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L’illusione della libertà e la lezione di Paul K. Feyerabend

di Stefano Di Ludovico - 28/05/2009

 

Uno dei miti fondanti del mondo moderno è la presunta garanzia della libertà di tutti, la possibilità offerta a ciascuno di vivere come meglio gli aggrada, seguendo le proprie idee ed assecondando i propri gusti senza che nessuno possa arrogarsi la pretesa di impedirlo od ostacolarlo nell’esercizio di tale elementare diritto. Questa garanzia è del resto vista come l’essenza stessa della “democrazia”, ovvero di quel regime politico in cui, per l’appunto, sarebbe data a ciascuno la possibilità di affermare liberamente i propri valori e di esprimere altrettanto liberamente i propri punti di vista, all’interno di una società che per ciò stesso si vanta di essere “tollerante” e “pluralista”. Il mondo moderno ha fatto così della libertà la propria bandiera, contro le società del passato o i regimi cosiddetti totalitari del secolo scorso che, al contrario, assumendo come proprio fondamento un solo punto di vista, una sola visione del mondo considerata quale unica “vera”, non tolleravano punti di vista e visioni del mondo alternativi, perseguitando gli “oppositori” con i metodi più spietati, dalla galera alla tortura fino alla soppressione fisica. Il mondo moderno è, per così dire, “agnostico”, si disinteressa della “verità”, conseguentemente ammette e riconosce tutte le visuali, tutte le tradizioni, spezzando il monolitismo culturale ed ideologico che, in un modo o nell’altro, ha caratterizzato un po’ tutte le civiltà del passato. Visto ciò, se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi circa il “progresso” che la storia ha realizzato e che il mondo moderno rappresenta rispetto al passato, basterebbe richiamare alla sua attenzione tali evidenti conquiste: chi potrebbe mai negare che la libertà di cui oggi godiamo non ha precedenti in nessuna epoca della storia umana? Che perciò stesso viviamo nel “migliore dei mondi possibili”?

