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Washington-Pechino, prove di dialogo sull'economia

di Michele Paris - 06/06/2009

 

Mentre il presidente Obama si apprestava all’attesa visita in Medio Oriente, nel quasi silenzio dei media, uno dei più importanti membri del suo gabinetto portava a termine una delicatissima trasferta in territorio cinese. Tra i compiti del Segretario al Tesoro Tim Geithner c’era innanzitutto quello di placare i timori di Pechino circa il debito pubblico americano e una possibile svalutazione del dollaro. Ma il viaggio dell’ex numero uno della Federal Reserve di New York è servito anche a seppellire definitivamente le polemiche intorno alla manipolazione della valuta cinese e a consolidare una partnership economica sempre più stretta in questa fase di recessione globale. Il tutto in concomitanza con la vigilia del ventennale della strage di Tiananmen, ricorrenza prudentemente tenuta fuori dai colloqui bilaterali, così come ogni altro riferimento a riforme politiche o diritti umani.

Gli ambiziosi e costosissimi programmi di spesa previsti dall’amministrazione Obama per rilanciare l’economia statunitense, negli ultimi mesi hanno portato ad una considerevole dilatazione del debito pubblico, sul quale sta investendo in maniera altrettanto consistente la Cina. Un ulteriore allargamento del deficit potrebbe provocare tuttavia un indebolimento della moneta americana, che a sua volta andrebbe a colpire il valore dei titoli del Tesoro USA posseduti dal governo cinese. Da qui i timori di un possibile rallentamento di Pechino nell’acquisto del debito pubblico americano, eventualità che finirebbe per allungare i tempi della recessione. A tali ansie vanno aggiunti poi gli appelli di alcuni economisti cinesi, preoccupati della situazione americana, per costituire riserve di valuta internazionali alternative al dollaro.

Nonostante l’apprensione e i proclami, la fisionomia del rapporto tra Stati Uniti e Cina non sembra però destinato a cambiare più di tanto nell’immediato futuro. I due più grandi sistemi economici del pianeta risultano intrecciati a tal punto che sembrano da escludere significative inversioni di rotta da parte dell’una o dell’altra superpotenza. La destinazione principale dell’export cinese rimane infatti il mercato americano che Pechino, da parte sua, continuerà a sostenere investendo nel debito statunitense gran parte delle proprie riserve accumulate grazie all’impetuosa crescita - determinata appunto dalle esportazioni - degli ultimi anni. Essendo poi gli USA l’unico paese in grado di generare un deficit di tali proporzioni, la Cina non ha alternativa all’acquisto di dollari.

Ciò non toglie che un certo pessimismo nei confronti del “sistema America” stia pervadendo la dirigenza cinese, come ha dimostrato anche il desiderio del Segretario al Tesoro Geithner di mettere immediatamente l’accento sulla presunta fiducia manifestata nei confronti dell’economia del suo paese dal Presidente Hu Jintao e dal Primo Ministro Wen Jiabao al termine dei colloqui ufficiali. Nella stessa direzione va anche la previsione fatta dallo stesso Geithner - decisamente insolita, nel corso di una visita all’estero, per la sua accuratezza - circa il deficit di bilancio americano, da riportare entro il 3% del PIL una volta superata la crisi economica.

Il ministro di Obama d’altro canto è giunto anch’egli a Pechino con una lista di “desiderata” della propria amministrazione, in testa alla quale vi è il difficile e lungo percorso verso una trasformazione dell’economia cinese. Nell’ottica del nuovo inquilino della Casa Bianca infatti, l’America del dopo recessione dovrebbe indirizzarsi verso un sistema basato maggiormente sul risparmio e, in misura minore, sul prestito al consumo, così da creare una crescita più sostenibile e non più soggetta all’esplosione di bolle speculative. In questo scenario, l’economia mondiale si baserebbe di meno sul consumismo degli Stati Uniti, che a loro volta beneficerebbero di una bilancia commerciale più equilibrata. Per raggiungere tale obiettivo risulterà necessario appunto, secondo Washington, modificare il modello di crescita della Cina, stimolandone il mercato interno.

Un traguardo, quest’ultimo, che dovrà passare attraverso il miglioramento delle condizioni economiche di centinaia di milioni di cinesi e l’allargamento di una classe media finora ristretta alle élite urbane dei grandi centri economici e finanziari. Ma anche tramite la creazione di una robusta rete di garanzie sociali, che potrebbero spingere ampi strati della popolazione ad abbandonare la tradizionale propensione al risparmio. E ancora, dare maggiore respiro al prestito al consumo e consentire la libera organizzazione dei lavoratori, così da spingere verso l’alto il livello delle retribuzioni. Le condizioni per un mercato interno aperto al commercio americano, ma anche capace di assorbire una parte della stessa produzione cinese, appaiono tuttavia difficili da conseguire a breve scadenza. In primo luogo a causa dei costi legati alla costruzione di un sistema di servizi sociali in un periodo di crisi economica; in secondo luogo - e soprattutto - per il timore nutrito dai vertici del Partito Comunista Cinese nei confronti di una nuova e più ampia classe media verosimilmente desiderosa di riforme del sistema politico.

Nel processo di ulteriore consolidamento dei rapporti tra i due sistemi economici - di cui la visita di Tim Geithner a Pechino ha rappresentato solo l’ultimo atto e che proseguirà il prossimo Luglio a Washington con una visita dei vertici cinesi - sono rimasti esclusi dai temi del dialogo le critiche sollevate qualche mese fa dallo stesso Segretario al Tesoro verso le pratiche valutarie della Banca Centrale cinese. Nel corso della sua audizione al Senato nel Gennaio scorso, prima dell’assunzione del nuovo incarico nel gabinetto Obama, Geithner aveva apertamente accusato la Cina di manipolare (svalutare) la propria moneta per favorire le esportazioni negli USA e verso altri mercati, a discapito dei prodotti americani destinati all’export.

Oltre alle frizioni sulla svalutazione artificiale dello yuan, sono ormai passati in secondo piano nel dialogo tra USA e Cina anche i temi legati ai diritti umani. La necessaria cooperazione tra i due paesi per uscire il prima possibile dalla recessione si è così saldata con la consolidata pratica americana di privilegiare l’aspetto economico su quello delle riforme politiche nei confronti della Cina. Richiami espliciti ad un maggiore rispetto dei diritti umani, assicurano gli esperti, potrebbero risultare addirittura controproducenti. Meglio allora chiudere un occhio di fronte al tuttora oscuro bilancio della strage di Tiananmen o alle pratiche repressive regolarmente messe in atto dal governo cinese e continuare a puntare piuttosto sul graduale miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, sperando che con esso giunga una qualche liberalizzazione del sistema politico.

Una strategia finora perdente, come dimostrano i modesti progressi avvenuti sul fronte delle riforme democratiche dalle proteste di piazza del giugno 1989 ad oggi, ma che appare forse l’unica percorribile nei confronti di un governo cinese, trasformato ormai nella principale banca degli Stati Uniti d’America.