Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Tamerlano: ferocia e ineguagliate vette artistiche

Tamerlano: ferocia e ineguagliate vette artistiche

di Pietro Citati - 03/06/2009

     
 
 
 
Timur lenk (lo zoppo), da cui gli occidentali hanno tratto il nome di Tamerlano, nacque a sud di Samarcanda attorno al 1325. Pretendeva di discendere da Gengiz Khan, il mongolo, fondatore di immensi imperi: ma era un turco, e il nome di Gengiz Khan gli serviva ad esaltare il proprio orgoglio. Conquistò territori dal Volga a Damasco, da Smirne al Gange, da Tashkent a Shiraz, massacrando milioni di persone. Appena distrutta una città, la abbandonava con una specie di disgusto: gli antichi signori vi ritornavano; così che i confini dell’impero di Tamerlano restavano mobili, incerti, instabili, ed egli era sempre altrove. Odiava tutto ciò che era fermo: le città, i regni, le istituzioni, le culture; e dopo il suo passaggio gli alberi morivano, i giardini si disseccavano, i torrenti diventavano paludi, la terra si trasformava in deserto.
Mescolava la violenza mongola e il fanatismo islamico: «serio e cupo, nemico della gaiezza», […] questo zoppo attraversava di corsa il mondo, questo mutilato ad una mano usava ferocemente la sciabola, questo arciere infallibile tendeva l’arco «sino all’orecchio». Gli squadroni del suo esercito erano colorati. Uno aveva stendardi, corazze, lance, scudi, abiti, armi, di color rosso: l’altro era tutto verde: il terzo giallo: il quarto bianco, come se Tamerlano fosse un artista che pretendeva di passare in rassegna un mondo ordinato e multicolore. Dopo il suo passaggio, Gengiz Khan lasciava dietro di sé montagne di teste umane. A Tamerlano non bastavano le montagne di teste: prendeva migliaia di prigionieri vivi, gli uni gettati sugli altri, versava sopra di loro fango e mattoni, e costruiva torri umane. Nei primi anni del quindicesimo secolo, decise di assalire la Cina; e forse soltanto la sua morte, nel 1405, salvò l’Impero Ming dal disastro definitivo. L’editore Mondadori di recente ha pubblicato Le gesta di Tamerlano di Ghiyasoddin Ali di Yazd (collezione Islamica, pp. XXXVI-244, € 16): un testo scritto in persiano verso l’inizio del quindicesimo secolo. L’autore discendeva da un’antichissima famiglia che risaliva al periodo sasanide, cioè all’epoca preislamica: fu segretario di corte, e venne incaricato da Tamerlano di esaltare la sua gloria. Nel testo di Ghiyasoddin avviene una singolare trasformazione: tutto ciò che nella storia era stato violenza, crudeltà, ferocia, astuzia politica perdeva il proprio peso. Non importavano gli eventi: ma soltanto la bellezza, l’eleganza, la grazia, gli alberi e gli arbusti delle metafore, che crescevano rigogliosamente come una deliziosa fioritura di immagini. L’orribile fiume di sangue versato da Tamerlano diventava un piccolo rivolo rosso, dipinto squisitamente in una miniatura decorata d’oro.
Tutto ciò obbediva ad una specie di provvidenza. Quel feroce guerriero cercava dovunque miniaturisti, cesellatori orafi, decoratori, gioiellieri, falegnami, che strappava dalle loro città distrutte e portava nella sua capitale, Samarcanda. Lì preparava bellissimi giardini (paradisi, come si dice in persiano), dove amava vivere, assistendo al lavoro dei suoi miniaturisti e dei suoi orafi, e discutendo di teologia. Era l’Eden sognato da un sanguinario. Quando morì, i suoi eredi (i tumuridi), in perenne e feroce guerra tra loro, protessero le arti. Appena avevano finito di bere nel cranio di un nemico ucciso, prendevano in mano il calamo per dipingere l’ala di un angelo. A Herat (ora in Afghanistan), a Tabriz e a Shiraz (in Persia), sorsero grandi centri di cultura e di pittura, dove si diffuse il gusto cinese: fondi d’oro vivo accostati a cieli blu.
Shah Ismail, che fondò pochi decenni dopo la dinastia savafide in Persia, era degno di Tamerlano. Intorno al 1515, pensò di regalare al figlio, il futuro Shah Tahmasp, una copia del Libro dei re di Ferdousi, illustrata dai migliori artisti del tempo. Il figlio, ancora ragazzo, viveva ad Herat: riparato dai legni della biblioteca, copiava e miniava testi mistici; lo educava la scuola di Behzad, famosa per la delicatezza del tocco, l’attenzione psicologica e l’armonia della composizione. Shah Ismail aveva la propria capitale a Tabriz, dove fioriva una scuola di pittura dai caratteri opposti: espressiva, teatrale, ricca di motivi cinesi e dai fiammeggianti colori. Egli decise di invitare Behzad e i suoi allievi a Tabriz, fondendo le due scuole in una sola. Da questa collaborazione artistica nacque un capolavoro della pittura universale: il Libro dei re di Shah Tahmasp, che passò più tardi al sultano di Turchia, al barone Edmond de Rothschild, a Arthur Houghton e pochi anni fa venne disperso tra il Metropolitan Museum e alcuni collezionisti privati.
