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Organismi Transgenici, brevetto e agricoltura italiana: una convivenza difficile

di Claudio Malagoli - 27/05/2009


1. ALCUNE CONSIDERAZIONI INIZIALI
Penso sia a tutti chiaro che lo sviluppo di Organismi
Transgenici (OT) è fortemente correlato, se non addirittura
condizionato, dalla possibilità di brevettare il risultato della
manipolazione genetica; se non ci fosse il brevetto, con ogni
probabilità, non ci sarebbero nemmeno OT e oggigiorno, forse,
non ci troveremmo a parlare di questo argomento. Ma siamo
anche consapevoli del fatto che, in termini generali, il brevetto
possa costituire un incentivo alla ricerca scientifica, per cui ben
vengano le innovazioni brevettabili in grado di migliorare il
benessere dell’individuo e, più in generale, il benessere della
nostra società e delle generazioni future.
Ciò che, oggigiorno, lascia maggiormente perplessi è
l’utilizzazione del brevetto in ambito agricolo, soprattutto nel caso
in cui riguardi piante o animali di fondamentale importanza per
l’alimentazione umana. Nella fattispecie, non stiamo parlando di
una funzione fisiologica della quale ognuno di noi, volendo,
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potrebbe farne a meno; stiamo parlando di alimentazione,
un’azione che bene o male ognuno di noi deve compiere
obbligatoriamente almeno tre volte al giorno.
Sono queste considerazioni che differenziano
sostanzialmente i brevetti su materiale tecnologico o su capi di
abbigliamento, da quelli su piante ed animali ad uso alimentare, in
quanto essi potrebbero mettere in discussione anche la sovranità
alimentare di un Paese. In particolare, alcune domande sono
obbligatorie prima di adottare piante ed animali transgenici
brevettati in agricoltura per scopi alimentari:
- costituiscono un mezzo per il miglioramento della
condizione umana o sono semplicemente finalizzati ad un
aumento dei profitti privati?
- rispondono alle richieste del consumatore in tema di
qualità, sicurezza alimentare e tracciabilità;
- determineranno dei vantaggi o degli svantaggi per
l’agricoltura del nostro Paese?
- aumenteranno o diminuiranno la dipendenza economica
degli agricoltori?
- come potrà essere sfruttato il brevetto nei confronti
dell’agricoltore?
- esistono delle limitazioni al suo sfruttamento economico,
oppure tutto è concesso a colui che ne detiene la proprietà?
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Per rispondere a queste domande sulla brevettabilità delle
produzioni alimentari è necessario che vi sia un certo controllo
sociale della ricerca scientifica, soprattutto durante le fasi che
vanno dalla scoperta dell’innovazione tecnologica, alla sua
applicazione per il mercato. In particolare, il problema di maggior
rilevanza riguarda la modificazione delle caratteristiche del cibo.
Chi decide in merito alla qualità dell’alimento? Il detentore del
brevetto potrà modificare a suo piacimento le caratteristiche
intrinseche del prodotto alimentare? Come potranno essere
modificate le caratteristiche nutrizionali? Il detentore del brevetto
potrà modificare a suo piacimento il legame esistente tra qualità
del prodotto e luogo di produzione? E da un punto di vista etico
sarà tutto consentito o vi saranno delle limitazioni?
Per quanto attiene poi allo sviluppo della ricerca scientifica,
occorre rilevare che se da un lato il brevetto costituisce
sicuramente un incentivo alla ricerca privata, dall’altro la
necessità di dover assicurare la caratteristica di NOVITA' che il
prodotto da brevettare dovrà avere, determinerà una diminuzione
del flusso di scambio di informazioni tra i ricercatori, che saranno
tra loro in concorrenza per ottenere il brevetto. Infatti, il requisito
della NOVITA' è fondamentale per poter ottenere il brevetto. E'
sufficiente che chiunque, pochi giorni prima del deposito della
domanda, pubblichi una semplice notizia relativa a quel prodotto
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o a quel processo produttivo per vedersi rifiutare il brevetto.
