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La critica alla crescita economica negli anni ’70

di Nathan Zippo - 27/05/2009


“La contestazione ecologica – contro l’inquinamento dei mari, l’inquinamento dell’aria
dovuto ai camini industriali e alle automobili, l’inquinamento del suolo dovuto ai rifiuti solidi,
la scomparsa degli animali e delle foreste – ebbe un ruolo importante nella ribellione degli
anni Sessanta contro la “crescita” assurta a forma maniacale (growthmania). Apparve
allora che il possesso di beni materiali, macchine, denaro, non ha niente a che vedere con il
benessere, la giustizia, la felicità. Il fatto che le società avanzate misurino il progresso
attraverso l’aumento del prodotto interno lordo (PIL, indicatore monetario non a caso
“inventato” dall’economista Colin Clark, uno dei critici della contestazione ecologica, secondo
il quale la Terra può sfamare quaranta miliardi di persone) implica che si progredisce nello
sviluppo soltanto producendo e consumando più merci, e pertanto sfruttando sempre più le
foreste, le miniere, il suolo, le acque, e sporcando sempre più i fiumi, l’aria, i mari. Ma con lo
sfruttamento e l’inquinamento (la violenza contro la natura e le sue risorse) cresce la
disuguaglianza fra i popoli sfruttatori e quelli sfruttati, peggiorano le tensioni internazionali
per la conquista delle risorse naturali, energetiche e minerali, che comportano conflitti e crisi
economiche”1.
Era questo il clima in cui Barry Commoner pubblicò uno dei testi che ancora oggi è
considerato un riferimento fondamentale del pensiero ecologista e che probabilmente diede
l’avvio all’ecologia politica: The Closing Circle (1972). Osservando come la natura funzioni
con cicli chiusi (acqua, ossigeno, carbonio, azoto e fosforo) e come, alimentate dall’energia
solare, qualsiasi trasformazione naturale fa sì che la materia rientri continuamente in circolo
per venire riutilizzata, così anche le sostanze chimiche estratte dall’aria, dall’acqua e dal
terreno ritornano in circolazione in quanto materie prime per altri cicli naturali. Da qui la
necessità di “chiudere” questi cicli naturali, che la degradazione ambientale e l’inquinamento
hanno contribuito a rompere e ad aprire in maniera decisiva, attraverso l’estrazione di
materia ad un tasso più veloce della sua generazione e l’emissione crescente di rifiuti
impossibili da assimilare per la natura. Commoner, che tra l’altro è uno dei pochi studiosi a
fare continuo riferimento all’economista tedesco Kapp, vede nell’urgenza di interventi
tecnico-scientifici e politici l’unica possibile soluzione per “chiudere il cerchio”. Anche a causa
della crisi petrolifera degli anni ’70, il libro di Commoner fece gran presa sull’opinione
pubblica del tempo, soprattutto in Italia dove fu ripubblicato nel 1976 quando la fuoriuscita
di diossina dagli impianti di Seveso provocò una gravissima ed estesa contaminazione in
diversi comuni della Lombardia, dimostrando l’attualità delle tesi esposte.
“In Commoner’s view, pollution results from a free market economy, one based on
profit, in which the goal of companies is to grow. As part of this competitive process,
companies try to find a new combinations resulting in new and improved products. This has
produced a fundamental change in the use of natural resources, which gives the company
that use new technologies a marketing advantage. They can produce at lower cost levels, or
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put new products on the markets, which will yield higher profits. Generally speaking, it is the
technological change in production during last few decades which has introduced the use of
materials with a higher level of toxicity, but also higher profits”2. E’ importante quindi
sottolineare come l’approccio di Commoner è assolutamente opposto a quello degli Ehrlich,
secondo cui il sovrappopalmento costituisce la causa principale dei problemi ambientali.