Ad uno sguardo più attento e disincantato, che sappia scrollarsi di dosso i pregiudizi ed i falsi miti con cui ogni società, del resto, cerca di autolegittimarsi rispetto a quelle che l’hanno preceduta o a possibili alternative di sorta – ad uno sguardo, sarebbe il caso di dire, più libero… -, le cose appaiono meno scontate e pacifiche di quel che sembra e di quel che gli apologeti della modernità e del progresso ci vogliono far sembrare. Siamo sicuri che il nostro mondo sia davvero così diverso da quelli che l’hanno preceduto, il migliore dei mondi possibili? Se infatti ci fermiamo un attimo a riflettere sulla reale natura della tanto sbandierata libertà moderna, ci accorgiamo, in verità, che essa, più che identificarsi con l’effettiva possibilità garantita a tutti di vivere secondo il proprio punto di vista, in altro non si risolve che nell’opportunità a tutti offerta di accedere e di far proprio il punto di vista su cui la nostra società si fonda. E quale sarebbe tale punto di vista? Facile a dirsi: quello della cosiddetta “razionalità”, della cosiddetta “scienza positiva”, quel punto di vista del quale la civiltà occidentale moderna ha fatto il proprio centro di gravità né più né meno come altre civiltà ne hanno fatto di altri. E’ facile accorgersi, infatti, come nella nostra società sia di fatto, ma anche di diritto, impossibile vivere ed operare secondo logiche e presupposti che non siano quelli della razionalità scientifica. O si accetta questa, o si è tagliati fuori. Chi è che nel nostro mondo dominato dal paradigma tecno-scientifico potrebbe vivere – tanto per fare dei banali esempi – secondo logiche e visioni del mondo di tipo mitologico o simbolico? O anche soltanto religioso? Chi potrebbe liberamente vivere seguendo antiche dottrine metafisiche, sapienziali, sulle quali per millenni si sono fondate le civiltà umane di ogni latitudine e che oggi sono confinate nel mondo dell’irrazionale, dell’inesplicabile ed a cui si nega, gioco forza, ogni diritto di cittadinanza? Potrebbe tranquillamente studiare, trovare lavoro, integrarsi nell’odierna società industriale, uno che invece che alle leggi della fisica crede alle leggi degli dei? Solo stando al discorso religioso tradizionale, vediamo come oggi lo Stato moderno, in nome della cosiddetta “laicità”, abbia confinato questo nel “privato”; ovvero chi è religioso è costretto a vivere quella che chiaramente è la dimensione più importate della sua vita e che quindi vorrebbe vivere in ogni momento e circostanza, appunto nel suo privato, cioè, di fatto, a casa sua, nella sua “interiorità”, praticamente in nessun posto, solo perché tale sua fede non è evidentemente compatibile con la ragione scientifica che invece lo Stato laico ha posto a suo fondamento. Ma all’uomo davvero religioso della ragione scientifica non interessa più di tanto, altri essendo i suoi veri valori: perché allora – potrebbe dire dal suo punto di vista – non è la scienza ad essere confinata nel privato e la religione posta a fondamento dello Stato? Dove sarebbe la libertà per l’uomo religioso? Come vediamo, la libertà che lo Stato moderno riconosce altro non è che la libertà che a tutti è concessa di accedere alle opportunità che la tecno-scienza offre; tutto il resto fatevelo a casa vostra! La libertà così intesa non consiste per nulla nel garantire a tutti la possibilità di vivere secondo il proprio punto di vista, nel garantire un effettivo pluralismo delle culture e delle diverse visioni del mondo, ma piuttosto nell’offrire a tutti l’opportunità di far propria la visione dominante. Non il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze, ma l’assimilazione e l’omologazione all’interno dell’unico paradigma di riferimento. Del resto, in cosa è consistita, in Occidente, la cosiddetta emancipazione della donna? Nella possibilità offertale di fare le stesse cose che fanno gli uomini! E l’emancipazione del Terzo Mondo? Nella possibilità concessagli, con le buone o con le cattive, di abbandonare le proprie tradizioni e far proprio il modello di sviluppo occidentale! E, oggi, in cosa consiste l’integrazione degli extra-comunitari? Nell’obbligo di imparare, volenti o nolenti, la nostra lingua, di riconoscere i nostri valori, di far propri i nostri costumi; in poche parole di rinunciare alla loro specificità e diventare come noi! Ma quale libertà avrebbe un extra-comunitario di vivere secondo la sua tradizione se si arriva all’assurdo di negargli la possibilità di usare la propria lingua, lingua che di una cultura è sinonimo stesso? Oggi si parla addirittura di vietare ai musulmani italiani l’uso della loro lingua sacra - l’arabo - nelle funzioni religiose; praticamente neanche a casa propria si può più parlare la lingua che si preferisce! Alla faccia del pluralismo e della società multietnica!  

Del resto non si tratta solo di possibilità ed opportunità concesse o negate, il che sarebbe già più lieve da sopportare e, a limite, più facile da scardinare. Il vero problema è che l’omologazione e l’azzeramento di ogni reale pluralismo sono la conseguenza di un’educazione e di un’istruzione che fin dalla nascita costringono ciascuno entro binari ben precisi e predisposti e dai quali sarà poi impossibile deragliare. Noi tutti veniamo inevitabilmente educati all’interno di un determinato paradigma, di un determinato contesto culturale, a vedere quindi le cose da un certo punto di vista, paradigma che ci accompagnerà poi, inevitabilmente, per tutta la vita. Senza neanche accorgersene, ognuno di noi viene abituato fin dalla più tenera età a ragionare in base al modello tecno-scientifico, per cui la nostra mente risulta incapace fin da subito di rapportarsi alla realtà secondo ottiche diverse e che pure hanno fondato il modo di esperire il mondo di tante altre civiltà. Perché mai, ci si potrebbe chiedere, a scuola siamo costretti a studiare certe discipline e non altre? Perché la fisica e la chimica sono materie obbligatorie e la religione una materia facoltativa? Non potrebbe essere il contrario? In una società veramente libera, non dovrebbe avere ciascuno la possibilità di studiare a scuola quello che più gli aggrada? Il ritornello è sempre lo stesso: la fisica e la chimica sono “vere”, quella che è solo una vostra fissa ve la studiate a casa vostra! E la chiamano libertà…! Nel mondo del lavoro è lo stesso: se uno si presenta ad un concorso pubblico o ad un colloquio di lavoro ignorando i fondamenti del discorso logico-razionale – volendo pensare, supponiamo, in modo simbolico o analogico – non avrà alcuna speranza di superare con successo la prova. Se uno non va al lavoro perché ammalato e presenta il certificato rilasciato dal medico del servizio sanitario nazionale, è giustificato; se uno ha voluto seguire le cure dell’antica medicina orientale, viene licenziato. Ancora: se le previsioni della meteorologia scientifica preannunciano una grossa nevicata, le scuole e gli uffici pubblici restano chiusi; se quelle dell’astrologia eventi ancor più catastrofici, a scuola o al lavoro ci devono andare tutti, anche chi alle previsioni dell’astrologia vuol dare ascolto. Dov’è la libertà? Se parla il Papa, è un’ingerenza; se parla lo scienziato di turno, tutti a genuflettersi. La prima al massimo è un’opinione come tante, uno sarà libero di seguirla o meno; al parere dello scienziato si richiamerà lo Stato per i provvedimenti da prendere ed a cui tutti i cittadini dovranno poi adeguarsi.