Pertanto il ricercatore che mira ad ottenere il brevetto della sua
invenzione, si guarderà bene dal rendere pubbliche sia le sue linee
di ricerca, sia le modalità mediante le quali intende risolvere
determinati problemi. A questo punto verrà meno quello scambio
di informazioni tra ricercatori che tanto ha contribuito e tanto può
contribuire al progresso della ricerca scientifica per il benessere
della nostra società.
Per la ricerca pubblica il problema è amplificato dal fatto che
la possibilità di brevettare l’invenzione, così come stabilito dalle
ultime leggi, determinerà uno spostamento degli interessi dei
ricercatori verso quelle tipologie di ricerca caratterizzate da una
prospettiva di applicazione per il mercato. A questo punto, altre
domande sorgono spontanee: chi farà ricerca sugli effetti della
tecnologia, che, come è risaputo non origina vantaggi economici
per il ricercatore? Chi verificherà l’impatto (ambientale,
economico, sociale, ecc.) della tecnologia? Chi farà ricerca nei
settori scientifico-disciplinari che non sono in grado di
determinare un’applicazione dell’invenzione per il mercato?
Questi settori della ricerca saranno considerati meno importanti
solo perché non daranno origine a risvolti di tipo economico?
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2. BREVETTO E AGRICOLTURA NAZIONALE
In questa sede non si vuole affrontare la problematica, tutta
ancora da chiarire, relativa alla liceità o meno dell’utilizzazione
del brevetto per affermare un diritto privato di proprietà su piante
ed animali, ma si vogliono esclusivamente evidenziare gli effetti
che l’applicazione della tutela brevettuale potrebbe avere sul
settore agricolo nazionale. Tale necessità nasce dalla
consapevolezza che per il nostro Paese è strategico favorire le
opportunità di reddito per l’imprenditore agricolo, al fine di
rafforzare i presupposti per il mantenimento di questa attività sul
territorio rurale; un territorio che troppo spesso è trascurato nelle
scelte di politica economica e che troppo spesso è abbandonato a
se stesso. Come è risaputo, infatti, l’attività agricola produce
numerose esternalità positive, che sono di fondamentale
importanza per lo sviluppo sostenibile del territorio (contenimento
del dissesto idrogeologico, presidio e manutenzione del territorio,
conservazione e tutela del paesaggio, tutela della flora e della
fauna, conservazione della biodiversità, creazione di spazi ad uso
ricreazionale, conservazione degli aspetti culturali tradizionali,
mitigazione degli effetti ambientali negativi prodotti da altre
attività produttive o di consumo, ecc.).
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Favorire il mantenimento dell’agricoltura sul territorio rurale,
significa vigilare su quelle scelte che possono determinare una
contrazione del reddito dell'agricoltore e che potrebbero dar luogo
ad un suo spostamento dalla campagna alla città. Com’è risaputo,
in un primo momento l’esodo rurale riguarda soprattutto le
persone, che ricercano opportunità di reddito in luoghi dove è
possibile ottenerlo (fenomeno del pendolarismo). In un secondo
momento l’esodo potrebbe riguardare l’intera famiglia, con
conseguente completo abbandono del territorio rurale.
Da rilevare che l’idea della brevettabilità dei geni di piante e
di animali, nonché dei prodotti ottenuti dalla loro utilizzazione
(piante e animali che contengono quel gene), pur in presenza di
una opinione pubblica sostanzialmente contraria, è uscita
rafforzata dalle ultime dichiarazioni sul "genoma umano" di
alcuni esponenti di governo di Paesi che detengono importanti
scoperte in questo settore. In particolare, le loro dichiarazioni
hanno riguardato soltanto i geni umani; questi geni devono
essere considerati patrimonio dell’umanità e, pertanto, è
eticamente inaccettabile ogni forma di brevetto e di
sfruttamento economico degli stessi. Nessun accenno è stato
fatto in merito ai geni di piante e animali, rafforzando così il
presupposto di una loro brevettabilità e sfruttabilità economica.