Notando come l’impatto di un individuo sulla biosfera non sia lo stesso a livello globale,
Commoner vede nel modo in cui è stato condotto lo sviluppo scientifico e tecnologico la base
delle crisi socio-ambientali. Guidati principalmente dal profitto privato e pervasi da un
riduzionismo metodologico, la scienza e la tecnologia hanno finito per ignorare le questioni
sociali e gli effetti che questa dinamica ha avuto non solo sulla società ma anche sul suo
sviluppo. “Nella visione di Barry Commoner non è la quantità dei processi produttivi a
degradare l’ambiente ma il modo di produrre: i problemi sui quali egli mette l’accento sono
perciò le modalità produttive inquinanti, contro le quali i cittadini devono battersi per tutelare
l’ambiente e i lavoratori per difendere, oltre all’ambiente, l’occupazione”3.
“E’ abbastanza curioso che le stesse idee di Commoner siano contenute nelle
conclusioni dello studio sulla sopravvivenza dell’umanità, elaborato per conto del Club di
Roma, un circolo di persone molto meno “radicali” di Commoner e dei suoi amici. Negli stessi
mesi in cui Commoner scriveva il suo libro, uscivano infatti i primi risultati dei “calcoli” che
due americani, J.W Forester e D.L. Meadows, stavano facendo per correlare le influenze
reciproche della popolazione, della produzione agricola e industriale, dello sfruttamento delle
risorse naturali e dell’inquinamento. Le tanto discusse curve, elaborate dai calcolatori del MIT
(Massachussets Institute of Technology) e pubblicate nel 1972 nel libro I limiti dello sviluppo
(ma il titolo originale era, più correttamente, I limiti della crescita), sostanzialmente
presentavano in forma grafica i principi indicati da Commoner”4.
Si sta naturalmente facendo riferimento a The Limits to Growth, che senza ombra di
dubbio costituisce il lavoro più influente non solo in quegli anni ma anche nelle decadi
successive, superando l’idea che aveva guidato le indagini di Commoner, Ehrlich e Hardin –
dirette a ricercare un singolo fattore-causa dei problemi ambientali – e ponendo invece
l’attenzione su tutte le combinazioni rilevanti di numerose variabili. Commissionato dal Club
di Roma di Aurelio Peccei, secondo gli stessi autori “I limiti dello sviluppo sosteneva che i
vincoli ecologici globali riguardanti l’uso di risorse e le emissioni avrebbero influenzato
profondamente il futuro del pianeta nel XXI secolo. Avvertiva inoltre che l’umanità avrebbe
potuto essere costretta a dirottare capitale e forza lavoro in grande quantità per contrastare
l’azione di questi vincoli, al punto che nel corso del XXI secolo il tenore di vita medio sarebbe
forse diminuito. […] LDS invocava un rinnovamento coraggioso e profondo della società,
attraverso trasformazioni tecnologiche, culturali e istituzionali volte a impedire che
l’impronta ecologica superasse la capacità di carico del pianeta. […] La nostra analisi era
incentrata soprattutto sui limiti fisici del pianeta, e in particolare sulle risorse naturali
esauribili e sulla capacità non infinita della Terra di assorbire le emissioni industriali e
agricole. […] La nostra analisi non implicava che i limiti sorgessero di punto in bianco: un
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giorno assenti, assoluti e invalicabili il giorno dopo; nei nostri scenari, infatti, l’espansione
della popolazione e del capitale fisico costringe l’umanità a impiegare sempre maggior
capitale per fronteggiare i problemi generati da diversi vincoli combinati assieme. Il capitale
dirottato per risolvere questi problemi finisce con l’essere tanto grande che diventa
impossibile sostenere la crescita ulteriore della produzione industriale. Con l’industria che
declina, la società non può più sostenere la crescita della produzione negli altri settori
economici: generi alimentari, servizi e altri consumi. Quando questi settori smettono di
crescere, si interrompe anche la crescita della popolazione”5.