Come vediamo, anche la nostra società che tanto si vanta della sua libertà, della sua democrazia e del suo pluralismo, in nulla si differenzia dalle società del passato, anch’esse fondantesi su criteri e paradigmi univoci ed ai quali tutti erano alla fine costretti a conformarsi, pena l’esplicita esclusione dal quel consesso umano o l’impossibilità pratica di viverci adeguatamente. Cambiano i paradigmi di riferimento, ma la sostanza totalitaria e liberticida è la stessa. Paul K. Feyerabend, tra i più grandi filosofi della scienza del secolo appena trascorso, scomparso nel 1994, è stato senza dubbio uno dei maggiori demistificatori del moderno concetto di libertà, smascherando le contraddizioni – nonché l’ipocrisia – su cui si fonda la nostra tanto onorata società libera e pluralista. Per Feyerabend una società che veramente vuol definirsi tale è una società dove tutti i punti di vista sono realmente tollerati, ed a nessuno, di fatto e di diritto, viene impedito di vivere secondo la propria tradizione. Se così dev’essere, la nostra società per Feyerabend tutto è tranne che “libera”, dato che essa si fonda esplicitamente sull’assunzione del paradigma tecno-scientifico quale unico paradigma di riferimento, relegando tutti gli altri nella sfera, sempre più impalpabile ed evanescente, delle scelte private e della cosiddetta coscienza individuale. Ma se si è arrivati giustamente a separare Stato e Chiesa, per Feyerabend non si vede perché non si debbano separare anche Stato e scienza. Perché mai, infatti, lo Stato dovrebbe sovvenzionare solo le istituzioni scientifiche, la cosiddetta “ricerca”, le scuole e le università dove sempre e comunque la visione positivista è posta quale cardine dell’insegnamento ed abbandonare al loro destino “privato” tutte le altre visioni del mondo? Perché mai i cittadini dovrebbero essere obbligati ad ottemperare ai provvedimenti che poi dall’azione di tali istituzioni inevitabilmente discendono finendo per dover rinunciare a principi e valori propri di altri paradigmi che magari riconoscono come più vicini al loro sentire? Da vero libertario ed autentico spirito libero, Feyerabend oppone il suo modello di “società libera” alla cosiddetta “società aperta” di popperiana memoria: quest’ultima, che i pregiudizi occidentalisti spacciano per società davvero libera, altro non è, per ammissione del suo stesso teorico, appunto Karl Popper, che una società basata sugli stessi criteri della scienza positiva; e poiché la scienza oggi viene considerata l’unica conoscenza “vera” e “pluralista”, tutti gli altri tipi di conoscenza risultano non essenziali – quando non vengono addirittura messi al bando – per il corretto funzionamento di tale società e del suo presunto pluralismo. Per Feyerabend è fin troppo evidente l’equivoco su cui si basa una simile concezione: come può definirsi “aperta” una società che per sua stessa ammissione si fonda su un unico paradigma, sia esso quello scientifico come qualsiasi altro? Nella “società libera” di Feyerabend, invece, tutti i punti di vista sono realmente tollerati se non esplicitamente valorizzati dallo Stato, nessuno potendo pretendere il monopolio della verità. Per connotare la moderna società tecnocratica, Feyerabend arriva a coniare il termine di “raziofascismo”, in quanto a suo avviso il vero fascismo è oggi rappresentato dalla pretesa della scienza di voler imporre la sua visione del mondo a tutti, quale unica visione valida e degna di essere perseguita.

