Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Logica della natura e necessità della decrescita

Logica della natura e necessità della decrescita

di Gianni Tamino - 27/05/2009

Se si analizza il flusso di energia negli ecosistemi si può verificare che quasi tutta l’energia
proviene dal sole, sotto forma di fotoni, che, raggiungendo le piante, attivano il processo di
fotosintesi. Grazie a una serie complessa di reazioni, si formano in tal modo, a partire da acqua e
anidride carbonica, molecole organiche come gli zuccheri, veri accumulatori di energia. E’ proprio
l’energia contenuta nei legami chimici di queste molec ole a garantire tutte le attività che richiedono
energia sia nelle piante che, attraverso la catena alimentare, negli animali e poi negli organismi
decompositori. Le reazioni chimiche necessarie per le diverse attività biologiche sono molteplici e
danno origine al complesso metabolismo di ogni essere vivente, ma, pur producendo un po’ di
calore, non producono mai quelle temperature elevate, come nelle combustioni, che sarebbero
incompatibili con le caratteristiche dei viventi.
Se analizziamo bene le caratteristiche della vita sul nostro pianeta, ci accorgiamo che non solo
l’energia è di origine solare, ma i processi sono ciclici, cioè i materiali vengono continuamente
riciclati, senza produzione di rifiuti, come nel caso della fotosintesi e della respirazion e, l’altro
fondamentale processo energetico dei viventi. Nella fotosintesi si utilizza l’energia solare per far
reagire l’acqua e l’anidride carbonica, ottenendo zuccheri e come scarto ossigeno; nella
respirazione si ottiene energia ossidando gli zuccheri con l’ossigeno, ottenendo come sottoprodotti
acqua e anidride carbonica: cioè i sottoprodotti di un processo sono le materie prime dell’altro. Ciò
non vale solo per fotosintesi e respirazione (cioè il ciclo del carbonio), ma anche per tutte le altre
materie prime utilizzate dagli organismi viventi, nell’ambito delle catene alimentari nei diversi
ecosistemi (cicli dell’azoto, del fosforo, dell’acqua).
Apparentemente questa strategia del mondo vivente sembra in contrasto con le leggi della
termodinamica: si realizzerebbe un moto perpetuo (i cicli biogeochimici) e non aumenterebbe in
continuazione l’entropia. Ma questo contrasto è appunto solo apparente: la Terra non è un sistema
totalmente isolato perché scambia energia con l’esterno. E’ invece un sistema sos tanzialmente
chiuso, in cui vale il principio di conservazione della massa, che può solo subire processi di
trasformazione e/o trasferimento da un comparto all'altro. Da quando esiste sulla Terra l'intera
massa di acqua degli oceani, per esempio, è evapora ta, ha prodotto precipitazioni ed è ritornata
nell'oceano attraverso i fiumi molte migliaia di volte (ciclo dell’acqua). E, come abbiamo visto,
ossigeno, carbonio e azoto, attraverso specifici cicli, vengono continuamente riciclati all’interno del
sistema, principalmente ad opera degli organismi viventi. L’energia necessaria per questi costanti
processi di trasporto e trasformazione di materia nei vari comparti è l'energia che la Terra riceve
dal Sole.
Dunque la logica produttiva dei sistemi naturali si ba sa su una fonte di energia esterna al sistema
Terra, il Sole, e su un continuo riciclo della materia , senza utilizzo di processi di combustione e
senza produzione di rifiuti.
Nelle attività industriali invece l’energia viene ricavata per la maggior parte da reazioni di
combustione, utilizzando combustibili fossili (interni al sistema Terra). Il calore prodotto o viene
trasformato in energia elettrica per l’uso a distanza, o utilizzato direttamente in macchine termiche,
come nel motore a scoppio. Ma gran pa rte dell’energia che si trasforma in calore non è più
disponibile per compiere lavoro utile (aumento di entropia).
Per lungo tempo l’uomo si è limitato ad utilizzare il fuoco per scaldarsi, cucinare, tenere lontani gli
animali pericolosi o per uso bellico. Solo recentemente, con la rivoluzione industriale, la
combustione, soprattutto di combustibili fossili (prima il carbone, poi petrolio e metano), è diventata
il principale mezzo per produrre l’energia necessaria per le più svariate attività: produzione di
calore, di energia elettrica o per trazione, ad esempio nei veicoli con motore a scoppio.
