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L’eredità di Milosevic

di Stefano Vernole - 16/03/2006

Fonte: rinascita.it

 

   
Quando un personaggio dell’importanza di Slobodan Milosevic si spegne è inevitabile tracciare un bilancio della sua azione politica.
Quello che conta non è solo riequilibrare lo scandaloso verdetto mediatico pronunciato universalmente sulla sua figura, quello cioè di “dittatore brutale e sanguinario” e autore di un “genocidio di albanesi” o altre amenità del genere, ma anche capire quale ruolo l’ex presidente jugoslavo abbia rappresentato nelle dinamiche geopolitiche contemporanee.
Sarebbe fin troppo facile e scontato ribaltare le accuse degli assassini che siedono al Tribunale dell’Aja (in quanto materialmente responsabili della morte di Milosevic), ricordando le loro responsabilità nell’occultamento dei crimini commessi dalla NATO sia in Bosnia, dove nei bombardamenti contro i Serbi furono sparati 11.000 proiettili all’uranio impoverito sia in Serbia, dove nel 1999 vennero compiute dall’Alleanza Atlantica efferate stragi di civili jugoslavi e albanesi(1).

Così come sarebbe inutile ricordare il ruolo dell’Occidente, Germania, Vaticano e Stati Uniti in primis, nella disgregazione dell’ex Jugoslavia e nell’incoraggiamento alla guerra civile che per anni ha insanguinato la regione balcanica.

Certo appare ancora oggi scandaloso notare come in tutti i servizi giornalistici di stampa e televisione continuino ancora ad essere taciute le reali cifre di quel conflitto, che individuano proprio nel popolo serbo la principale vittima, sia riguardo al numero dei morti che per quello dei profughi(2).

Ma si sa, la propaganda del regime mondialista non ammette deroghe alla versione ufficiale confezionata dai signori del terrore atlantista e nella vicenda jugoslava tutti, dalla “destra” alla “sinistra” passando per il “centro” sono equamente interessati a nascondere la verità, in quanto dalla tribuna degli accusatori facilmente potrebbero passare al banco degli imputati quali “criminali di guerra”.

Così bisogna continuare a spacciare la legittima difesa delle minoranze serbe minacciate dai nazionalismi separatisti della ex Jugoslavia quali tasselli di un progetto, mai esistito nella mente di Milosevic, volto a salvare la ex federazione comunista di Tito dalla disgregazione, o secondo un’ altra versione, teso a costruire una “Grande Serbia”, obiettivo anch’esso estraneo alle intenzioni dell’ex presidente di Belgrado.
A sua conferma basterebbero le testimonianze dell’ex capo di Stato Maggiore dell’esercito jugoslavo, secondo le quali dopo la presa di Vukovar la strada verso Zagabria era ormai spianata ma arrivò l’ordine della dirigenza serba di fermarsi.
Se proprio accuse dovessero essere rivolte a Milosevic sono quelle di “patriottismo obtorto collo”, nel senso che il suo moderato nazionalismo fu più una strategia volta a rimanere al potere che un reale sentimento politico.

Non si spiegherebbero altrimenti né lo sganciamento dai Serbi di Bosnia né il tradimento verso i Serbi delle Krajine, costretti a fuggire a centinaia di migliaia da terre che abitavano e difendevano da secoli.
Lo stesso compromesso di Kumanovo nel 1999, firmato malgrado le forze patriottiche chiedessero di continuare la resistenza attraverso la guerriglia nelle campagne, che pure salvò almeno a livello diplomatico la sovranità serba sul Kosovo e Metohija, rappresenta il tipico atteggiamento di un leader incapace di andare fino in fondo nel difendere la sua nazione.
Chi avesse voluto processare Milosevic avrebbe dovuto farlo partendo da queste considerazioni e non dalle accuse mai dimostrate in oltre quattro anni di processo tenutosi all’Aja.
Esiste però anche un’altra chiave di lettura nel giudicare la strategia del defunto capo di Stato jugoslavo.

