Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il Dio Thoth, primo romanzo di Massimo Fini

Il Dio Thoth, primo romanzo di Massimo Fini

di Mario Grossi - 08/06/2009

In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
ma le tenebre non l’hanno accolta.

Appena chiuso Il Dio Thoth, primo romanzo di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio, mi ronzavano nelle orecchie le parole dello splendido prologo al Vangelo di Giovanni. Mi ero apprestato alla lettura di questo romanzo dopo aver scorso alcune recensioni, tutte più o meno dello stesso tenore. I recensori affermano che il romanzo di fantascienza, di quella fantascienza intelligente, è bello, scritto bene ma alla fine, esplicitamente o in modo strisciante, ci infilano la stoccata. Di questo genere di fantascienza è piena la letteratura, il suo romanzo rimane all’interno di un alveo senza spunti di originalità. Per suffragare questa interpretazione sono stati rispolverati 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Mondo nuovo di Aldous Huxley ognuno dei quali ha descritto un mondo futuribile non molto distante da quello reale, deformato nei suoi tratti, ma non a noi alieno, assai più vicino alla nostra realtà rispetto ai tanti deliri di cui spesso si ciba la fantascienza. Visti i nomi messi in campo a nessuno viene voglia di replicare, nessuno si fa difensore di Fini, perché anche il più incallito dei suoi fan non lo paragonerebbe mai a Orwell o a Bradbury. Ci penso io a contestare questa soggiacente e un po’ ipocrita tesi, sostenendo che tale interpretazione è scorretta e si basa su un falso presupposto.

dio-toth_fondo-magazineLa qualità di uno scrittore non si misura con la moneta dell’originalità. Non solo. O meglio bisogna sradicare l’equivoco che ne sta alla base. È da questo ragionamento “contra” che mi è affiorato dal profondo il prologo al Vangelo di Giovanni. Il Vangelo di Giovanni è il quarto, dopo quelli di Luca, Matteo, Marco (i sinottici). Tutti e quattro narrano la vita di Gesù Cristo, quindi nessuno di questi può vantare un’originalità nei confronti dei fatti narrati. Quindi sono quattro racconti (i tre sinottici molto simili tra loro) che possono essere considerati delle variazioni sul tema. Ed è proprio qui il punto. Il Vangelo di Giovanni (al di là del paragone magari blasfemo) e il Dio Thoth di Fini hanno questa caratteristica comune, costituiscono delle variazioni sul tema.

Per creare un oggetto artistico di qualità è forse più difficile ricorrere alla strada tortuosa della variazione sul tema piuttosto che puntare sull’autostrada dell’originalità a tutti i costi che genera mostri. L’esempio per me più clamoroso è quella “merda d’autore” esposta alla Biennale di Venezia molti anni fa che dimostra più di ogni parola il mio pensiero su questo punto.

Massimo Fini non cerca di trovare un’originalità che non può esistere né qui né altrove (sono tra coloro che pensano che tutto sia già stato scritto) ma si affida alla modulazione dei toni della variazione sul tema e in queste penombre costruisce la sua storia, regalandoci un romanzo sfolgorante nelle sue angosciose problematicità. Ed il Vangelo di Giovanni torna prepotente alla mia attenzione se penso al senso di questo romanzo. Come il prologo al Vangelo di Giovanni è un inno alla Parola, al Verbo e fissa in maniera univoca il punto di riferimento per tutto quello che ne verrà. Così il Dio Thoth di Massimo Fini fissa in maniera inequivoca il pericolo mortale che corriamo. E l’autore costruisce un romanzo che ha come tema il verbo.

La storia descrive una società fantascientifica, proiettata in un prossimo futuro così attiguo al nostro tempo da confondersi quasi con la vita che viviamo oggi. Questa nuova era esaspera solo di un po’ quello che stiamo già vivendo. Una società paratotalitaria dominata completamente dall’informazione e da una società televisiva Teleworld che si è presa la briga di unificare/omologare tutti con i potenti mezzi della persuasione, nonché delle notizie posticce. Domina lo skyline della città un’alta torre con un dado girevole, luminescente, alla sommità che fa da piedistallo allo slogan “La notizia è il fatto / il fatto è la notizia”.

Questa è la testimonianza di un mondo in cui tutta la realtà è dominata da questo pensiero: la notizia non ci informa della realtà, è diventata la realtà stessa. Ne consegue che necessità prima è quella della connessione perpetua, ossessiva ed invasiva. Essere informati in un flusso continuo diventa vitale perché se la notizia è il fatto, se la notizia è realtà non possiamo staccarci dalla spina neanche un momento per evitare di disconnetterci dal reale. E disconnettersi dalla realtà, perdere il contatto con la realtà, estraniarsi dalla realtà è una malattia, delinea una patologia che affligge tutti i devianti.