Tale idea di ciò che una società autenticamente libera dovrebbe essere discende dalla stessa concezione che Feyerabend ha della scienza, concezione illustrata soprattutto nella sua opera più celebre, Contro il metodo (1975) e secondo cui la scienza positiva, lungi dal rappresentare, rispetto a quelle del passato, una forma superiore di conoscenza, costituisce solo una delle tante tradizioni culturali che l’umanità ha storicamente elaborato nel suo lungo e tortuoso cammino attraverso i secoli. Lungi dal fondarsi su criteri e metodi oggettivi, anche la scienza è espressione di una determinata storia, di uno specifico modo di relazionarsi al mondo che può essere spiegato solo a partire dai particolari contesti umani e sociali che ne hanno reso possibile lo sviluppo ed il successo. La presunta oggettività della scienza si limita così a tali contesti: agli occhi di un indiano hopi o di uno yogi induista le costruzioni della fisica moderna appaiono come un insieme di assurdità di cui non saprebbero che farsi, come noi consideriamo tutta un’assurdità la mitologia hopi e la metafisica del Vedanta. Allo stesso modo Feyerabend sottolinea che se per noi moderni occidentali l’esistenza delle leggi della fisica è un fatto talmente evidente che nessuno oserebbe avanzare dubbi in proposito, la medesima evidenza aveva per gli antichi greci l’esistenza degli dei, per cui mettersi a disquisire oggi se questi alla fine esistano o meno è in realtà una cosa senza senso: “le galassie – afferma Feyerabend nel Dialogo sul metodo (1979) – non scompaiono quando scompaiono i telescopi. Gli dei non scompaiono quando gli uomini perdono la facoltà di entrare in contatto con loro”. Tutto sta nella mentalità, nel modello di riferimento, nel modo di vedere le cose nel quale siamo cresciuti e siamo stati educati: così se oggi, di fronte a fenomeni quali il fondamentalismo islamico, noi occidentali siamo istintivamente portati a ricercarne le ragioni nel presunto indottrinamento, nel presunto lavaggio del cervello che in certi contesti educativi la gioventù dei paesi musulmani subisce, Feyerabend ci invita a riflettere sui contesti educativi in cui crescono i nostri ragazzi, i quali, nelle nostre scuole, subiscono un lavaggio del cervello uguale e contrario, “indottrinati” come sono fin da piccoli a guardare il mondo solo con le lenti della ragione scientifica, mentre tutte le altre visioni sono relegate tra le semplici opinioni personali o nei musei quali testimonianze dell’infanzia dell’umanità che il progresso e l’avanzata dei “lumi” hanno inesorabilmente spazzato via.

Noto al grande pubblico soprattutto per la provocatoria difesa delle ragioni della Chiesa nell’ambito della querelle seicentesca con Galileo, Feyerabend suscitò con le sue tesi un enorme scandalo e ferocissime polemiche: la critica alla presunta oggettività della conoscenza scientifica non veniva dai soliti ambienti tradizionalisti ed espressione di culture altre rispetto al sapere positivo, ma bensì da uno dei maggiori epistemologi del secolo, cosa che all’ambiente scientifico era davvero difficile da mandar giù. In base alla sua prospettiva, Feyerabend ha buon gioco nel demistificare le pretese della “ragion scientifica di Stato”: nell’ambito della “società libera” tutte le tradizioni hanno uguale diritto di cittadinanza, e la scienza, all’interno delle istituzioni, non deve godere di alcun privilegio di sorta. Del resto, ammesso e non concesso che il sapere scientifico sia l’unico a presentare caratteri di “oggettività”, questo non può essere un buon motivo per discriminare coloro che vogliono far riferimento ad altre prospettive: chi l’ha detto, infatti, che bisogna vivere per forza secondo ciò che è “oggettivo”? Uno non potrebbe trovare molto più interessante vivere seguendo quel che è soggettivo, arbitrario ed irrazionale? Come diceva Nietzsche, “quel che si limita a lasciarsi dimostrare ha poco valore”. D’altronde è la stessa epistemologia positivista ad ammonirci che se delle proposizioni scientifiche si può affermare la veridicità o meno, non lo si può di quelle che rimandano a scelte etiche, per cui la proposizione per la quale è giusto vivere seguendo la scienza non è affatto una proposizione scientifica! Considerato ciò, ognuno deve essere messo nelle condizioni di vivere secondo i valori e le consuetudini della tradizione che sente propria e tutte le tradizioni devono godere delle stesse garanzie e della stessa protezione da parte dello Stato. Feyerabend arriva a teorizzare la formazione di comitati di cittadini, afferenti alle più disparate tradizioni culturali, che controllano e decidono direttamente in merito alle questioni più importanti della vita pubblica, in modo da spezzare il monopolio del sapere – e dei finanziamenti - di cui godono le istituzioni scientifiche le quali, in nome della presunta oggettività della disciplina da esse coltivata, pretendono di sfuggire al controllo pubblico e di operare nella più assoluta irresponsabilità. Feyerabend sfata così un altro dei miti della moderna società tecnocratica, quello della “libera ricerca”, secondo cui, essendo la scienza oggettiva, questa non dovrebbe rendere conto a nessuno, nonostante poi le sue scoperte vadano ad incidere inevitabilmente e pesantemente sulla vita di tutti i cittadini. Visto ciò, per Feyerabend non si vede perché mai questi non debbano decidere essi stessi su come orientare la “ricerca” e cosa vada, quindi, promosso, finanziato e perseguito.