Con il supporto di un modello matematico costituito da cinque variabili base
(popolazione, produzione di alimenti, inquinamento, risorse naturali e capitale industriale)
collegate da precise relazioni sulle quali viene compiuta una estrapolazione sull’andamento
futuro in diversi possibili scenari, i ricercatori del MIT di Boston mettono in evidenza
l’impossibilità fisica di mantenere i tassi di crescita del periodo senza che per questo ne
venga pagato il prezzo per i successivi 100-150 anni, affermando la necessità di rallentare
la corsa all’espansione che caratterizzava tutti i paesi del mondo tra gli anni ’60 e gli anni
’70: “il libro del Club di Roma concludeva, abbastanza grossolanamente, con un invito a
fermare la crescita della popolazione, della produzione e dei consumi, ma era reticente sulle
cause della degradazione della natura e sui suoi rimedi”6. Nonostante ciò il rapporto suscitò
un enorme dibattito politico e sociale sulla presunta veridicità delle previsioni riguardo le
possibilità limitate dell’ecosistema di sostenere i processi di produzione e consumo.
Negli stessi anni, ma con una risonanza indubbiamente inferiore, l’economista
Herman Daly minava alle fondamenta le radici stesse dell’economia con quella che è
conosciuta come la teoria dello stato stazionario, uno dei primi tentativi di formulare un
nuovo paradigma e un nuova teoria economica alternativa a quella dominante di tradizione
neoclassica, capace di descrivere, analizzare e superare i problemi ambientali moderni.
Un’idea non del tutto nuova ma chiaramente ispirata, non a caso, da un famoso economista
classico, John Stuart Mill, che un secolo prima di Daly scriveva: “è forse superfluo osservare
che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica affatto uno stato
stazionario del progresso umano. Vi sarebbe altrettanto scopo per ogni specie di cultura
intellettuale e per il progresso morale e sociale; ed altrettanto campo di perfezionare l’arte
della vita, con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli
uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza. Anche le arti industriali
potrebbero essere coltivate con eguale intensità e con eguale successo con questa sola
differenza che invece di non servire ad altro scopo che all’accrescimento della ricchezza, i
miglioramenti industriali produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il
lavoro”7.
Tornando a Daly, l’economista americano individua l’esistenza di Mezzi Primari, Mezzi
Intermedi, Fini Intermedi e Fine Ultimo, ed esorta l’economia a smettere di continuare a
preoccuparsi unicamente degli stadi intermedi, ma di porre l’attenzione tanto sui Mezzi
Primari – base naturale dei prodotti e della vita umana – quanto sul Fine Ultimo della vita
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dell’uomo – la sopravvivenza e la continuazione della specie. A questa riflessione si aggiunge
quella su scarsità e bisogni, ed in particolare quella di ispirazione keynesiana sulla distinzione
tra bisogni assoluti e relativi, in chiara opposizione alla visione della teoria economica
dominante. Sulla base di queste premesse, Daly prefigura “l’economia dell’equilibrio biofisico
e della crescita morale”8 caratterizzata dal mantenimento costante dello stock di popolazione
e prodotti e dalla minimizzazione del flusso totale di materia ed energia sia in entrata che in
uscita (throughput), il cui ottenimento è condizionato dall’affermazione di nuovi valori
morali da parte della società, piuttosto che dall’utilizzo di tecniche avanzate. “Nei confronti di
centinaia di colleghi, studenti, amici ecologi ho un enorme debito intellettuale. Ho tentato di
riconoscere quegli specifici debiti intellettuali dei quali sono consapevole. Dalla generazione
dei miei insegnanti ho imparato di più da Nicholas Georgescu-Roegen e Kenneth Boulding.
[…] Tutti gli economisti naturalmente, sono debitori verso gli economisti classici fra i quali
Thomas Malthus e John Stuart Mill sono i più vicini alle idee qui sviluppate”9.
