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Cina, la rivoluzione silenziosa: il Tao ha creato la superpotenza

di François Jullien - 26/05/2009



Che cosa s’intende per «trasfor­mazione silenziosa»? L’eroe del modo di narrare europeo non si pone soltanto dei fini, deve ugualmente agire per far sì che la forma ideale che ha tracciato accada. Sappiamo che uno dei temi più importanti del pen­siero cinese, di qualsiasi scuola esso sia, ma particolarmente ricorrente nel taoi­smo, è il «non-agire» ( wu wei), che non può essere inteso come disimpegno, e an­cor meno come rinuncia o passività. Se il saggio o lo stratega non agiscono, essi «trasformano» ( hua): cioè fanno in modo che a poco a poco, con il loro influsso, la situazione evolva nel senso desiderato. La trasformazione si manifesta precisamente come il contrario dell’azione. L’azione, per il fatto d’essere locale, momentanea e rife­rita a un soggetto (agisco «qui e adesso»), si smarca dal corso delle cose e si fa rimar­care, divenendo in tal modo oggetto di un racconto (l’epopea). La trasformazione è invece troppo globale e progressiva, fon­dandosi sul corso delle cose, per lasciarsi reperire nel proprio processo. In questo è «silenziosa». E solo a cose fatte se ne con­stata il risultato. Prendiamo ad esempio le «trasformazioni silenziose» che tutti noi viviamo, quelle del riscaldamento climati­co o dell’invecchiamento. Le chiamo «si­lenziose », perché non le percepiamo. L’azione, ci dicono i cinesi, è tanto più visi­bile in quanto forza la situazione ma, ri­guardo ai suoi effetti, resta un epifenome­no. La trasformazione è invece effettiva, e addirittura è tanto più effettiva in quanto non la vediamo all’opera e non fa evento.
In che cosa tali nozioni possono chiari­re il presente della Cina? Non mi pare che la Cina, ancora oggi, progetti un piano per l’avvenire, persegua un fine preciso o una finalità, anche imperialistica; ma che sfrut­ti al meglio i fattori favorevoli — in qualun­que campo: economico, politico, interna­zionale, e in qualunque occasione — per rafforzare la propria potenza. È soltanto adesso che cominciamo, un po’ sbalorditi, a constatarne i risultati: in qualche decen­nio, la Cina è diventata la grande fabbrica del mondo e crescerà ancora. E questo sen­za grandi avvenimenti di rottura. Deng Xia­oping, il «Piccolo timoniere», è stato il grande trasformatore silenzioso della Ci­na. Ha fatto passare gradualmente la socie­tà cinese, alternando liberalizzazione e re­pressione, da un regime socialista a un re­gime ipercapitalista, senza mai dover di­chiarare una vera e propria spaccatura fra i due regimi.
Prendiamo l’immigrazione cinese: si estende da un quartiere all’altro, ogni nuo­vo arrivato fa venire pian piano anche i propri cugini; le celebrazioni cinesi assu­mono da un anno all’altro maggiore im­portanza, e così via. Ma la transizione è tal­mente continua che non ce ne rendiamo conto e di conseguenza restiamo senza ap­pigli per arginarla. Tale trasformazione, in­somma, è così progressiva e silenziosa, che non la vediamo. Ma ecco che, d’im­provviso, un giorno ci accorgiamo che nel­la nostra strada tanti negozi sono cinesi...
Se osserviamo la storia della Cina con­temporanea, constatiamo che in questo Pa­ese non è accaduto quel che si è verificato nell’Unione sovietica che ridiventava la Russia: il XX congresso, la destalinizzazio­ne, la perestroika, eccetera. In Cina, cioè, non c’è stato un taglio con il passato; e per questo lo stesso partito è potuto restare al potere. C’è stata una demaoizzazione in no­me di Mao, ricorrendo ad altre sue citazio­ni che incitavano a un maggior realismo.
Ricordo il mio stupore di studente in si­nologia quando un bel giorno mi accorsi che la citazione di Mao, riportata in un ri­quadro nella parte superiore del giornale, non era più in grassetto: ma le citazioni ab­bondavano nel resto della pagina. Poi le ci­tazioni di Mao hanno cominciato a cambia­re, se ne sono preferite altre; poi sono di­ventate più rare. Poi, poi... Questo modo di guidare il cambiamento ha un duplice effetto: da un lato, evita che si verifichi una rottura che mette in questione la legit­timità del potere; dall’altro, obbliga a vive­re nella connivenza, obbliga a una lettura in diagonale, e crea complicità con la tra­sformazione avviata. In effetti, lo scarto è ogni volta troppo piccolo, o troppo sfuma­to, perché ci si possa ribellare. Mi trovavo in Cina quando Deng Xiaoping tornò in po­litica. Come fu riabilitato? Dopo la morte di Mao, nel settembre 1976, si continuò la linea della «critica di Deng». Semplice­mente, le formule annesse, che sosteneva­no quella linea-guida, divennero progressi­vamente più rare. Poi, un bel giorno, è ap­parsa l’espressione: «Errori di Deng Xiao­ping ». E tutti hanno capito che era stato riabilitato, o piuttosto che era già tornato al potere. Infine, ecco riapparire l’espres­sione: «Compagno Deng Xiaoping».
Questo genere di strumenti teorici è ne­cessario per capire il caso unico che la Ci­na odierna rappresenta: quello di un regi­me ipercapitalista che si nasconde sotto un coperchio comunista, in ogni caso quel­lo di una struttura gerarchica burocratizza­ta. Lo stesso Partito comunista si è molto trasformato. La Cina ha saputo rinnovare la propria élite, da una generazione all’al­tra, grazie anche ai soggiorni all’estero dei propri dirigenti. Attualmente, alla direzio­ne del Partito c’è una generazione di mana­ger. Ma il Partito è rimasto la struttura del potere, continua a comandare e a richia­mare all’ordine coloro che protestano.
L’incontro del pensiero cinese e del pen­siero europeo dovrebbe indurci a pensare questo: che l’universale non nasce sponta­neamente, insieme alla «natura umana», ma non è altro che un orizzonte che con­duce a mettere le culture una di fronte al­l’altra, e soprattutto fornisce l’esigenza di tale confronto. Poiché, oltre a questo uni­versale, vanno anche prese in conto le cate­gorie dell’uniforme e del comune. Il comu­ne è quello che condividiamo. Sta nella ca­tegoria dell’intellegibile; è il motivo per cui, fra cinesi e europei, possiamo capirci e dialogare. Quanto all’uniforme, esso è il contrario dell’universale, o la sua perver­sione: non si basa su una necessità della ragione, ma su una comodità della produ­zione (come lo standard, lo stereotipo). È da questa dittatura discreta dell’uniforme che oggi siamo minacciati.
Dobbiamo quindi smettere, in Europa, di utilizzare l’«Estremo Oriente» come se fosse un rovescio mistico della ragione eu­ropea: farne un rovescio, significa ancora rimanere chiusi in noi stessi; o di utilizzar­lo come una semplice variazione della ra­gione europea di cui il pensiero cinese, se si proiettano su di esso le evidenze raziona­li dell’Europa, non sarebbe più che un fac­simile?
Andando incontro al pensiero cine­se e al pensiero europeo, sarà bene adope­rarsi insieme per far di nuovo lavorare la ragione, aprendo per essa nuovi cantieri.
(traduzione di Daniela Maggioni)