Ed è quella che si basa sul realismo geopolitico, di un uomo che si è trovato dal 1992 ad oggi tutto il mondo contro, in quanto simbolo della dignità di un popolo che non aveva la minima intenzione né di sottostare ai diktat della cosiddetta “comunità internazionale” né ai ricatti del Fondo monetario internazionale, che tanta responsabilità aveva avuto nel crollo finanziario della vecchia Federazione jugoslava.
Dopo i compromessi di Dayton, dove ancora “Slobo” sedeva quale legittimo rappresentante della Serbia ed era considerato uomo di pace, la sua fine politica fu segnata dal rifiuto di adeguarsi alle ricette privatizzatrici dell’oligarchia usurocratica mondiale, rafforzata peraltro dall’ingresso del Partito radicale serbo nel governo.

La richiesta di Belgrado di entrare nell’Unione europea senza però aderire alla NATO fu così la conferma per la sinarchia mondialista che la strada del compromesso non aveva pagato e la sobillazione del terrorismo separatista dell’Uck in Kosovo e Metohija ne fu la conseguenza.
Dopo aver respinto fieramente l’ultimatum vergognoso di Rambouillet, con il quale l’Alleanza atlantica chiedeva la completa occupazione della Serbia a spese del suo popolo, Milosevic riuscì a tenere testa per 78 giorni alle preponderanti forze militari di una coalizione di 18 paesi guidata come sempre dall’idra di Washington, senza alcun sostegno russo e con un piccolo aiuto cinese.

Malgrado perciò la firma dell’armistizio mediato da Athissari, pare latore di un messaggio proveniente direttamente dalla Casa Bianca nel quale si minacciava la riduzione di Belgrado a una sorta di “Hiroshima” nel caso la Serbia avesse proseguito la lotta, i quasi tre mesi di resistenza del suo indomito popolo hanno lasciato il segno.

Innanzitutto quale simbolo della volontà europea di non arrendersi al Nuovo Ordine Mondiale anche all’interno di un continente da 60 anni colonia dell’imperialismo statunitense(3), tanto più clamoroso perché smascherava in maniera inequivocabile il totalitarismo “destra-sinistra” che lo contraddistingueva(4) e metteva la parola fine a tutte le dispute sull’onnipotenza del “pensiero unico” nel cosiddetto “mondo occidentale”.
Ma soprattutto perché con il suo sacrificio la nazione serba consentiva il ricambio presidenziale a Mosca, dove le forze patriottiche vedevano nell’aggressione ai fratelli ortodossi di Belgrado il punto di non ritorno nel collaborazionismo post sovietico della dirigenza moscovita e mettevano alla guida del Cremlino Vladimir Putin, l’uomo della rinascita russa e potenzialmente europea.

Dopo la fine della guerra per la difesa del Kosovo e Metohija il congresso del Partito socialista serbo sanciva ancora una volta che era da lì che poteva nascere il futuro polo di aggregazione per un movimento internazionale antimondialista; proprio la presenza di delegazioni irachene, siriane e palestinesi, confermava quanto le accuse antislamiche rivolte a Milosevic fossero ridicole e ancora nel 2003 furono proprio le fabbriche di armi della Repubblica Serba di Bosnia tra le poche a rifornire clandestinamente l’Iraq bombardato dagli angloamericani.

La sconfitta elettorale del 2000, accuratamente preparata dai centri spionistici statunitensi attraverso la CIA e le varie ONG foraggiate da Soros, dimostrava però ancora una volta quella mancanza di determinazione rivoluzionaria che da sempre ha caratterizzato l’ex presidente serbo nei momenti decisivi: di fronte alle prove del complotto mostrategli prima del golpe dai suoi servizi di sicurezza si rifiutò d’intervenire e il successivo arresto ne fu la logica conseguenza.

Forse proprio dai banchi dell’Aja si è visto il Milosevic migliore, sicuramente più “politico” che “guerriero”, capace comunque di smascherare le invenzioni propagandistiche della Del Ponte e dei suoi inattendibili “testimoni”.

Non a caso, lo stesso Saddam Hussein, la cui parabola politica non è troppo dissimile da quella dell’ex presidente serbo, sta ora utilizzando la stessa strategia di difesa, mettendo in seria difficoltà i suoi improbabili accusatori.

La morte di Slobodan Milosevic lascia perciò un’eredità pesante a tutti quelli che vogliono combattere il Nuovo Ordine Mondiale oggi incarnato dalla strategia di “guerra infinita” elaborata dall’Amministrazione Bush, ma anche grazie al suo esempio qualcuno oggi l’ha già raccolta.