Nicholas Georgescu-Roegen non è semplicemente il “maestro” di Daly, ma è un
autore fondamentale per l’introduzione dell’ambiente nella disciplina economica e per la
comprensione della limitatezza delle risorse del pianeta. Non solo critica aspramente
l’economia neoclassica in quanto “meccanica dell’utilità e dell’interesse personale”10, ma per
la prima volta introduce nella disciplina economica le leggi fisiche della termodinamica e
dell’entropia estendendoli anche alla materia oltre che all’energia, ed attuando
quell’immaginaria sostituzione del “pendolo meccanico” con la “clessidra termodinamica”. La
prima legge afferma che la materia-energia non si crea né si distrugge, ma si trasforma; la
seconda legge afferma che l’entropia di un sistema termodinamico chiuso aumenta
continuamente. Da precisare come il termine entropia non sia semplicemente la misura
dell’energia “indisponibile” di un sistema termodinamico, ma costituisca un “indice di
disordine” tanto della materia che dell’energia.
Gli scritti più importanti dell’economista rumeno vanno dal 1970 al 1974 al centro dei
quali risiede “la provocatoria tesi che la produzione agricola e industriale, così com’è
praticata secondo le “leggi” economiche attuali, non può durare a lungo per motivi fisici. Tale
produzione dipende dalla trasformazione della materia e dall’uso dell’energia e l’energia, da
qualsiasi parte si prenda, nel corso di ogni trasformazione peggiora sempre di qualità ed è
sempre meno disponibile per produrre lavoro utile. Lo afferma il secondo principio della
termodinamica: del sistema attraversato dall’energia aumenta sempre l’entropia. Con la
legge dell’entropia deve quindi fare i conti qualsiasi teoria della produzione, dello sviluppo e
della crescita economici: la legge dell’entropia rappresenta il freno, invisibile nel calcolo
monetario, ma sempre in agguato, alla crescita economica. E il freno dell’entropia energetica
è affiancato da un altro freno, rappresentato dal fatto che anche con la qualità della materia
dobbiamo fare i conti: nel suo passaggio dalla natura, ai processi di produzione, a quelli di
consumo, fino a quando viene rigettata nell’ambiente naturale sotto forma di scorie e rifiuti,
anche la materia subisce una degradazione, in un certo senso “entropica” anch’essa, per la
quale Georgescu-Roegen ipotizzò l’esistenza di un “quarto principio” della termodinamica.
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Altro che crescita esponenziale, altro che limiti alla crescita, altro che società stazionaria: in
ogni caso la crescita economica e materiale è destinata a diminuire perchè diminuisce, prima
o poi, la quantità dell’energia e della materia disponibili per gli oggetti necessari ai bisogni,
continuamente crescenti, degli esseri umani”11.
Non solo Georgescu-Roegen puntualizzò come fosse stato dimenticato dall’economia
la dinamica del processo di trasformazione e produzione delle merci – basato sull’utilizzo di
materia-energia a bassa entropia il cui risultato è il rilascio di materia-energia ad alta
entropia sotto forma di rifiuti ed inquinamento – ma, per quanto la sua visione sul futuro
dell’umanità fosse molto pessimista, insistette sul fatto che lo sviluppo umano non fosse in
alcuna maniera correlato con la crescita economica e merceologica, ed esortò a rivoluzionare
l’economia per trasformarla in una bioeconomia, reimpostando radicalmente i modelli di
produzione e consumo: la salvezza potrà avvenire da una decrescita della produzione e dei
consumi a livello globale; la salvezza potrà avvenire da un’economia umana.