Di fronte alle critiche mossegli secondo cui la scienza, al di là dei fondamenti oggettivi o meno del suo metodo, in ogni caso funzioni e sia efficace sul piano pratico a differenza di conoscenze o dottrine di altro genere, Feyerabend fa notare come anche questo sia un problema mal posto e privo di senso, dato che è semplicemente assurdo pensare che per intere generazioni gli uomini si siano affidati a pratiche inefficaci, a meno che non si voglia credere che prima dell’avvento della “rivoluzione scientifica” essi siano stati vittima di una sorta di allucinazione collettiva. La verità è che l’efficacia cui miravano discipline quali la medicina antica, l’astrologia o l’alchimia nulla ha a che vedere con quella perseguita dalla scienza moderna, e solo il pregiudizio scientista dei nostri tempi può indurre a far pensare che gli uomini abbiano cercato sempre e ovunque le stesse cose. Ad esempio, riguardo alla medicina, è evidente per Feyerabend come il concetto di “salute” che avevano le società arcaiche o le civiltà premoderne fosse ben diverso da quello dell’Occidente attuale; chiaramente la medicina arcaica o premoderna soddisfaceva quel tipo di esigenza, altrimenti non si capirebbe perché mai gli uomini di quelle società o civiltà proprio a quelle forme di conoscenza si siano affidati. Per Feyerabend le pratiche più disparate, dalla danza della pioggia ai riti sacrificali, che agli occhi dell’uomo moderno appaiono null’altro che un insieme di ridicole quanto aberranti superstizioni, funzionavano ed avevano una loro efficacia, se le si intendono all’interno della particolare conoscenza e visione del mondo delle popolazioni che le hanno adottate: diversamente, se le si legge in base ai criteri della scienza moderna, sarebbe davvero inspiegabile come mai tali popolazioni abbiano perseverato per generazioni in tali pratiche anche di fronte al mancato verificarsi dei fenomeni e degli eventi secondo noi auspicati.