Pertanto, in futuro, l’opportunità di poter brevettare piante
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ed animali transgenici, significherà poter esercitare su di essi
il diritto di proprietà da parte di colui che ne detiene il
brevetto.
Cosa significa "brevetto" per il settore agricolo italiano e,
in particolare, quali effetti potrebbe avere per il reddito
dell’agricoltore?
In primo luogo, il brevetto sulle piante (siano esse erbacee o
arboree) contribuirà ad aumentare la dipendenza economica del
settore agricolo nei confronti di quello industriale, in quanto
l'agricoltore sarà costretto ad acquistare tutti gli anni la semente
che intende coltivare. Qualcuno potrebbe far rilevare che, di fatto,
questo già accade per la gran parte delle coltivazioni agricole,
anche se non sono brevettate. Nel caso degli OT, a parte la
situazione di monopolio che si verrebbe a determinare, il brevetto
significa qualcosa di più, in quanto l’agricoltore, oltre all’acquisto
delle sementi, potrebbe essere “obbligato” ad acquistare anche la
materia prima in grado di far produrre queste sementi (è il caso
delle piante di soia e di mais resistenti ad uno specifico
diserbante).
In futuro il problema potrebbe essere amplificato dal fatto
che le ditte che propongono questi nuovi organismi, per
proteggersi dall’utilizzazione illecita di sementi brevettate,
potrebbero inserire geni che consentono la germinazione del seme
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solo nel caso di contemporanea presenza di una sostanza
particolare, che sarà venduta insieme alla semente. Se sarà vero
poi, come ovviamente si spera, che questi nuovi organismi non
avranno alcun effetto sulla salute umana e sull’ambiente,
occorrerà considerare che la loro completa accettazione (presenza
di una sola filiera di distribuzione, assenza di etichettatura dei
prodotti OGM, ecc.) determinerà un forte vantaggio competitivo
alle ditte che li producono, con creazione di un mercato in
condizioni di monopolio o “quasi monopolio” di offerta. Si
verrebbe a determinare ciò che, di fatto, è già avvenuto nei Paesi
dove si registra un’accettazione incondizionata di questi nuovi
alimenti: la presenza di un’unica filiera di distribuzione associata
ad una diminuzione dei prezzi di mercato dei prodotti transgenici,
ha determinato un’esplosione delle superfici coltivate con questi
nuovi organismi. In pratica, cos’è accaduto? E’ accaduto che il
minor costo di produzione delle coltivazioni transgeniche ha
determinato un abbassamento dei prezzi di mercato dei relativi
prodotti, siano essi transgenici e non. Pertanto, anche gli
agricoltori che in un primo momento non volevano coltivare
transgenico sono stai costretti a farlo dal mercato se volevano
mantenere un certo grado di redditività dall’attività agricola.
Da un punto di vista della sfruttabilità economica, il
detentore del brevetto potrebbe limitarsi a richiedere il
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pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente
venduta, lasciando libertà di scelta all’agricoltore in merito
alle diverse opportunità di vendita sul mercato del prodotto
ottenuto. Tale somma di denaro potrebbe essere vista come il
giusto compenso per colui che ha investito in ricerca ed è riuscito
ad ottenere una pianta caratterizzata da un surplus di utilità per
l’agricoltore e per il consumatore. Occorre comunque rilevare che,
a differenza di quanto auspicato, l’imposizione di una royalty
sulla semente potrebbe limitare il processo di riduzione dei costi
di produzione, in quanto il costitutore, con ogni probabilità, sarà
portato ad aumentare il prezzo di vendita della semente di
un’aliquota prossima al maggior margine che essa sarà in grado
di determinare al produttore agricolo, con annullamento dei
potenziali vantaggi economici per il coltivatore e,
conseguentemente, per il consumatore. Pertanto, il brevetto
potrebbe impedire l’attesa riduzione dei prezzi di mercato dei
prodotti alimentari, annullando così anche l’auspicato
ampliamento delle possibilità di acquisto di cibo da parte delle
classi sociali economicamente più deboli.
