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Un film al giorno: «Luciano Serra pilota» di G. Alessandrini (1938)

di Francesco Lamendola - 28/05/2009

 

«Luciano Serra pilota» esce nelle sale cinematografiche italiane nel 1938, con la firma di Goffredo Alessandrini, un regista del quale abbiamo già parlato a proposito di un altro film da lui girato quattro anni dopo, anch'esso del genere bellico: «Giarabub» (articolo consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Il protagonista è interpretato dal «bello» di Cinecittà, quell'Amedeo Nazzari che non ha mai posseduto grandi doti di recitazione, ma che, grazie al fisico prestante, al volto energico, alla voce maschia e al fare deciso e vigoroso, ha perfettamente incarnato, negli anni del fascismo, il tipo ideale dell'uomo virile, coraggioso, insofferente di ogni compromesso e di ogni finzione; insomma, il tipo che faceva sognare milioni di ingenue fanciulle e anche di signore più mature. Il cast comprende poi Germana Paolieri, Roberto Villa, Mario Ferrari e Guglielmo Sinaz.
La storia, sceneggiata dallo stesso Alessandrini e da un giovane di belle speranze, Roberto Rossellini, era intesa a celebrare contemporaneamente la saldezza del vincolo familiare e l'amor di patria, nonché le virtù militari della stirpe italiana e la conquista dell'Impero di Etiopia. Molta carne al fuoco, come si vede; forse troppa.
Eppure, nonostante gli intenti scopertamente propagandistici, e nonostante il fatto che lo stesso figlio del Duce, Vittorio Mussolini, lo abbia supervisionato, il film non cade mai nella bieca retorica militare e patriottarda ed anzi, accanto ad una rimarchevole sobrietà di stile, si spinge a tratti fino ai limiti di un verismo che lascia quasi presagire l'incipiente stagione neorealista degli anni del dopoguerra.
La vicenda si svolge fra l'Italia, l'America del Sud e l'Africa, e narra le vicende, avventurose e drammatiche, di un padre di famiglia, Luciano Serra, il quale, per amore del volo, rischia di perdere l'affetto dei suoi cari: la moglie (Paolieri) e il figlioletto Aldo (Villa). Quest'ultimo, crescendo,  decide di seguire la stessa carriera del padre e si arruola in aviazione. Frattanto il protagonista, che era stato abbandonato dalla moglie, viene dato per morto in un incidente aereo, e scompare per ben vent'anni.
Invece non è morto e ricompare, in maniera del tutto inaspettata, giusto in tempo per salvare la vita a suo figlio, ma a prezzo della propria. Infatti si era arruolato, non come Luciano Serra, ma sotto falso nome, ed era partito volontario per la guerra d'Etiopia (1935-36): dove, nel corso di una missione particolarmente pericolosa, si verifica la commovente agnizione e lo scioglimento finale della vicenda, con il padre che si immola per proteggere il figlio.
Il linguaggio cinematografico di «Luciano Serra pilota» è, come dicevamo, particolarmente originale perché, pur trattandosi di un film dichiaratamente celebrativo, rifugge dai facili effetti retorici e,  a dispetto del patetico finale, si affida ad uno stile narrativo asciutto e quasi scabro, decisamente insolito in una pellicola di quel genere. La conquista della Coppa Mussolini al festival di Venezia (resa forse inevitabile dalla collaborazione alla regia di Vittorio Mussolini) sanzionò l'apprezzamento del Duce e del regime.
A ciò si aggiunse la straordinaria popolarità, testimoniata non solo dal successo di pubblico, ma, addirittura, dalla nascita di un fumetto intitolato all'eroe Luciano Serra, e realizzato dalla matita di Walter Molino, giovane promessa della stampa popolare illustrata.
Ha scritto Claudio Carabba nel suo libro «Il cinema del ventennio nero» (Firenze, Vallecchi, 1974, pp. 71-72):