La combustione è un processo complesso che inevitabilmente trasforma i combustibili in un gran
numero di nuovi composti, alcuni aeriformi, alcuni solidi, che determ inano rifiuti e inquinamento,
cioè ulteriore entropia. Senza dubbio i combustibili fossili hanno fornito l’energia indispensabile per
l’industrializzazione ed hanno dato un impulso allo sviluppo dell’economia mai visto prima. Essi,
però, sono una risorsa esauribile e re-immettono nell’atmosfera il carbonio sottratto dai vegetali
milioni di anni fa, insieme a varie sostanze tossiche e nocive per la salute degli esseri viventi. La
loro combustione modifica la composizione dell’atmosfera. Per avere un’idea di quanto la
combustione inquini basti pensare che il tabacco di una sigaretta, bruciando, produce un cocktail di
oltre 3800 prodotti di combustione finora identificati, molti ad azione cancerogena, e comunque
tossica. Ciò vale par la maggior parte dei combus tibili, dalla biomassa al carbone, al petrolio o
peggio ai rifiuti. Ma oltre agli inquinanti pericolosi per la salute e per l’ambiente, derivati dal fatto di
bruciare un combustibile, si producono anche pericolosi ossidi d’azoto, dato che l’aria contiene
soprattutto quest’ultimo gas, in grado ad alte temperature di reagire con l’ossigeno.
E come non bastasse, per effetto dei bassi rendimenti della combustione, trasformando l’energia
termica in energia elettrica si recupera solo il 30 -40% dell’energia contenuta nei combustibili.
Detraendo da questa l’energia consumata per l’estrazione, nella costruzione della centrale, nella
gestione e nei trasporti dell’energia, questo valore si abbassa a circa il 10%. Il rischio è di rimanere
senza combustibili e contemporaneamente avere irreversibilmente alterato il Pianeta e
compromesso la salute dei suoi abitanti.
In soli due secoli l’uomo ha radicalmente modificato il flusso di energia sul pianeta, bruciando
combustibili fossili che si erano accumulati nel corso di molt i milioni di anni e sta accumulando
quantità crescenti di rifiuti e di inquinanti incompatibili con i cicli biogeochimici. Occorre voltar
pagina al più presto, occorre un cambiamento concettuale nel mondo scientifico ed economico.
La via d’uscita sta nello studio e nell’utilizzo dei processi che hanno permesso agli organismi
terrestri di continuare a vivere per tutto questo tempo: anzitutto utilizzare come fonte di energia il
Sole o comunque fonti di energia rinnovabili, derivate dal Sole (acqua, vento, ecc .), utilizzare
processi produttivi ciclici, senza produzione di rifiuti e poi evitare le combustioni.
Agricoltura
Anche l’uomo, quando diecimila anni fa, con la rivoluzione neolitica, ha incominciato a coltivare la
terra ed allevare animali, ha prodotto cibo sfruttando il naturale flusso di energia che ha origine con
la luce del Sole: le calorie contenute nei vegetali e nei prodotti animali derivavano quasi
esclusivamente dall’energia solare, salvo l’energia umana e animale utilizzata per il lavoro dei
campi. Grazie all’agricoltura la popolazione umana è cresciuta al punto di dover sostituire parte dei
boschi e delle foreste con campi coltivati e pascoli, eliminando vari competitori e appropriandosi di
sempre maggiori quote dell’energia solare disponibile sul pianeta.
Dopo la rivoluzione industriale, si è cercato non solo di aumentare la superficie coltivata, ma anche
di aumentarne la resa produttiva, impiegando altre fonti di energia oltre quella solare. Ma
l’incremento di cibo ottenuto grazie alla cosidd etta “rivoluzione verde”, non ha risolto né fame né
sottosviluppo. L’insicurezza dell’approvvigionamento alimentare riguarda ancora gran parte della
popolazione del pianeta: infatti circa un miliardo di persone soffrono la fame, al punto da essere la
prima causa di morte (diretta e indiretta), soprattutto per i bambini, mentre altri due miliardi di
abitanti non riescono ad avere un’alimentazione adeguata dal punto di vista dell’apporto di minerali
e vitamine. Si ritiene spesso che la fame nel mondo dipenda dalla mancanza di cibo, ma in realtà,
come aveva già messo in luce il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, la vera causa della
fame è la povertà e quindi l’impossibilità di avere accesso al cibo.