Il tentativo di costruire una nuova società sostenibile guida anche Edward
Goldsmith che in A Blueprint for Survival (1972), prendendo le mosse da altri studi
ambientali, va oltre la critica del modello di sviluppo dominante e del suo impatto sulla
natura, cercando di dare una risposta politica attraverso l’indicazione di possibili soluzioni che
guidino la direzione da intraprendere affinché il sistema di produzione e consumo sia in
armonia con gli ecosistemi naturali in modo che la sostenibilità non sia solamente un
obiettivo per il presente ma anche per le generazioni future. “The phenomenon of
exponential growth in production is given particular attention in the publication. It is claimed
that this mechanism will result in a sudden and sharp decrease in the use of natural
resources and will therefore have a disastrous effect on society itself. The aim of the
Blueprint is to convince governments, labour unions, and citizens of the need to change
society itself”12. Per questa ragione vengono formulati i principi di una società stabile che
possa sostenersi infinitamente senza pregiudicare il benessere dei suoi membri: una
distruzione minima dei processi ecologici, una conservazione massima di materia ed energia,
una popolazione stabile senza elementi di crescita che possano aggiungere pressioni
all’ambiente, e un sistema sociale che faccia in modo che le tre condizioni precedenti non
siano una restrizione per l’individuo.
“In order to achieve these principles, a controlled and well-orchestrated change on
numerous fronts is required. This change can be brought about by implementing seven
operations”13. 1) Un’operazione di controllo per ridurre il più possibile la distruzione
ambientale attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie, nuovi macchinari e nuove
combinazioni. 2) Un periodo di stabilizzazione per interrompere la crescita esponenziale della
produzione e i processi di esaurimento e distruzione delle risorse. 3) Un processo di
sostituzione asistemico attraverso cui gli elementi delle dinamiche più dannose vengano
analizzate e sostituite da alternative tecnologiche che nel breve periodo siano meno negative
e distruttive dei primi. 4) Un processo di sostituzione sistemico che introduca tecnologie
naturali e auto-regolanti al posto delle precedenti alternative tecnologiche, la cui differenza
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fondamentale è la sostenibilità nel lungo periodo. 5) La sviluppo, la promozione e
l’applicazione di tecnologie che conservino energia e materia, pensate per comunità
economiche relativamente chiuse che possano causare solo una minima distruzione dei
processi ecologici. 6) Una decentralizzazione tanto del potere politico quanto dei processi
economici a qualsiasi livello, in modo da ottenere comunità autonome in grado di autoregolarsi
e auto-sostentarsi; ciò permetterebbe una riduzione del trasporto di materia ed
energia e un controllo più facile sui flussi di beni e rifiuti ma anche su esaurimento delle
risorse e inquinamento. 7) Educazione al livello comunitario.
In Goldsmith e negli altri autori del testo possono essere riscontrati i principi
caratteristici del periodo in cui la loro critica si sviluppa, richiamandosi alla necessità di
cambiamenti radicali tanto della società quanto dell’economia. E proprio il richiamo al
controllo ambientale e a comunità autonome autosufficienti – necessarie non solo
all’ottimizzazione dei processi economici ma anche di quelli politici – muove le critiche della
classe politica tradizionale ai cui occhi si presenta una sorta di socialismo utopico anarchico e
irrealistico, secondo cui “il capovolgimento della tendenza alla centralizzazione veniva
considerato un fattore indispensabile per poter attivare una società ecologicamente
accettabile, consentendo di recuperare i valori umani e comunitari soffocati dalla realtà
massificata”14. Ma la risposta degli autori è già contenuta nell’articolo prima ancora delle
linee guida: “we are sufficiently aware of “political reality” to appreciate that many of the
proposals we will make in the next chapter will be considered impracticable. However, we
believe that if a strategy for survival is to have any chance of success, the solutions must be
formulated in the light of the problems and not from a timorous and superficial
understanding of what may or may not be immediately feasible. If we plan remedial action
with our eyes on political rather than ecological reality. then very reasonably, very
practicably, and very surely, we will muddle our way to extinction”15.