«Due anni dopo, nel 1938, il successo [di Amedeo Nazzari, già protagonista di "Cavalleria", anch'esso per la regia di Goffredo Alessandrini] si ripeté e crebbe di fronte alle avventure di Luciano Serra, pilota intrepido, ancora interpretato dal bellissimo Amedeo sotto la direzione di Alessandrini, con la non trascurabile supervisione molto speciale di Vittorio Mussolini in persona. Premiato alla mostra di Venezia, alla pari con il mastodontico "Olympia" germanico, "Luciano Serra pilota" era nato con l'ambizione di sintetizzare, attraverso la storia di un uomo solo, l'eroismo degli aviatori italici dall'inizio del secolo sino alle imprese d'Africa e oltre; ché il fervido rapporto tra padre e figlio assicurava sublimi continuazioni nel futuro, al di là della morte.  La celebrazione dell'aeronautica, arma privilegiata, era già stata tentata qualche temo prima ("L'armata azzurra" di Righelli), ma il regista della "Canzone dell'amore" aveva avuto il torto di contaminare "generi" diversi, inserendo un'opera  che doveva avere il crisma dell'ufficialità persino "le canzonette più stupide"; e scontentando così tutti, pubblico e dirigenti. Alessandrini, lavorando guardingo con alle spalle il figlio del duce, non corse davvero questi pericoli. La struttura romanzesca serviva per attanagliare con maggior vigore il cuore di quelli che guardavano.. Soldato nato, Luciano è incapace di vivere nei bei giorni troppo placidi della pace, alle prese con le piccole beghe familiari. Da qui nasce la sua penosa crisi, con l'esilio nelle terre dell'America latina, "tra gente ignobile che pensa solo al denaro". Serra no, pur intristito, ha l'animo sempre volto a egregie cose, quando di nuovo la patria chiama e sprona alla battaglia, ancorché sfinito dal tempo trascorso e dalle vicissitudini è in prima fila tra i volontari dell'Africa, là dove il duce vuole rifondare l'Impero. La sua morte sotto il segno di un doppio sacro ideale (la vittoria dell'Italia e la salvezza del tenero figlio che ha preso audacemente le sue orme) avviene dopo un meditato crescendo drammatico. "Dall'atmosfera sonnolenta e depressa della prima parte al vigoroso, potente finale, a quella chiusa maestosa e commovente (sul petto del figlio viene appuntata la medaglia d'oro dedicata al padre, è tutto un susseguirsi di scene dove lo slancio, il fremito giovanile si fanno sentire", notava nella corrispondenza dalla mostra "Bianco e nero", concludendo: "Luciano Serra è un film importante, oltreché per le sue doti intrinseche, perché stabilisce un tipo di film squisitamente italiano". Altri recensori usavano nell'encomio dosi più forti e piccanti.  Luciano Serra era per loro il "simbolo dell'Italiano di oggi: quello che si è battuto contro cinquantadue nazioni. Non è senza significato che il cinema italiano, l'arma più forte, debba proprio oggi rievocare  due grandi figure, Serra e Fieramosca,  vestito di ferro l'uno, fatto di ferro l'altro".»