Rispetto alla situazione precedente, il detentore del brevetto
potrebbe andare oltre. In particolare, oltre a richiedere il
pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di semente
venduta, potrebbe richiedere una royalty anche per ogni
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chilogrammo di prodotto ottenuto da quella semente e
immesso sul mercato. Il brevetto in questo caso determinerà una
diminuzione del potere contrattuale dell'agricoltore, che in futuro
potrebbe diventare un semplice prestatore di manodopera e di
capitale a favore di colui che detiene il brevetto di quella pianta o
di quell’animale. In pratica, che cosa potrebbe accadere nella
realtà? Il costitutore di quella determinata cultivar di pomodoro o
di melanzana transgenica potrebbe registrare con il medesimo
nome sia la nuova pianta, sia il marchio commerciale con il quale
il frutto della pianta potrà o dovrà essere commercializzato.
Pertanto colui che ha brevettato quella nuova pianta, oltre ad
incassare una percentuale sulla vendita della semente, potrebbe
imporre anche il pagamento di una “royalty” per ogni
chilogrammo di prodotto finale venduto. Per attuare questa
strategia è sufficiente che il detentore del brevetto crei a livello
mondiale una rete di esclusivisti, siano essi moltiplicatori della
semente e/o commercianti per la vendita del prodotto, in grado di
controllare l’intera filiera produttiva, che parte dalla
moltiplicazione del materiale genetico e arriva alla vendita del
prodotto ottenuto. Trattasi di un processo di “integrazione” nel
quale interviene una singola ditta industriale o commerciale, che
produce autonomamente o acquista da un costitutore i diritti di
moltiplicazione della nuova pianta, registra il marchio
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commerciale del prodotto ottenibile dalla sua coltivazione e ne
gestisce l’intera filiera. Tale opportunità è resa possibile
oggigiorno dal forte processo di concentrazione della domanda di
prodotti alimentari. In particolare, le catene della Grande
Distribuzione sono in grado di attuare forti concentrazioni
dell’offerta, che nell’esempio riportato sono facilitate dalla
presenza di un prodotto legalmente tutelato, per il quale è
possibile controllare abbastanza semplicemente sia l’immissione
sul mercato del materiale di propagazione, sia la produzione
avviata al consumo, nonché le prevedibili e inevitabili frodi
commerciali. Obiettivamente parlando è una filiera produttiva
decisamente efficiente, in cui, però, l’agricoltore e il consumatore
rappresentano sempre gli anelli più deboli della catena. Infatti, il
detentore del brevetto potrebbe indicare alle ditte integrate le
caratteristiche qualitative che il prodotto deve avere, la confezione
da adottare, nonché le modalità di commercializzazione ed il
prezzo di vendita. E’ ovvio che in una situazione di questo tipo
l’agricoltore non può certo pretendere di ottenere una completa
remunerazione dell’attività imprenditoriale, in quanto molte
operazioni che caratterizzano la filiera sono svolte da colui che
detiene il brevetto, che si “approprierà” dei relativi compensi.