Nell’ambito della rivalutazione delle antiche discipline tradizionali, Feyerabend si è occupato soprattutto dell’astrologia, tornando spesso, in vari testi tra cui La scienza in una società libera (1978) e il già citato Dialogo sul metodo, sul caso scoppiato nel 1975 quando, sulla rivista americana “Humanist”, circa duecento autorevoli scienziati firmarono una dichiarazione contro l’astrologia, tacciata, senza che ci si preoccupasse di argomentare più di tanto tale ferma presa di posizione, di essere una disciplina priva di fondamento scientifico. Successivamente molti di questi scienziati, chiamati in varie circostanze a dar conto della loro iniziativa, ammisero candidamente di non sapere quasi nulla delle antiche tradizioni astrologiche, occidentali come orientali, tutt’al più confondendole con le ciarlatanerie che imperversano sugli odierni rotocalchi popolari! Analizzando questa dichiarazione, Feyerabend sottolinea inoltre come il suo linguaggio, violento ed intollerante, ricordi molto da vicino quello tipico dei documenti dell’Inquisizione contro gli eretici o le streghe, con una differenza: solitamente gli ecclesiastici dell’Inquisizione mostravano un’approfondita conoscenza delle dottrine “nemiche”, mentre i moderni inquisitori si rivelano violenti ed intolleranti nella totale ignoranza di ciò di cui parlano! Feyerabend ricorda spesso questo episodio per evidenziare come la scienza moderna si distingua da molte delle tradizioni culturali del passato proprio per la sua pretesa di universalità, per la volontà manifesta di erigersi ad unica conoscenza valida tale da legittimare la messa al bando di ogni altra visione della vita e del mondo. In ciò la scienza si rivela essere per quello che realmente è: l’ideologia dell’Occidente moderno che si è dato la missione di sradicare tutte le altre tradizioni ed il multiforme patrimonio culturale dell’umanità, omologando l’intero pianeta al modello tecnocratico occidentale, secondo un disegno “totalitario” che per Feyerabend trova le sue lontane origini nel razionalismo greco e nel monoteismo biblico. E che la moderna scienza non sia affatto incompatibile con l’antica astrologia lo dimostra ad esempio il caso di Keplero: Feyerabend sottolinea come pochi oggi ricordino che uno dei maggiori protagonisti della rivoluzione scientifica fosse anche un esperto astrologo, impegnato, tra l’altro, proprio nel tentativo di adattare la tradizione astrologica occidentale al nuovo cosmo eliocentrico emerso con la rivoluzione copernicana. Del resto è noto, sebbene anche in questo caso le biografie tendano ad essere reticenti, che Newton, il padre della fisica moderna, era dedito all’alchimia; anzi, pare che abbia dedicato più tempo della propria vita alla ricerca della “pietra filosofale” che alla “ricerca scientifica”; cosa che agli occhi degli scienziati odierni appare semplicemente assurda. Newton fu inoltre uomo politico e di governo, nonché cultore di studi biblici; segno, questo, di come ancora in pieno Settecento la scienza non fosse vista come una disciplina a sé stante e con pretese di egemonia sulle altre tradizioni, ma parte di una visione del mondo più vasta dove trovavano posto esigenze e conoscenze di tipo diverso.

Feyerabend mette in evidenza come in realtà nell’ambito della società moderna le tradizioni diverse da quella scientifica siano tollerate fintantoché non mettano in discussione le verità della scienza; come dire: tolleranza sì, purché si sia d’accordo con noi! A sostegno di questa tesi, nell’opera Addio alla ragione (1987) Feyerabend si sofferma, a mo’ di esempio, su un documento scritto da un gruppo di fisici austriaci nel 1970 come risposta al cardinale di Vienna Franz König che auspicava una più stretta cooperazione tra scienze e fede, documento nel quale gli scienziati affermavano che vi poteva essere cooperazione soltanto se le tesi della Chiesa non risultassero incompatibili con quelle della fisica. Feyerabend fa giustamente notare che le argomentazioni, nonché i toni e le pretese, degli scienziati austriaci appaiono incredibilmente simili a quelli usati nelle sue lettere dal cardinale Ballarmino, il maestro di contenzioso presso il Collegio Romano al tempo della diatriba con Galileo: questi, scriveva Ballarmino, poteva benissimo continuare a sostenere le sue tesi sul cosmo quali ipotesi teoriche; l’importante era che tali ipotesi non entrassero poi concretamente in conflitto con la visione sostenuta dalla Chiesa!