La monografia di Carabba, peraltro, è un tipico esempio di quel pregiudizio ideologico, di quel piatto conformismo e di quel disprezzo snobistico, che la cultura «ufficiale» ha sempre riservato al cinema italiano del Ventennio, accomunando nella stessa condanna - politica, più che artistica - il regime allora al potere e la produzione nostrana della Decima Musa.
Eppure, un po' di onestà intellettuale vorrebbe che si riconoscesse che il fascismo fece molto per il nostro cinema, raccogliendolo in uno stato comatoso, anzi, praticamente morto; che spese molto denaro e mobilitò uomini e idee per ridargli vitalità e prestigio. Prima del fascismo e sino al primo decennio del regime, la produzione dei film italiani, anche a causa della scarsezza dei mezzi tecnici, si riduceva a poche unità all'anno: ancora nel 1930 se ne realizzarono appena sette.
Nel 1935, però, Mussolini creava una Direzione Generale per la cinematografia, fondava il Centro Sperimentale per avviare nuovi giovani verso quella carriera, e intraprendeva, in tempi brevissimi, la fondazione di Cinecittà, sollecitando i capitalisti italiani ad investire in questa nuova industria. Siamo troppo sospettosi se immaginiamo che la rinascita del film italiano non sia stata accolta con particolare soddisfazione dalle grandi case straniere, e particolarmente da Hollywood, per la quale l'uscita di ogni nuovo film italiano sottraeva il pubblico delle sale cinematografiche alla presa dei divi americani, diminuendo gli incassi dei capitalisti d'oltre Oceano?
Sta di fatto che nel 1942, cioè in piena guerra, il cinema italiano era arrivato a marciare a pieno regime e dimostrava una vitalità eccezionale: in quell'anno, infatti, i film prodotti furono ben centoventidue, cifra mai toccata prima. A questo proposito si è detto e ripetuto fino alla noia che la quantità non è sinonimo di qualità, una verità talmente ovvia da risultare perfino banale. Ma quei signori critici che ostentano un così grande disprezzo nei confronti di quel cinema, dovrebbero spiegarci come mai, se tutto quel che è uscito da Cinecittà non era che paccottiglia di regime, perfino gli storici più ostili devono poi riconoscere che la grande stagione neorealista trova qui, negli anni di guerra, le proprie radici.
In particolare, gli stroncatori del cinema fascista, giudicato «in toto» come un paesaggio desolato di frivolezze (i «telefoni bianchi») e di miti di cartapesta (i film eroici e di guerra), dovrebbero spiegare come mai il canto del cigno di quel cinema, nel momento più drammatico della storia nazionale, abbia potuto dar vita a capolavori assoluti come «Quattro passi fra le nuvole» di Alessandro Blasetti (cui abbiamo già dedicato un apposito articolo, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), «I bambini ci guardano» di Vittorio De Sica, e «Ossessione» di Luchino Visconti.
Tutti e tre uscirono nel 1942, alla vigilia del diluvio, quando sia il regime che il Paese erano ormai allo stremo: eppure, che vitalità, che bravura, che maturità di idee e di stile: non sono certo l'espressione di un'arte cinematografica ormai languente, tutt'altro! Nessun critico serio ha mai osato sostenere che «Roma, città aperta» di Rossellini, «Ladri di biciclette» di De Sica o «La terra trema» di Visconti, sarebbero stati anche solo pensabili, senza queste premesse: e, del resto, basta guardare i nomi dei registi, per vedere che - in molti casi - sono proprio gli stessi.
E allora? E allora bisogna avere la decenza di riconoscere che la stagione neorealista è stata preparata dal tanto aborrito «cinema fascista»; e, al tempo stesso, che il regime fascista non esercitò mai un potere tirannico sulla Decima Musa - nei limiti e con le ovvie riserve di una dittatura, s'intende; niente di simile, in ogni modo, a quanto fecero i compagni comunisti con il cinema dell'Unione Sovietica o i camerati nazisti con quello della Germania: asserviti, quelli sì, alle esigenze della propaganda, oppure convogliati - specie quello tedesco, ma sempre con le debite eccezioni - verso una produzione di innocua ed insulsa evasione sentimentale.
Del resto - diciamolo con franchezza, è il segreto di Pulcinella che tutti gli storici del cinema e del costume conoscono benissimo, ma di cui nessuno osa parlare - il cinema italiano di quegli anni era alle prese con un compito supplementare, sconosciuto, ad esempio, a quello francese o britannico: quello di essere strumento consapevole della formazione di una coscienza nazionale, sul modello di quanto aveva fatto «I promessi sposi» nell'ambito della lingua nazionale, e  di quanto, poi - negli anni del «boom» economico - farà la televisione, contribuendo potentemente a modellare (o piuttosto, avrebbe detto Pasolini, ad appiattire) la mentalità ed il costume.
Perciò, e senza scomodare la tesi gentiliana del fascismo come prosecuzione e completamento dell'opera storica del Risorgimento (ossia, in sostanza, quel «fare gli Italiani» auspicato dal  D'Azeglio), resta il fatto che il successo strepitoso di un film come «Luciano Serra pilota» si spiega anche con la percezione, da parte del pubblico, del contributo che esso volle dare alla formazione di un «epos» - e, quindi, di un «ethos» - nazionale.
Oggi si può anche sorridere di quell'atmosfera, di quelle trame, di quei personaggi, di quelle ingenuità.
Sta di fatto che ad una coscienza nazionale nascente, che aveva come modelli ideali (velleitari fin che si vuole, ma almeno di animo nobile) personaggi come Luciano Serra, è subentrata, nel dopoguerra, e specialmente dagli anni del «miracolo economico», una coscienza nazionale intisichita, autoderisoria e autodenigratoria, che ha come specchio fedele l'Italiano arruffone, voltagabbana, vile e cialtrone, ma dal cuore grande e dalla lacrima facile, impersonato perfettamente da Alberto Sordi.
E noi, a costo di passare per nostalgici e reazionari, preferiamo cento volte un cinema che addita come modello umano un Luciano Serra, ad uno che incessantemente ci presenta, con martellante conformismo, lo stereotipo disonorevole del «tutti a casa!» dell'Albertone nazional-popolare, con la sua faccia di luna piena e gli occhietti furbi, che ammiccano senza posa, per dissimulare la fondamentale mancanza di onestà, dirittura, senso del dovere.