sua impacciatezza, la sua spazialità astorica. Tuttavia, non propriamente “di fronte”, bensì “all’interno”, inclusa, ma senza essere completamente risolta nei linguaggi omologati e omologanti della metropoli. Il vecchio contadino di Heidegger, come il bosco di Jünger, rappresenta l’incommensurabile rispetto a ciò che noi oggi chiamiamo vita corrente, vita quotidiana. Esso rappresenta, agli occhi di Heidegger, nella sua residuale eterogeneità, tutto ciò che la società omogenea, produttiva, rigorosamente definita, o respinge come mero scarto o identifica come puro transcendens. Il contadino sorge all’orizzonte della metropoli, figura del nulla, e si impone come problema laddove, nel cuore dell’esistenza dominata dalla tecnica, che ha conquistato gli estremi confini dell’ente, l’angoscia prorompe copiosa, rivelando la tenebra e il silenzio che circondano dappertutto l’essente. Il contadino è ad un tempo troppo silvestre, troppo vicino al brulichio animale (mundus subterraneus) e troppo prossimo all’origine divina delle cose, all’atto della nominazione originaria (mundus mirabilis), per trovare utilizzo nell’economia dei linguaggi urbani, non può essere assimilato, non ha impiego. Heidegger si rivolge al contadino non perché questo rappresenterebbe, astrattamente, l’ideale di un’esistenza più autentica, ma perché il contadino, in quanto portatore di quella dimensione privata, “sonnolenta”, pre-logica, sta all’origine e precede l’aver-luogo della metafisica e del suo tipo umano, il politès, che ora è al tramonto. Il contadino rappresenta l’indeterminatezza dell’inizio - in particolare quello tedesco -, quel brusio ricco di cenni che precede l’evento della modernità come esistenza tecnica e metropolitana. Non rimedio esteriore all’inadeguatezza dei linguaggi “metropolitani” ad esprimere il nostro rapporto con l’essere, dunque, ma luogo a partire dal quale l’interrogazione, “unica istanza ancora in grado di giustificare l’esistenza di qualcosa come la filosofia”, può prendere le mosse - poiché quell’ambiente provinciale e montano, dove si radicano tanto il lavoro del contadino quanto, a detta di Heidegger, il lavoro del filosofo, sa, nei suoi momenti drammaticamente più intensi, quando per esempio infuria la tormenta di neve e tutto intorno è coperto e nascosto, produrre il «tempo alto» della filosofia. Il contadino rappresenta la mera possibilità di quei territori che, pur non essendo più, da molto tempo, perseguitati dalla “proditoria violenza della boscaglia”, appaiono ancora selvatici e che, proprio a causa di questa loro eccedenza, di questa loro in-coltura, potrebbero ancora essere dissodati per la semina del pensiero. La filosofia «non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo - ribadisce Heidegger, a mo’ di testamento filosofico - e questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana». Che cosa ci resta? «Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)» (5). Questa “preparazione” è ciò che porta Heidegger a meditare sui bordi del mondo,
 là dove mundus subterraneus e mundus mirabilis si rispecchiano l’uno nell’altro, originariamente, e dove quindi si aprono, di nuovo, tutte le possibilità chiuse dalla storia storica dei fatti già dati. Non si tratta affatto di riconsegnarsi ad un’esistenza rurale, rustica, come inscenamento di una fuga dinanzi al moderno, ma di ripartire, di tornare a meditare e scegliere da dove il contadino aveva interrotto la sua opera di “creazione-nominazione” del mondo; si tratta, invece, di una decisone del tutto consapevole che si impone dinanzi alla “estrema indigenza” del tempo presente. E lo stesso Adorno, non fu lui, per motivi analoghi, a vedere questo tempo risplendere sotto l’insegna di “trionfale sventura”? (6) Mito e ragione, luce e ombra, non sono entrambi necessari alla libera espansione dell’esistenza umana? Lo sforzo perpetrato da Heidegger in direzione di un nuovo inizio, lungo tutto il suo cammino di pensiero, dovrebbe indurci altresì a considerare con meno sufficienza quella sua insistenza sulla durezza del destino, sul rigore del lavoro e sulla volontà d’azione che tanto dispiacquero a Löwith. Questi volle vedere nell'atteggiamento “tedesco” contenuto nel breve scritto sulla provincia, a confronto con la vita italiana che si conduceva a Roma (dov’egli si trovava, a causa delle leggi razziali, dal 1934), la negazione di ogni gioia e di ogni gusto per la vita. Per Löwith, da Lutero a Heidegger, attraverso Nietzsche, vi è un solo filo che si dipana: il destino tedesco a incarnarsi nel nichilismo senza limiti di Hitler. Ma proprio negli scritti di “intonazione provinciale” la meditazione heideggeriana sembra prendere un’altra piega, quella di un radicale confronto con il nazionalsocialismo a partire dai suoi stessi presupposti culturali: il Bauerstolz (l’orgoglio contadino); il lavoro meditativo degli Stillen im Lande; la caratterizzazione völkisch come quel particolare legame della vita pubblica tedesca con l’originario spirito del popolo (Volk), radicato nella sua terra (Boden) e nei suoi valori tradizionali e non come termine razziale, e infine lo stesso Kampf (combattimento, lotta, contesa), interpretato come Aussprache (confronto sincero sul terreno dell’essenza) invece che come atto puramente distruttivo (7). L’evento nazi è infatti visto non come un semplice incidente di percorso, sia pure incidente demoniaco, ma come l’evento cruciale del nostro secolo, una rottura (Ausbruch) che richiede di essere interrogata a fondo. Che cosa significa rianimare la grandezza dell’inizio (greco) dopo l’apparizione e la parabola del nazionalsocialismo in Europa? L’interrogazione del margine contadino si inscrive in questa cornice. Löwith, di cui ci sono note sia la schiettezza, sia il giustificato risentimento nei confronti dell’ex amico e maestro Martin Heidegger, vi vide quantomeno espressi, in compendio, tutti i concetti esistenziali fondamentali (8).


(1) Aristotele, Politica, I (A), 2, 1253 a.

(2) M. Heidegger, «Perché restiamo in provincia?», in “Tellus», 8, 1992.

(3) Cfr. T.W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, tr. it. di P. Lauro, Bollati-Boringhieri, Torino 1989.

(4) Cfr. R. Wisser, «Pensieri di gratitudine», in AA.VV. Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, tr. it. di C. Tatascione, Guida, Napoli 1992, p. 94.

(5) M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, p. 136.

(6) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1974, p. 10.

(7) Tutto ciò che è grande è, in generale, dominato dalla lotta, osserva Heidegger, l’Esserci deve pertanto sapersi creare il proprio “nemico” (Cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 59.), ma altrettanto importante, e necessario, è il sapersi mantenere nel virile, cioè senza astuzie, confronto con esso (Cfr. M. Heidegger, «Wege zur Aussprache», in Denkerfahrungen, Klostermann, Frankfurt a.m. 1983).

(8) Cfr. K. Löwith, Op. cit., p. 56. Per Löwith erano questi stessi concetti che giustificavano l’impegno politico di Heidegger a fianco dei nazionalsocialisti.

© Marco Baldino, 1996
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