Il detentore del brevetto potrebbe non accontentarsi di
richiedere il pagamento di una royalty per ogni chilogrammo di
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semente venduta e per ogni chilogrammo di prodotto finale
ottenuto; potrebbe addirittura non vendere la semente, affidarla
per la coltivazione ad un agricoltore e riservarsi la proprietà della
produzione finale. In particolare, la presenza di piante ed animali
brevettati caratterizzati da un forte vantaggio competitivo,
potrebbe incrementare le opportunità di reddito da parte di colui
che ne detiene la proprietà, attuando la produzione per conto
proprio, sulla base di un rapporto contrattuale con
l’agricoltore. Anche in questo caso si tratta di modalità di
produzione che già avvengono in agricoltura e che sarebbero
amplificate dalla presenza di un forte ricorso al brevetto. In
particolare, colui che detiene il brevetto non venderebbe la
semente sul mercato e potrebbe sottoscrivere con l’agricoltore un
“contratto di coltivazione”, nel quale sono indicate le epoche di
semina, le modalità di coltivazione e quant’altro serve per portare
a termine il processo produttivo, riservandosi la proprietà del
prodotto una volta giunto a maturazione. Ovviamente per l’attività
prestata l’agricoltore riceverà un compenso, che sarà commisurato
all’impegno richiesto in termini di apporto di fattori della
produzione (terra, lavoro, capitale). In una situazione come quella
evidenziata, l’agricoltore non ha alcun potere contrattuale, per cui
la presenza di un unico (o di pochi) detentore della semente,
associata al fatto che i coltivatori non sono in grado di manifestare
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un’unica controparte, li mette tra loro in concorrenza per
l’acquisizione della commessa di coltivazione. E’ facilmente
intuibile che in questa situazione si determinerà una tendenza
verso il basso del compenso relativo allo svolgimento dell’attività
agricola, in quanto, nel peggiore dei casi per la nostra agricoltura,
colui che possiede il brevetto potrebbe trovare in altri Paesi
migliori condizioni contrattuali.
Strettamente connesso alla precedente problematica, è la
considerazione che il brevetto potrebbe consentire la
delocalizzazione delle produzioni alimentari da quelle che
sono le tradizionali aree di coltivazione. La possibilità di
ottenere "nuovi individui" appositamente progettati e realizzati per
poter resistere a condizioni pedoclimatiche avverse (per esempio
fragole resistenti al freddo, viti resistenti al calcare, ecc.),
determina la possibilità di poterne attuare la produzione al di fuori
di quelle che sono le tradizionali aree di coltivazione (molte delle
quali nel nostro Paese). Tale nuova localizzazione potrebbe
avvenire sia allo scopo, più che legittimo, di aumentare il grado di
autoapprovvigionamento di una determinata regione, sia, meno
legittimamente, per incentivare la produzione in aree dove è
possibile reperire a più basso costo i fattori produttivi necessari ad
ottenerla ed in aree dove non esistono limitazioni all'uso di talune
sostanze chimiche (concimi, antiparassitari, ormoni della crescita,
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ecc.). I prodotti ottenuti sarebbero poi venduti sui tradizionali
mercati (i nostri). E' chiaro che dalla situazione precedente non
deriva alcun vantaggio per il nostro Paese, che rischierebbe di
essere espropriato del valore aggiunto di produzioni che da
sempre hanno trovato sul nostro territorio le migliori condizioni
pedoclimatiche.
Il brevetto di una pianta potrebbe consentire ai Paesi che ne
detengono la proprietà di attuare le coltivazioni in località
prossime ai mercati di collocamento, rendendo così
competitive produzioni che attualmente sono penalizzate dagli
elevati costi di commercializzazione, evitando nel contempo le
problematiche ambientali connesse alla loro coltivazione, nel
caso in cui fossero attuate sul loro territorio. Per alcune
produzioni questo già avviene. Cos’è accaduto? Alcuni Paesi,
vuoi perché non hanno condizioni pedoclimatiche favorevoli, vuoi
perché non sarebbero concorrenziali sul nostro mercato a causa
degli elevati costi di trasporto, stanno producendo sul nostro
territorio, su base contrattuale, alcuni prodotti dei quali detengono
il brevetto; tali prodotti al momento della raccolta diverranno di
loro proprietà. Ecco che in questo modo qualsiasi Paese, anche
senza alcuna vocazionalità produttiva, e, al limite, senza
disponibilità di territorio agricolo, potrebbe divenire un
protagonista nel mercato del cibo; la produzione sarebbe attuata
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nel nostro Paese per conto terzi, ovvero per conto di colui che ha
il brevetto del materiale di propagazione, che si approprierà del
valore aggiunto di questa coltivazione. Nel suddetto contesto, in
relazione al fatto che i prodotti alimentari sono facilmente
surrogabili, il prodotto oggetto di coltivazione potrebbe divenire
competitivo anche nei confronti di altre produzioni tipiche del
nostro Paese. Se così fosse, il consumatore potrebbe surrogare
talune produzioni nazionali con questi nuovi alimenti di “origine”
estera.