Le coltivazioni ad alto contenuto tecnologico richiedo no un massiccio impiego di energia in ogni
fase lavorativa: macchine agricole, selezione genetica, concimazione, irrigazione, controllo chimico
dei parassiti, ecc. Si tratta di un enorme flusso di energia supplementare (cioè oltre a quella fornita
negli ecosistemi naturali dal sole), che trasforma il sistema agricolo in forte consumatore di energia
di origine fossile, con enormi costi e notevoli investimenti tecnologici, che hanno reso i paesi poveri
completamente dipendenti dalle multinazionali.
In conseguenza di tale logica la superficie adibita ad agricoltura industrializzata non solo non è in
grado di assorbire la CO2 come potrebbe farlo un equivalente bosco o prato o campo coltivato con
metodi tradizionali, ma anzi produce più CO2 di quanta possa assorbire, contribuendo al grave
problema dell’effetto serra.
In base ai dati della FAO, la produzione globale di cibo sarebbe oggi sufficiente per oltre i sei
miliardi di abitanti della Terra, ma il cibo è distribuito in modo non equo: se un miliardo di perso ne
soffre la fame, altrettante consumano molto più del necessario, andando incontro a problemi di
obesità e malattie metaboliche legate all’eccessivo consumo di cibo, soprattutto di origine animale.
Come afferma Vandana Shiva: “ La maggiore resa dei prodott i agricoli industriali si basa sul furto
del cibo, ai danni delle altre specie e dei poveri rurali del Terzo mondo. E questo spiega perché da
una parte si producono e si commerciano più cereali a scala globale, e dall’altra cresce nel Terzo
mondo il numero delle persone che hanno fame. Sul mercato globale, i mercati hanno più merci da
scambiare, perché il cibo è stato rubato ai poveri e alla natura. Nell’agricoltura tradizionale la
produttività era molto elevata, dato il limitato ricorso agli input esterni. La Rivoluzione Verde è stata
propagandata come se avesse aumentato la produttività in senso assoluto: si è scoperto invece
che, prendendo in considerazione tutte le risorse impiegate, essa risulta inefficiente e contro -
produttiva.”
Un dato interessante emerso dagli studi sui rendimenti energetici in agricoltura è che il sistema
agricolo di gran lunga più efficiente sembra essere l'agricoltura tradizionale, come ad esempio
quella vietnamita che può vantare un rendimento di 1 a 10: spende cioè una caloria en ergetica per
ottenere dieci calorie alimentari, facendo a meno di macchine e concimi chimici.
Tutto ciò ha portato ad un forte indebitamento dei paesi più poveri, che sono stati costretti a
produrre soprattutto cibo di lusso per i paesi ricchi (ananas, ba nane, caffè, tè ecc.), senza avere i
mezzi per procurasi il cibo necessario al proprio sostentamento. La rivoluzione verde ha dunque
permesso un grosso aumento di consumi alimentari per i paesi più ricchi, senza garantire cibo per i
più poveri.
Ma anche a livello dei paesi ricchi questo tipo di agricoltura industrializzata pone rilevanti problemi
ambientali e sanitari: inquinamento delle falde (a causa sia dell’impiego di fertilizzanti che di
fitofarmaci), accumulo di residui tossici nell’intera catena alimentare, incremento del tasso di
emissioni gassose connesse all’effetto serra, riduzione della fertilità del suolo (valori di materia
organica inferiori al 2 e anche all’1 %). Ad esempio la Pianura Padana, secondo analisi dell’Arpa
Emilia Romagna, è soggetta all’impoverimento dei suoli: ben il 22% del territorio ha una
percentuale così bassa di sostanza organica (inferiore all’1%) da essere soggetto alla
desertificazione, mentre il 26% presenta una percentuale di materia organica inferiore al 2%.
