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La collera di Posidone, le vendette di Zeus, l’ansia di Afrodite

di Luciano Canfora - 08/06/2009

La visione più fonda­ta, quando si parla del mito greco, è quella che pone l’ac­cento sulla unità del flusso mitografico e mitologico nel­l’area mesopotamico-medi­terranea. Erodoto ne è consa­pevole, quando scrive che «quasi tutte le deno­minazioni degli dei vennero in Grecia dall’Egit­to » (II, 50). E precisa che solo pochi nomi (Po­sidone, Themis, Dioscuri, Era, Nereidi, Cariti e pochi altri) fanno eccezione: ma, secondo la tradizione egizia cui Erodoto presta fede, an­che tali nomi trassero i Greci dall’esterno, in particolare dai «Pelasgi». Su tale provenienza, che rinvia ad una unità culturale mediterra­nea, Erodoto si sofferma a lungo.
Né gli è ignota la tradizione relativa ai viag­gi «d’istruzione» in Egitto compiuti da grandi figure della grecità arcaica quale Ecateo. Nes­so di «apprendistato» nei confronti dell’anti­co Egitto che Platone enfatizzerà nel Crizia in­dicando in Solone un tramite illustre, e appro­dando alla celebre formulazione secondo cui i Greci sarebbero stati i «fanciulli» del mondo mediterraneo, riscopritori recenti di una sa­pienza antichissima.
Nei primi libri di Diodoro di Sicilia, il quale scriveva al tempo di Cesare, tale filiazione dal­l’Egitto trova una sistemazione quasi manuali­stica. Ed è notevole come secoli più tardi espo­nenti del pensiero cristiano si siano appropria­ti di questo luogo comune bene attestato nella cultura greca per capovolgerlo polemicamen­te e presentare i Greci (cioè i rappresentanti per eccellenza della cultura pagana) come pla­giari rispetto a più autorevoli e più antiche cul­ture. Accusa che fa un certo effetto da parte di chi così largamente risentiva dell’eredità gre­ca e orientale come, per l’appunto, il cristiane­simo. La mitologia cristiana, dunque, nel suo denso e alquanto confuso tessuto sincretisti­co, chiude il cerchio di questa storia di una re­ligiosità di lunghissima durata incominciata molto prima dei Greci, e ramificatasi poi in moltissimi rivoli, eresie ed islamismo inclusi. Collocare dunque i Greci come un «inizio» è operazione moderna, che ha una salda tradi­zione alle spalle ma che va intesa per l’appun­to come una proiezione moderna, come il ri­sultato dell’«idea di passato» che i moderni occidentali hanno costruito (e che rischiano talvolta di dimenticare frastornati da un’idea banale e incolta di modernità). Ben scrive dun­que Giulio Guidorizzi nell’Introduzione a Il mi­to greco (vol. I, Meridiani Mondadori, da po­chi giorni in libreria, pp. 1.526, e 55): «I miti greci hanno un carattere archetipico, perché presentano nella loro essenzialità gli elementi originari del racconto sacro»: purché sia chia­ro che quello è, per dirla alla maniera degli scolastici, un inizio per noi piuttosto che un inizio in sé. A ragion veduta, poi, Guidorizzi delinea la continuità pagano-cristiana quando osserva che «malgrado tutto i miti greci resta­no vivi sotto la superficie (...) pronti a manife­starsi appena qualcuno li cerca». Egli lo dice in senso soprattutto estetico-emotivo e lettera­rio, ma si potrebbe integrare tale intuizione in termini più propriamente sto­rico- religiosi tenendo d’oc­chio il fenomeno della conti­nuità ed il principio non con­traddetto secondo cui soprat­tutto nel mondo delle religio­ni e delle credenze, che coin­volgono masse sterminate di persone, nulla è totalmente nuovo.