Le considerazioni di Feyerabend ci riportano d’altronde a ciò che le stesse democrazie moderne fissano come limite invalicabile della libertà che esse pur dicono di riconoscere a tutti i propri cittadini: si può essere liberi fintantoché si è… democratici; quindi i sostenitori di visioni e credenze che non si riconoscono nei presupposti e nei meccanismi della moderna democrazia non possono avere diritto di cittadinanza. La storia, nonché la cronaca recente, ci insegna dove conduce una simile e paradossale visione della democrazia: alle guerre ed ai bombardamenti “umanitari” fatti nel nome della libertà e di valori nei quali, con tutta evidenza, le popolazioni per la cui difesa tali guerre vengono scatenate non si riconoscono e di cui farebbero benissimo a meno! Ma se questa è la concezione della libertà e del pluralismo che la società moderna fa propria, allora non si vede in cosa essa si differenzi dalle società del passato: anche queste erano pluraliste e tolleranti nei confronti di idee e visioni le più diverse e variegate: l’importante era che queste non entrassero in conflitto, non risultassero “incompatibili”, con le idee e le visioni che ciascuna di quelle società aveva posto a proprio fondamento. Su questa scia anche i regimi cosiddetti totalitari del XX secolo possono essere definiti “pluralisti”: durante il ventennio fascista, sulle riviste di “regime”, si svolgevano roventi dibattiti culturali tra le tendenze e gli indirizzi più disparati - vi erano fascisti di destra e fascisti di sinistra; fascisti cattolici e fascisti “pagani”; monarchici e repubblicani -: l’importante era che si fosse, appunto, comunque “fascisti”, come oggi è essenziale, pena la messa al bando, essere comunque “democratici”. E lo stesso avveniva nei regimi comunisti, dove l’appartenenza al Partito Comunista era la cornice entro la quale il pluralismo veniva tollerato, come oggi tutti i partiti devono professarsi “democratici” pena l’esclusione dalla vita politica. Per venire ad un esempio dei nostri giorni, la tanto vituperata Repubblica Islamica dell’Iran in nulla si comporta diversamente: qui la cornice è rappresentata dall’adesione alla legge coranica: una volta rispettata questa, vige la più assoluta libertà di opinione e di azione politica, come dimostrano le vivaci ed accese competizioni elettorali che regolarmente si svolgono in questo paese.

Anche di fronte a tali evidenze, gli apologeti della società moderna sembrerebbero aver buon gioco nel sottolineare il “progresso” da questa comunque rappresentato quanto meno in merito alla maggiore tolleranza ed umanità con cui gli oppositori vengono oggi trattati rispetto a quanto avveniva nel passato. Certamente, direbbero, una libertà assoluta non esiste e non può essere garantita a tutti, ma quanto meno sono scomparsi, o vanno scomparendo, il confino, la tortura ed il rogo! Dopo tutto, nelle nostre liberal-democrazie, i sostenitori di idee non conformi rischiano al massimo una sanzione amministrativa! A guardar bene, anche questa tesi non regge alla prova dei fatti. La presunta maggiore “umanità” del mondo contemporaneo è dovuta in realtà al minor pericolo che oggi i sostenitori di visioni alternative rappresentano per il sistema, in una società sempre più omologata ed “a una dimensione”, dove tali visioni sono confinate ad ambienti marginali e di nicchia che non spaventano nessuno. In una società fondata inoltre sull’influenza manipolatrice dei mezzi di comunicazione di massa più che su poteri coercitivi di tipo tradizionale, la sola esclusione dai circuiti riconosciuti dell’informazione rappresenta per il sistema una garanzia di sopravvivenza a prova di qualsiasi minaccia o contestazione. Ma quando forze alternative sono riuscite anche all’interno di tali società a rappresentare un pericolo concreto di sovversione, la presunta maggiore umanità dei moderni se n’è andata a farsi benedire: la storia moderna è costellata di svolte autoritarie, limitazioni delle libertà e dei diritti fondamentali, colpi di stato sanguinari che i regimi liberali hanno messo sistematicamente in atto di fronte all’avanzare di forze a loro ostili. Basti pensare alle vicende che hanno caratterizzato storicamente i rapporti tra le forze borghesi ed il movimento operaio, o, per venire a fatti della storia più recente, ai regimi dittatoriali dell’America Latina, quando, per spazzar via il pericolo comunista incombente, sono stati rispolverati sistemi di tortura e di soppressione fisica degli avversari politici così brutali da far impallidire quelli in uso nel Medioevo. Ma anche nel nostro paese, durante gli anni Settanta, la lotta politica rischiò più volte di uscire dai binari della normale dialettica democratica per conoscere fenomeni di imbarbarimento e di violenza fisica – la cosiddetta “strategia della tensione” - sempre allo scopo di arginare l’avanzata di forze ritenute eversive rispetto al regime vigente.