Non si può infine non citare l’opera che va a chiudere il decennio che più di ogni altro
ha contribuito alla consapevolezza e alla maturazione di una riflessione critica sulla crescita
economica illimitata e sul degrado ambientale, tanto in ambito scientifico quanto all’interno
del dibattito socio-politico. Un decennio il cui inizio è individuabile il primo aprile 1970
quando “New York si riempì di palloncini, striscioni multicolori, persone protette da maschere
antigas, cani, capre, cavalli. Si celebrava per la prima volta l’Earth Day, il giorno della terra,
per affermare con forza la necessità di salvaguardare le condizioni per la sopravvivenza del
nostro pianeta. Quelle decine di migliaia di persone scese in piazza rappresentavano il
segnale che l’urgenza dei problemi ecologici, dei danni dell’inquinamento e dell’uso
dissennato delle risorse terrestri non era solo più sentita da una minoranza di inguaribili
sognatori o battaglieri scienziati, ma stava ormai diventando un fatto collettivo”16.
E sempre la Terra è al centro dell’opera cui si faceva riferimento in precedenza: Gaia.
A New Look at Life on Earth. Un’ipotesi avanzata dal chimico inglese J. Lovelok secondo cui il
pianeta Terra è visto come un sistema quasi-vivente dotato di capacità autostabilizzante
che egli definisce Gaia dal nome della dea greca della terra. “La vita sul nostro pianeta non
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sarebbe dunque solo influenzata dalle condizione fisiche esterne, ma sarebbe essa stessa in
grado di controllare e modificare l’ambiente che la circonda”, dando ragione quindi “a coloro
che si beffano dei principi ecologici e tacciano di allarmismo chi paventa i rischi connessi col
degrado ambientale”17. Ecco quindi come il l’approccio di Lovelock e l’ipotesi di Gaia
controbilanci la negatività delle critiche ambientaliste alla distruzione ambientale. “From this
point of view, Lovelock’s ideas can be evaluated as a positive instrument against the
negative ideas which were rather common in that decade. On the other hand, it has to be
argued that hardly any (traditional) scientific basis can be found for his ideas. […] Lovelock’s
ideas should be placed in the context of the debate at the end of the sixties and the
seventies in which the attitude towards environmental pollution and how to deal with it was
at the core of the social debate. Later on in the eighties, environmental policies became
much more accepted as “normal” phenomena in society, which reduced the relevance of
Lovelock’s ideas”18.
NATHAN ZIPPO
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Note
1 G. NEBBIA, Presentazione; in B. COMMONER, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano, 1986.
2 N. NELISSEN, J. VAN DER STRAATEN, L. KLINKERS, Classics in environmental studies. An overview of classic texts in
environmental studies, International Books, Utrecht, 1997.
Traduzione: “Nella visione di Commoner, l’inquinamento è il risultato della libera economia di mercato, basata sul
profitto, e dove l’obiettivo delle compagnie è la crescita. In quanto parte di questo processo competitivo, le compagnie
tentano di trovare nuove combinazioni che conducano a prodotti nuovi e migliori rispetto al passato. Questa dinamica
ha prodotto un cambiamento fondamentale nell’uso delle risorse naturali, il che attribuisce un vantaggio competitivo a
quell’impresa che si avvale di nuove tecnologie. Possono produrre a costi inferiori o introdurre nuovi prodotti sul
mercato, consentendo di ottenere maggiori profitti. In generale, è il cambiamento tecnologico nella produzione,
avvenuto negli ultimi decenni, ad aver introdotto l’uso di materiali con un più alto grado di tossicità, ma allo stesso
tempo ad aver condotto a profitti maggiori”.
3 L. CONTI, Influenze e tendenze nello sviluppo della cultura ecologica; in A. RUSSO, G. SILVESTRINI, (a cura di), La
cultura dei Verdi. Dall’esperienza delle università verdi i grandi temi dell’ecologismo, Franco Angeli, Milano, 1987.
4 G. NEBBIA, Presentazione; in B. COMMONER, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano, 1986.
5 Do. MEADOWS, De. MEADOWS, J. RANDERS, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 2006.
6 G. NEBBIA, Presentazione; in B. COMMONER, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano, 1986.
7 J.S. MILL, Principles of political economy, Longmans Green & co, Londra, 1911.
8 H. DALY, Lo stato stazionario. L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, Firenze, 1981.
9 H. DALY, Lo stato stazionario. L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, Firenze, 1981.
10 W.S. JEVONS, The theory of Political Economy, Macmillan, Londra, 1924.
11 G. NEBBIA, Introduzione; in N. GEORGESCU-ROEGEN, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
12 N. NELISSEN, J. VAN DER STRAATEN, L. KLINKERS, Classics in environmental studies. An overview of classic texts
in environmental studies, International Books, Utrecht, 1997.