Vi è però una peculiarità della religione greca ed è l’as­senza dell’«unico libro» cui at­tingere «la verità». Assenza salvifica perché ha reso possibile la grande libertà con cui il patrimonio mitico è stato trattato per esem­pio dal teatro tragico ateniese. L’assenza di una casta di scribi o di sacerdoti-teologi grava­ta del compito di tutelare l’ortodossia ha con­tribuito a rendere meno vincolante quel patri­monio. Una conseguenza di ciò è anche il fat­to che, nel mondo greco, non accade che sia solo un determinato genere di testi a trattare del mito. Ed è probabilmente in ciò la causa del fenomeno più interessante: tra i moderni la religione greca non attrae soltanto gli spe­cialisti di tradizioni religiose ma anche studio­si lontanissimi da tale bisogno mentale. Il che non accade sempre nel caso delle altre tradi­zioni.
Una situazione del genere «avvicina» gli dei agli uomini. Li avvicina non solo dal punto di vista dell’interventismo continuo degli dei nel­le cose umane (si pensi alla cura ad personam che gli dei omerici riservano a questo o a quel­­l’altro «combattente» di grido: invece si disin­teressano delle masse...), ma anche dal punto di vista delle loro vicissitudini e dei loro com­portamenti in quanto dei. Fu una bella trovata quella di Marcel Detienne e Giulia Sissa di de­dicare un libro (edito da Laterza, in Italia) alla «vita quotidiana degli dei greci». Agli dei gre­ci può succedere infatti di ricevere una ferita se si immischiano troppo in una battaglia tra esseri umani. È il caso della divina Afrodite, madre ansiosa di Enea, la quale accorre a di­fenderlo dal brutale Diomede e da costui viene malmenata e ferita ai polsi, nel quinto li­bro dell’Iliade. Per non parla­re delle risse, passioni, soffe­renze, stanchezze di cui que­sti dei sono partecipi, pur im­mortali. Nel libro XV dell’Ilia­de, Iris, messaggera di Zeus, si reca da Posidone per tra­smettergli l’ordine perentorio di Zeus di non intervenire atti­vamente a favore degli Achei. «Se non darai retta al comando — gli dice — verrà lui a combatterti quaggiù». Posidone, fu­ribondo, rievoca che le tre parti del mondo erano state tirate a sorte tra i tre figli di Crono, e a lui era toccato «il mare canuto», a Zeus «il cielo fra le nuvole e l’etere», mentre la terra doveva essere «comune». Dunque qui Zeus sta forzando la mano, ma Posidone, pur men­tre si sottomette, dichiara che nel cuore gli sta entrando «dolore tremendo» e comunque manda a dire a Zeus che, se Troia si salverà, deve sapere che tra loro ci sarà «insanabile col­lera » (si legga questo brano, di straordinaria importanza, nel volume di cui qui discorria­mo, alle pp. 55-56).
Qui sorge un vero problema teologico. Qua­li sono i rapporti di forza tra queste due divini­tà all’apparenza pari? Perché Zeus si giova del­la sua prevalente forza? E viola un diritto? Que­sto problema era, a ben vedere, complementa­re dell’altro (che affaticherà, senza che una so­luzione venga fuori, il pensiero cristiano): per­ché gli dei non impediscono il male, il trionfo del male, perché consentono il dolore e la sof­ferenza del giusto? Per i cristiani il problema è insolubile (o solubile con qualche sofisma in­torno al male a fin di bene). Per i Greci del­l’epoca arcaica la risposta era dura, non conso­lante, ma era comunque una risposta: anche tra gli dei vige la legge del più forte, legge che — al di là della retorica consolatoria — regna dovunque tra gli umani. Lo dicono gli Atenie­si ai Meli, nel celebre «dialogo del carnefice con la vittima» nel quinto libro della Storia tu­cididea, onde togliere ai Meli ogni illusione: «noi riteniamo che, a quanto si sa tra gli dei, ma certamente tra gli uomini, in forza di una necessità ( hypo physeos anankaias), chi è più forte comanda. Non siamo noi ad aver stabili­to questa norma, né siamo i primi ad attenerci ad essa; l’abbiamo trovata che c’era già e la la­sceremo in eredità a chi verrà dopo, per sem­pre ». La «insanabile collera» che Posidone promette al fratello sopraffattore sembra im­plicare che i rapporti di forza tra le due poten­ti divinità potrebbero un domani cambiare. E certo Troia, pur così cara a Zeus, non si salvò.