Oggi lo stesso sembra ripetersi nei paesi musulmani, dove di fronte all’affermazione dei gruppi fondamentalisti non ci si pensa due volte a sospendere le cosiddette garanzie democratiche e ad annullare regolari tornate elettorali solo perché la vittoria è stata conseguita appunto da tali gruppi. In Algeria, in conseguenza della clamorosa vittoria del Fronte Islamico di Salvezza nelle elezioni del 1991, l’esercito ha attuato un colpo di stato a cui ha fatto seguito una ferocissima guerra civile che in sette anni ha causato circa 150.000 vittime. In Egitto, dopo gli inaspettati consensi ottenuti dai Fratelli Musulmani nelle elezioni legislative del 2005, il governo filo-occidentale del presidente Mubarak ha pensato bene di rinviare sine die il processo di democratizzazione del paese, annullando le elezioni amministrative previste per l’anno successivo ed avviando parallelamente una politica di dura repressione nei confronti dei movimenti islamisti. Il paradosso di simili vicende è che in questi paesi il processo di rinnovamento democratico viene spesso messo in atto su sollecitazione delle potenze occidentali, come segno tangibile della loro politica di “esportazione della democrazia”: ma, evidentemente, anche in tali paesi il messaggio dell’Occidente è sempre lo stesso: la democrazia val bene fin quando la si pensi come noi! 

In verità, tali paradossi possono risolversi solo riconoscendo un effettivo pluralismo, che non si limiti a garantire il libero movimento di pedine all’interno di una scacchiera di riferimento già comunque predisposta, riducendo la libertà alla mera possibilità offerta a tutti di partecipare a tale gioco. Secondo l’ottica di Feyerabend, una simile concezione della libertà nasconde in realtà il più spaventoso dei totalitarismi, in quanto finisce per delegittimare  paradigmi di riferimento alternativi e quindi per rendere impossibile l’affermazione ed il libero esplicarsi di giochi differenti. E a chi, sdegnato, gli faceva notare come tale concezione del pluralismo finisse per legittimare le idee più turpi e dare spazio all’azione dei gruppi più facinorosi, facendo perdere di vista ogni discrimine tra Bene e Male, e gli chiedeva se per caso nella sua tanto auspicata “società libera” anche i nazisti e chi come loro avrebbe magari voluto riaprire Auschwitz avrebbero avuto diritto di cittadinanza, Feyerabend, in Addio alla ragione, risponde che “Auschwitz è la manifestazione estrema di un atteggiamento che è ancora in pieno sviluppo in mezzo a noi. Questo atteggiamento si rivela nel modo in cui vengono trattate le minoranze nelle democrazie industriali; nel processo di educazione, inclusa l’educazione ad un punto di vista umanitario, che consiste nel trasformare giovani meravigliosi in copie scolorite e dogmatiche dei loro insegnanti […]. Si rivela nella distruzione della natura e delle culture ‘primitive’ senza neppure un pensiero per coloro le cui vite sono state così svuotate del loro significato; nella colossale presunzione dei nostri intellettuali, nella loro convinzione di sapere esattamente quello di cui l’umanità ha bisogno e nel loro persistente tentativo di rimodellare le persone secondo la loro penosa immagine […]. Per quanto mi riguarda non esiste differenza alcuna fra i complici di Auschwitz e questi ‘benefattori dell’umanità’: in entrambi i casi si abusa della vita per scopi particolari. Il problema è la sempre minore considerazione dei valori spirituali e la loro sostituzione con un materialismo rozzo, ma ‘scientifico’, che qualche volta viene anche chiamato umanesimo […]. Come si può prendere sul serio una persona che deplora crimini lontani ma elogia i criminali che gli stanno attorno? […] Una cosa è essere in prima linea nella lotta contro la crudeltà e l’oppressione, perché in tal caso si può vedere il proprio nemico, se ne può sentire l’odore; e tutto il nostro essere, non solo le nostre capacità retoriche, sarà impegnato nel tentativo di sconfiggerlo. Un’altra cosa è scuotere la testa e decidere sul Bene e sul Male mentre si sta seduti in un comodo ufficio. Lo so, molti miei amici possono prendere una decisione di questo genere con entrambe le mani legate dietro la schiena – ovviamente hanno una coscienza morale ben sviluppata. Io, d’altra parte, dato che prendo sul serio la distanza, vorrei considerare un punto di vista diverso in cui il Male è parte della vita proprio come fu parte della Creazione. Non gli si dà il benvenuto, ma non ci si accontenta neppure di reazioni infantili. Lo si delimita, ma lo si lascia sopravvivere nel suo dominio. Perché nessuno è in grado di dire quanto bene ci sia ancora in esso e in che misura l’esistenza anche del bene più insignificante sia legata ai crimini più atroci”.