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Archetipi celesti dei territori, dei templi e delle città

di Mircea Eliade - 03/06/2009

Secondo le credenze mesopotamiche, il Tigri ha il suo modello nella
stella Anunlt, e l'Eufrate nella stella della Rondine. Un testo sumerico
parla della " dimora delle forme degli dèi ", in cui si trovano " [le
divinità] dei greggi e quelle dei cereali ", Anche per i popoli altaici
le montagne hanno un prototipo ideale nel cielo. I nomi dei luoghi e dei
nomi egiziani erano dati secondo i " campi celesti ": si cominciava con
il conoscere i " campi celesti ", poi li si identificava nella geografia
terrestre.
Nella cosmologia iranica di tradizione zervanita " ogni fenomeno
terrestre, astratto o concreto, corrisponde a un termine celeste,
trascendente, invisibile, a un' "idea" nel senso platonico. Ogni cosa,
ogni nozione si presenta sotto un duplice aspetto: quello di menok e
quello di getah. Vi è un cielo visibile: vi è quindi anche un cielo
menok che è invisibile (Bundabishn, c. 1). La nostra terra corrisponde a
una terra celeste. Ogni virtù praticata quaggiù, nel getah, possiede una
controparte celeste che rappresenta la vera realtà... L'anno, la
preghiera... insomma, tutto quello che si manifesta nel getah è
contemporaneamente menok. La creazione è semplicemente sdoppiata. Dal
punto di vista cosmogonico, lo stadio cosmico qualificato come menok è
anteriore allo stadio getah " .
In particolare, il tempio - come luogo sacro per eccellenza - aveva un
prototipo celeste. Sul monte Sinai, Jahvè mostra a Mosè la " forma " del
santuario che dovrà costruirgli: " Costruirete il tabernacolo con tutti
gli arredi, esattamente secondo il modello che ti mostrerò " (Es.
25,8-9). " Guarda e costruisci tutti questi oggetti secondo il modello
che ti ho mostrato sulla montagna " (25,403. E quando Davide dà a suo
figlio Salomone la pianta delle fondamenta del tempio, del tabernacolo e
di tutti gli arredi lo assicura che " tutto ciò... si trova esposto in
uno scritto opera della mano dell'Eterno, che me ne ha dato la
comprensione " (Cron. 1,28,19). Di conseguenza ha visto il modello
celeste.
Il più antico documento concernente l'archetipo di un santuario è
l'iscrizione di Gudéa che si riferisce al tempio innalzato da lui a
Lagash. Il re vede in sogno la dea Nidaba, che gli mostra un pannello su
cui sono elencate le stelle benefiche, e un dio, che gli rivela la
pianta del tempio. Anche le città hanno il loro prototipo divino. Tutte
le città babilonesi avevano i loro archetipi in costellazioni: Sippar
nel Cancro, Ninive nell'Orsa Maggiore, Assur in Arturo, ecc. Sennacherib
fa costruire Ninive secondo " il progetto stabilito da tempi remotissimi
nella configurazione del cielo ". Non soltanto un modello precede
l'architettura terrestre, ma si trova anche in una " regione " ideale
(celeste) dell'eternità. Lo proclama Salomone: " Tu mi hai ordinato di
costruire il tempio nel tuo santissimo Nome, e anche un altare nella
città in cui tu abiti, secondo il modello della tenda santissima, che tu
avevi preparato fin dall'inizio! " (Sap. 9,8).
Una Gerusalemme celeste è stata creata da Dio prima che la città di
Gerusalemme fosse costruita dalla mano dell'uomo: a quella si riferisce
il profeta nell'Apocalisse Siriaca di Baruch, 2,42, 2-7: " Credi che sia
là la città di cui ho detto: "Nella palma delle mie mani ti ho fondata"?
La costruzione che si trova attualmente in mezzo a voi non è quella che
è stata rivelata in me, quella che era preparata dal tempo in cui mi
sono deciso a creare il paradiso, e che ho mostrato ad Adamo prima della
sua colpa... ".9
La Gerusalemme celeste ha infiammato l'ispirazione di tutti i profeti
ebrei: Tobia (13,16), Isaia (59,11 ss.), Ezechiele (60) ecc. Per
mostrargli la città di Gerusalemme, Dio rapisce Ezechiele in una visione
estatica, e lo trasporta su di una montagna altissima (60,6 ss.). E gli
Oracoli Sibillini conservano il ricordo della Nuova Gerusalemme, al
centro della quale risplende " un tempio con una torre gigantesca che
tocca le nubi ed è vista da tutti ".
Ma la più bella descrizione della Gerusalemme celeste si trova
nell'Apocalisse (21,2 ss.): " E io, Giovanni, ho visto la città santa,
la nuova Gerusalemme, che discendeva dal cielo, da presso Dio, pronta
come una sposa che si è adornata per il suo sposo ".
Ritroviamo la stessa teoria in India: tutte le città regali indiane,
anche moderne, sono costruite sul modello mitico della città celeste in
cui abitava nell'età dell'oro (in illo tempore) il sovrano universale.
E, proprio come quello, il re si sforza di far rivivere l'età dell'oro,
di rendere attuale un regno perfetto, idea che ritroveremo nel corso-del
presente studio. Così, per esempio, il palazzo-fortezza di Sihagiri, a
Ceylon, è costruito sul modello della città celeste Alakamanda, ed è "