In ogni caso i contadini dei paesi più ricchi come quelli dei paesi più poveri, in una logica di
globalizzazione, sono condizionati dalle scelte dell’industria (multinazionali) e del grande
commercio. Ma la sicurezza alimentare non si può raggiungere se poche mult inazionali hanno il
controllo mondiale del settore agroalimentare. L’aggressività commerciale di queste aziende, che
si è dapprima concentrata sul controllo delle sostanze chimiche impiegate in agricoltura, è ora
rivolta al controllo delle risorse genetich e e delle sementi, grazie anche ai prodotti transgenici e ai
brevetti biotecnologici, controllando in tal modo buona parte della produzione mondiale e
riducendo quella biodiversità agricola che garantiva il cibo ai paesi in via di sviluppo. Ma i prodotti
transgenici (OGM), soia e mais in particolare, vengono utilizzati non tanto per fornire cibo agli
esseri umani, quanto per alimentare gli animali da carne, che diventeranno cibo per gli abitanti dei
paesi ricchi.
Dovendo far fronte da un lato ad una popolaz ione mondiale rilevante che ha bisogno di cibo e
dall’altro a disponibilità sempre minori di fonti fossili, che comunque inquinano e comportano il
rischio di cambiamenti climatici, l’agricoltura deve evolversi verso sistemi sostenibili che:
1) migliorino l’efficienza energetica (ad esempio l'agricoltura biologica usa l'energia in modo
molto più efficiente e riduce notevolmente le emissioni di CO 2,);
2) utilizzino fertilizzanti di origine organica (l'agricoltura biologica ristabilisce la materia
organica del suolo, aumentando la quantità di carbonio sequestrato nel terreno, quindi
sottraendo significative quantità di carbonio dall’atmosfera);
3) impieghino fonti energetiche rinnovabili e riducano la distanza tra produzione e consumo
(filiera corta).
Ma oltre ad una agricoltura sostenibile occorre anche che i consumi di cibo delle popolazioni più
ricche siano compatibili con il mantenimento dei processi naturali. Anzitutto bisogna ridurre il
consumo di prodotti di origine animale e riportare gli allevamenti all’utilizz o di pascoli, ritornando al
rapporto tra cibo di origine vegetale e cibo di origine animale almeno uguale a quello della dieta
mediterranea. Infatti si ha una perdita grandissima di energia nel processo di "fabbricazione" della
carne. Negli allevamenti intensivi il 90% dell'energia usata si perde nel ciclo vitale.
La biodiversità
Le attività umane stanno, dunque, cambiando l'ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in
alcuni casi irreversibile. Questi cambiamenti sono dovuti non solo all'immissione di materiale
inquinante nell'ambiente, ma anche ai cambiamenti nell'uso del territorio e alla conseguente
perdita di habitat e riduzione della biodiversità.
Il termine biodiversità, o diversità biologica, indica l'insieme di queste forme viventi. Molto sp esso la
biodiversità viene definita come il numero di specie presenti in un certo ambiente, tuttavia questo è
estremamente riduttivo e il concetto di biodiversità non è riconducibile ad un numero. Essa include
le variazioni a tutti i livelli della materia vivente, dai geni ai biomi passando per gli individui, le
popolazioni, le specie e le comunità (o gli ecosistemi, se includiamo anche i fattori fisico -chimici che
condizionano gli organismi).
La biodiversità è, dunque, ad un tempo l’insieme dei diversi gen i e dei diversi individui che troviamo
in ciascuna specie, che interagendo tra loro nei diversi ambienti danno origine ai diversi ecosistemi.
Tutto ciò rende così vasto e complesso l’assortimento presente in natura, che, in pratica, ogni
individuo è diverso da ogni altro. Ciò di pende dal fatto che ogni individuo è in grado di scambiare la
propria informazione genetica con altri individui della stessa specie attraverso le varie forme di
sessualità, che caratterizzano i diversi tipi di organismi. Negli anima li, ad esempio, la fecondazione
dell’uovo da parte dello spermatozoo e la successiva fusione dei loro nuclei conferisce all’embrione
caratteri genetici di entrambi i genitori. In tal modo i figli risulteranno avere una miscela abbastanza
casuale dei caratteri dei genitori e ciò spiega perché più figli di una stessa coppia non siano mai
uguali. Così una popolazione di individui di una stessa specie risulterà costituita da individui tutti
diversi, ciascuno dei quali avrà maggiore o minore probabilità di sopra vvivere ed avere figli in base
alla capacità di adattarsi all’ambiente.