Traduzione: “Il fenomeno della crescita esponenziale della produzione è oggetto di particolare attenzione, in quanto
questo meccanismo avrà come risultato una brusca e repentina diminuzione nell’uso delle risorse naturali e condurrà ad
effetti disastrosi sulla società. Lo scopo di A Blueprint for Survival è quello di convincere governi, sindacati e cittadini
della necessità di un cambiamento della società”.
13 N. NELISSEN, J. VAN DER STRAATEN, L. KLINKERS, Classics in environmental studies. An overview of classic texts
in environmental studies, International Books, Utrecht, 1997.
Traduzione: “Al fine di raggiungere questi sette principi, è necessario un cambiamento controllato e ben orchestrato,
conseguibile attraverso l’implementazione di sette operazioni”.
14 G. SILVESTRINI, Dai “limiti dello sviluppo” ai modelli di stato stazionario; in A. RUSSO, G. SILVESTRINI, (a cura di),
La cultura dei Verdi. Dall’esperienza delle università verdi i grandi temi dell’ecologismo, Franco Angeli, Milano, 1987.
15 E. GOLDSMITH ET AL., A blueprint for survival, “The Ecologist”, n.2, 1972.
Traduzione: “Siamo sufficientemente consapevoli della “realtà politica” per riconoscere come molte delle proposte che
faremo nel capitolo successivo saranno considerate impraticabili. Ciononostante, crediamo che se una strategia di
sopravvivenza dovesse avere una qualche possibilità di successo, le soluzioni debbano essere formulate alla luce dei
problemi e non da una comprensione timorosa e superficiale di cosa potrebbe o cosa non potrebbe essere
immediatamente fattibile. Se formulassimo un’azione di rimedio con i nostri occhi puntati sulla realtà politica piuttosto
che su quella ecologica, allora molto ragionevolmente, in maniera molto praticabile e senza ombra di dubbio
confonderemo la nostra strada verso l’estinzione”.
16 G. SILVESTRINI, Dai “limiti dello sviluppo” ai modelli di stato stazionario; in A. RUSSO, G. SILVESTRINI, (a cura di),
La cultura dei Verdi. Dall’esperienza delle università verdi i grandi temi dell’ecologismo, Franco Angeli, Milano, 1987.
17 G. SILVESTRINI, Dai “limiti dello sviluppo” ai modelli di stato stazionario; in A. RUSSO, G. SILVESTRINI, (a cura di),
La cultura dei Verdi. Dall’esperienza delle università verdi i grandi temi dell’ecologismo, Franco Angeli, Milano, 1987.
NATHAN ZIPPO
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18 N. NELISSEN, J. VAN DER STRAATEN, L. KLINKERS, Classics in environmental studies. An overview of classic texts
in environmental studies, International Books, Utrecht, 1997.
Traduzione: “Da questo punto di vista, le idee di Lovelock possono essere viste come uno strumento positivo contro le
idee negative piuttosto comuni in quel decennio. D’altra parte, è necessario precisare come difficilmente possa essere
riscontrata nelle sue idee una qualche base scientifica. Le idee di Lovelock vanno collocate all’interno del dibattito
sviluppatosi sul finire degli anni sessanta e gli anni settanta, al cui centro vi era l’attitudine verso l’inquinamento
ambientale nonché la sua gestione. A ridurre la rilevanza delle idee di Lovelock contribuiranno gli sviluppi dei successivi
anni ottanta, quando le politiche ambientali diventeranno un fenomeno “normale” molto più accettato dalla società”.