In arte come in letteratura, amo il piccolo formato: gli haikai, i sonetti, i piccoli poemi in prosa, gli aforismi, gli epigrammi, le leggende sufì o chassidiche, le miniature. Nelle illustrazioni dedicate a Shah Ismail e a Shah Tahmasp, due centimetri quadrati possono contenere uno stagno pieno di anatre, di pesci, di erbe, di pietre: o immense catene montagnose: o case di cui conosciamo ogni tappeto, ogni ceramica, ogni candelabro: o lotte contro i draghi; o sfide tra elegantissimi cavalli guerrieri. Non vi è mai un’impressione di piccolo o di troppo affollato. Se guardate con l’aiuto della lente La corte di Gayomart di Sultan Muhammad o Zal scorto da una carovana di Abd al-Aziz o Il combattimento di Rostam e Shangul di Aqa Mirak, avete l’impressione di conoscere un mondo vasto come quello delle Stanze o della Sistina. Il limite del piccolo formato, l’obbligo del calamo e della lente, la tensione attribuita ad ogni linea e ad ogni tocco di colore, il senso che l’universo esista soltanto perché noi lo rendiamo minimo e quasi invisibile - sembra esaltare la potenza visionaria dei pittori persiani.
Nelle miniature del primo periodo safavide, il disegno bidimensionale esclude qualsiasi rappresentazione del volume, del corpo e della distanza. I piani sullo sfondo o in seconda e terza posizione sono alzati verticalmente, fino a coincidere col piano della pittura: invece di accettare un solo punto di vista, come nella pittura occidentale, ogni miniatura offre molteplici punti di vista - oggetti visti frontalmente e oggetti visti dall’alto, come da un uccello in volo. Il risultato è evidente. Nelle duecentocinquantotto miniature del Libro dei re, dove tutto o quasi tutto è rigorosamente in primo piano, trionfa la perfezione della linea: l’estenuazione, la flessuosità e la crudeltà di una linea, che a qualcuno potrà ricordare i quasi contemporanei trionfi del gotico internazionale. Nemmeno le rocce e le montagne hanno spessore. La linea regna sopratutto nel mondo affine degli uomini e dei cavalli: gli uomini infinitamente fragili, anche quando combattono: con le teste piccole, le figure svelte e flessibili, i gesti femminei; i cavalli con esilissime e finissime gambe, colli arcuati come lettere del Corano, code fastose - che inalberano i colori più innaturali, rosa salmone, blu pervinca, arancio, giallo dorato, sotto le gualdrappe irreali.
Nelle corti di Herat e di Tabriz, a colloquio incessante tra loro e coi maestri calligrafi, Sultan Muhammad e Aqa Mirak pensarono che la linea deve contenere e esaltare la gloria dei colori. È difficile incontrare colori così puri: senza sfumature per indicare distanze e ombre; immersi in una luminosità uniformemente diffusa, che non emana da nessuna sorgente particolare, ma dalla totalità indivisa della luce che percorre l’universo, dove vivono gli uomini e i draghi, i cavalli e i tappeti. Sovente si tratta di colori simbolici. Il cielo è d’oro, l’acqua d’argento, il suolo celeste - e nessuno ha mai visto in natura questi ardenti giallo limone, questi teneri rosa salmone, questi misteriosi verde giada, questi interminati bianchi avorio. Questo codice simbolico non è fisso. Se in una miniatura il cielo è dorato e il suolo celeste, in quella che le sta di fronte il cielo è celeste e il suolo dorato. Non tutti i colori obbediscono a un codice simbolico: il verde dei cespugli, il giallo delle foglie morte, le piume delle anatre e degli uccelli, il rosso e il bianco dei fiori, gli infiniti colori delle ceramiche e dei tappeti sono quelli che i persiani scorgevano nella realtà. Da questa straordinaria molteplicità di codici pittorici, che si contraddicono e si completano, nasce una libertà di variazione, una fantasia coloristica, una ricchezza visionaria, che incantano la nostra mente. […]