Da rilevare, infine, che la coltivazione su base contrattuale in
altri Paesi, potrebbe consentire di demandare ad altri le
problematiche ambientali che in genere sono associate ad una
coltivazione agricola intensiva (erosione del suolo, inquinamento
della falda freatica, ecc.), demandando così ad altri la risoluzione
delle problematiche connesse alla produzione di esternalità
negative.
Gli esempi precedenti, costituiscono per il nostro Paese un
vantaggio o uno svantaggio? Si adattano a tutte le coltivazioni o
solo a quelle brevettate? E il consumatore otterrà dei vantaggi o
degli svantaggi? Occorre rispondere a queste domande prima
di effettuare delle scelte che potrebbero rivelarsi
controproducenti per il nostro Paese.
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3. CONCLUSIONI
A conclusione di quanto precedentemente esposto, è
possibile affermare che il brevetto su piante ed animali transgenici
sarà in grado di sconvolgere il modo di produrre in agricoltura. Lo
scenario sarà quello di un settore in cui l’agricoltore avrà perso
ogni potere decisionale; egli diverrà semplicemente un fornitore di
mezzi di produzione a favore di colui che detiene il brevetto di
quel prodotto, che diverrà anche proprietario del cibo ottenuto.
Cibo che potrà essere ottenuto ovunque, in ogni parte del Globo,
non importa con quale materiale genetico, non importa con quale
tecnica di produzione, non importa con quali tutele sociali. Tutto
questo comporterà la realizzazione di un grande mercato
mondiale dei prodotti alimentari, un mercato dove
l’imperativo sarà produrre di tutto ovunque, ai più bassi costi
possibili, per poi vendere il prodotto laddove ci sono i mezzi
economici per acquistarlo.
Ma i bassi costi e la globalizzazione dei mercati si conciliano
con la qualità della produzione da tutti auspicata? Si adattano alla
necessità di assicurare un reddito anche agli agricoltori delle aree
“svantaggiate” da un punto di vista dei costi dei fattori della
produzione? Si conciliano con lo sviluppo sostenibile del territorio
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rurale? Riescono a preservare l’identità culturale, economica,
sociale e professionale di un territorio?
E’ a queste domande che occorre fornire una risposta, al fine
di verificare se nel lungo periodo gli Organismi Transgenici ed il
processo di globalizzazione dei mercati potranno rappresentare
per l’agricoltura del nostro Paese un’opportunità o, al contrario,
una strada pericolosa, che potrebbe determinare effetti dannosi per
il benessere della nostra società.
Le opportunità sono legate esclusivamente alla possibilità di
poter ampliare le esportazioni verso altri Paesi consumatori. A
questo proposito occorre rilevare però che i prezzi delle nostre
produzioni, in relazione ai maggiori costi di produzione, sono, in
genere, superiori a quelli dei prodotti simili offerti sul mercato
mondiale.
Relativamente alla scelta transgenica, e per quanto attiene in
modo particolare all’agricoltura del nostro Paese, occorre rilevare
che:
- è illusorio pensare di poter competere con le altre aree di
produzione con i medesimi prodotti, sulla base dei bassi
costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita sul
mercato;
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- occorrerà differenziare (nei prodotti, nel confezionamento
e nei modi di produzione) la nostra offerta, al fine di
consentire al consumatore una scelta consapevole;
- occorrerà valorizzare il nostro sistema Paese, lavorando
soprattutto su qualità, sicurezza alimentare e
tracciabilità, in quanto saranno questi gli elementi in
grado di determinare, almeno nel breve periodo, valore
aggiunto per i prodotti della nostra agricoltura.