Si capisce dunque perché sia così importante mantenere la biodiversità: infatti in una popolazione
tutta omogenea un cambiamento ambientale o una epidemia o una malattia di qualunque genere
potrebbe determinare per selezione, una situazione inammissibile dal punto di vista evolutivo: o
tutti gli individui della popolazione riescono a sopravvivere o non ne sopravvive nessuno. In natura
le strategie evolutive tendono ad evitare questa logica da “roulette russa”, favorendo la
sopravvivenza di almeno una parte della popolazione.
Qualunque attacco alla biodiversità rappresenta dunque un rischio per il mantenimento degli
equilibri naturali di un ecosistema, ciò che corrisponde a porre in d iscussione la sopravvivenza di
molte specie, compresa la nostra.
Per queste ragioni nel 1992, a Rio de Janeiro, è stata adottata la Convenzione sulla salvaguardia
della Diversità Biologica (o CDB) , che tratta in maniera esplicita, tra i vari problemi, anc he quello
degli organismi geneticamente modificati e ne prevede l’utilizzo solo se, in base al principio di
precauzione, non costituiscono un pericolo per la biodiversità.
Sostenibilità ed impronta ecologica
E’ dunque necessario immaginare un modo divers o di svolgere attività umane, compatibile con
l’ambiente e sostenibile per il pianeta. Si può individuare come sostenibile qualunque processo che
non intacchi il capitale naturale. Nei processi produttivi naturali , come abbiamo visto, non si
produce né dispersione delle risorse né rifiuti. Si sono instaurati dei cicli biogeochimici che, grazie
all’energia solare, tendono a mantenere sostanzialmente inalterati i materiali utilizzati.
Per verificare la sostenibilità o l’insostenibilità dell’attività umana si possono utilizzare vari metodi,
tra cui la cosiddetta “carryng capacity” o capacità di un territorio di sostenere una popolazione,
oppure l’impronta ecologica, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un
uomo o una popolazione consumano.
L’impronta ecologica, proposta nel 1996 da Wackernagel e Rees, ha avuto una concreta e diffusa
applicazione e nel corso degli anni diverse èquipe hanno sviluppato studi complessi relativi alle
"impronte ecologiche" di città, nazioni e realtà specifiche. Fino a quando la Terra potrà sostenere il
peso di una umanità che identifica lo "sviluppo" con la "crescita" e questa con la ricchezza
monetaria? Ribaltando l'approccio tradizionale alla sostenibilità viene proposto di non
calcolare più quanto "carico umano" può essere sorretto da un habitat definito, bensì quanto
territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l'impronta
ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera.
L'impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l'area su cui vive la
popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la
dipendenza di quella popolazione dal commercio e dai consumi. Questa analisi, inoltre, facilita il
confronto tra regioni, rivelando l'effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito
sull'impatto ecologico. Così l'impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA e
dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore etiope.
Necessità della decrescita
Alla rozza semplificazione dei fenomeni naturali a fenomeni meccanici, bisogna sostituire
una analisi della complessità dei sistemi, interagenti tra loro; nei complessi sistemi viventi a
parametri come materia ed energia dobbiamo aggiungere quello dell’informazione, che varia
al variare del sistema di riferimento, evidenziando la necessità di correlare la conoscenza
dei fenomeni al punto di osservazione, comunque parziale e relativo. Ma soprattutto
dobbiamo considerare l’irreversibilità dei fenomeni temporali, ciò che porta a riconoscere la
storicità di una epistemologia naturale. Questa epistemologia naturale è una necessaria
premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane «non riducano a merce o gni
bene materiale ed immateriale», come afferma M. Cini, ma sappiano inserirsi nei complessi
e delicati equilibri dinamici, presenti nell’ambiente naturale, senza distruggerli, senza
trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli o rganismi viventi. In altre
parole occorre sostituire all’economia della crescita un’economia della decrescita. Come
osservava oltre dieci anni fa A. Langer: «Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative:
tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più
raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi
che emergono (basti pensare all’attuale scontro sul petrolio) o invece tentare di congedarci
dalla corsa verso il ‘più grande, più alto, più forte, più veloce’ chiamata sviluppo per
rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno
avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità,
verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri
viventi.» E sempre Langer osservava che quest’ultima è un’utopia ‘concreta’, mentre la
crescita illimitata, basata sul ‘sempre più veloce e sempre più grande’, e una pe ricolosa
illusione, comunque irrealizzabile.