di difficile accesso per gli esseri umani " (Mabavastu, 39,2). Anche la
città ideale di Platone ha un archetipo celeste (Rep. 592b, cfr. ibid.,
500e). Le " forme " platoniche non sono astrali, ma la loro regione
mitica si situa tuttavia su piani sopra-terreni (Fedro, 247,250).
Così, il mondo che ci circonda, in cui si sente la presenza e l'opera
dell'uomo - le montagne sulle quali vive, le regioni popolate e
coltivate, i Sumi navigabili, le città, i santuari - hanno un archetipo
extraterreno, concepito sia come una " pianta ", come una " forma ", sia
semplicemente come un " doppio " esistente precisamente a un livello
cosmico superiore. Ma non tutto, nel " mondo che ci circonda ", ha un
prototipo di questa specie. Per esempio, le regioni desertiche abitate
da mostri, i territori incolti, i mari sconosciuti su cui nessun
navigatore ha osato avventurarsi ecc. non dividono con la città di
Babilonia o con il nomo egiziano il privilegio di un prototipo
differenziato. Essi corrispondono a un modello mitico ma di un'altra
natura: tutte queste regioni selvagge, incolte, ecc. sono assimilate al
caos; esse partecipano ancora della modalità indifferenziata, informe,
precedente la creazione. Per questo, quando si prende possesso di un
determinato territorio, cioè quando si comincia ad esplorarlo, si
compiono riti che ripetono simbolicamente l'atto della creazione; la
zona incolta è prima di tutto " cosmizzata ", poi abitata. Ritorneremo
fra poco sul significato delle cerimonie di presa di possesso delle zone
di nuova scoperta. Per ora vogliamo sottolineare che il mondo che ci
circonda, civilizzato dalla mano dell'uomo, ha, come unica validità,
quella dovuta al prototipo extraterrestre che gli è servito di modello.
L'uomo costruisce secondo un archetipo; non soltanto la sua città o il
suo tempio hanno modelli celesti, ma anche tutta la regione che abita,
con i fiumi che la bagnano, i campi che gli dànno il nutrimento, ecc. La
carta di Babilonia mostra la città al centro di un vasto territorio
circolare circondato dal fiume Amer, esattamente come i sumeri si
raffiguravano il paradiso: questa partecipazione delle culture urbane a
un modello archetipico conferisce loro la realtà e la validità.
Lo stanziamento in una zona nuova, sconosciuta e incolta, equivale a un
atto di creazione. Quando i coloni scandinavi presero possesso
dell'Islanda, land-nàma, e la dissodarono, non considerarono questo atto
né come un'opera originale né come un lavoro umano e profano. La loro
impresa era per essi soltanto la ripetizione di un atto primordiale: la
trasformazione del caos in cosmo per opera dell'atto divino della
creazione. Lavorando la terra desertica, essi ripetevano infatti l'atto
degli dèi che ordinavano il Caos dandogli forme e norme. O meglio: una
conquista territoriale diventa reale soltanto dopo, o più esattamente,
per mezzo del rituale di presa di possesso, che è solo una copia
dell'atto primordiale della creazione del mondo. Nell'India vedica un
territorio veniva preso legalmente in possesso per mezzo della
costruzione di un altare dedicato ad Agni. " Si dice che ci si è
stanziati (avasyati) quando si è costruito un garbapatya, e tutti quelli
che costruiscono l'altare del fuoco sono stanziati " (avasitah), dice il
Catapatha Brahmana (7,1,1,1-4). Ma l'erezione di un altare dedicato ad
Agni è precisamente l'imitazione microcosmica della creazione. Anzi, un
qualunque sacrificio è, a sua volta, la ripetizione dell'atto della
creazione, come affermano espIicitamente i testi indù. I <<
conquistadores " spagnoli e portoghesi prendevano possesso, in nome di
Gesù Cristo, delle isole e dei continenti che avevano scoperto e
conquistato. Il piantare la croce equivaleva a una " giustificazione " e
alla " consacrazione " della zona, a una a nuova nascita ", che ripeteva
anche il battesimo (atto di creazione). A loro volta i navigatori
britannici prendevano possesso delle regioni che avevano conquistato in
nome del re d'Inghilterra, nuovo cosmocrator.
L'importanza dei cerimoniali vedici, scandinavi o romani ci apparirà più
chiaramente quando esamineremo in particolare il senso della ripetizione
della creazione, l'atto divino per eccellenza. Per ora consideriamo soIo
un fatto: ogni territorio occupato con lo scopo di abitarvi o di
utilizzarlo come " spazio vitale " è prima di tutto trasformato da "
caos " in " cosmos "; cioè, per effetto del rituale gli viene conferita
una " forma " che lo fa così divenire reale. Evidentemente la realtà si
manifesta, per la mentalità arcaica, come forza, efficacia e durata.
Perciò il reale per eccellenza è il sacro, poiché soltanto il sacro è in
un modo assoluto, agisce efficacemente, crea e fa durare le cose. Gli
innumerevoli gesti di consacrazione - degli spazi, degli oggetti, degli
uomini, ecc. - tradiscono l'ossessione del reale, la sete del primitivo
per l'essere.

Da Il mito dell'eterno ritorno