Il protagonista è il 48enne Matteo Sereni che vive come un’escrescenza tumorale nel corpo sano di Teleworld, l’unico canale televisivo disponibile, onnipresente ed onnipotente. Nasce in lui un tarlo, a seguito di una serie di accadimenti che lo coinvolgono prima come spettatore di fatti che non succedono (nel senso che non riportati dai notiziari non esistono), poi come protagonista di una escalation che lo porterà al compimento del suo destino. Quello che è inizialmente un malessere, percepito da Matteo solo superficialmente e che si estrinseca in malumore, insofferenza, insonnia, qualche piccolo malanno, esploderà poi in una conclamata ribellione che lo travolgerà. Matteo nel corso della sua storia si rende conto che non è possibile vivere in questa società alienante che tende a trasformare quelli che reputa i devianti in criminali. Ed i devianti sono gli Uninformed, gente che ha deciso per qualche suo motivo di non essere costantemente collegata, on-line come si dice, ma che opta per uno stile di vita più sobria e scarsa di notizie.

«Gli Uninformed erano tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, erano rimasti estranei al boom della comunicazione di massa». Ecco l’ammonimento che ci viene da questa società deforme. Per essere informati non è necessario avere tutta l’informazione disponibile. L’informazione sterminata nasconde la verità più che svelarla. Metaforicamente nel romanzo questo concetto è celato nella descrizione della Biblioteca centrale uno sterminato edificio in cui l’Amleto, che il protagonista vorrebbe leggere, è sotterrato sotto un cumulo di altre informazioni inerenti che ne impediscono, di fatto, l’accesso. “Ma, insomma, settanta milioni erano una cifra enorme e, per di più, ancora poca cosa rispetto alla Cosmobiblioteca della Capitale i cui ingressi settimanali erano centinaia di migliaia e i cui pezzi si contavano ormai a miliardi. È così che Matteo, che ha chiesto in prestito il libro, riceve dal bibliotecario prima una serie di DVD della rappresentazione teatrale, poi una serie di riduzioni audio, poi alcuni saggi sull’argomento, infine uno scritto in cui compare una riduzione stringata all’osso dell’opera. È una rivolta, io la leggo così, anche contro l’uso che di un’informazione viene fatta nei talk show come sui giornali. Un gioco infinito di rimandi, pareri, opinioni, notizie al contorno che si sommano al dato iniziale che ne è sommerso. La realtà dei fatti tende a stemperarsi prima e a scomparire poi, seppellita da questo enorme rumore di fondo montante che ne cancella la voce.

A rendere questa società futuribile schiavizzante, omologata, uniforme, plumbea non è, come sembrerebbe a prima vista, l’avvento di un mondo delle macchine, che partecipano a questo imbarbarimento come meri strumenti di un potere più forte, ma l’instaurarsi di una dittatura monocorde della notizia. Resa uniforme dal grande deus ex-machina di questa storia quella Grande Mousse che guida le sorti di TeleWorld e che ha come scopo finale il permanere dello status quo di questa società che renderebbe tutti felici e lobotomizzati. Per poter rendere operativo questo progetto, ed è questa per me la vera tragica cifra di tutto il romanzo, bisogna in qualche modo standardizzare i cittadini e per fare questo si ricorre al loro annichilimento individuale. Con la complicità della macchina per antonomasia, il processore di parole, si passa ad azzerare qualsiasi stile personale, qualsiasi enfasi caratterizzante.

Per questo reputo il punto chiave di tutto il romanzo il passaggio in cui Matteo tenta di dettare al suo PC un articolo per TeleWorld, che ha del comico se non fosse sommamente tragico (mi piacerebbe sapere se questo siparietto è stato ispirato da quella gag di Latte e i suoi derivati: “Il mio nome è James Bond!” - “Bond?” - “Sì! Bond! James Bond!” - Ah! Bond James Bond…”).

«Semplificare il linguaggio era una delle direttive di TeleWorld. Matteo cominciò a parlare al computer, staccando bene le parole l’una dall’altra:”Una piccola folla…” la macchina emise un suono acuto, come di sofferenza e sullo schermo lampeggiò ERROR. Pigliò da sotto la scrivania il Telebook, un volume enorme, l’unico di carta in dotazione al giornale. La voce FOLLA era preceduta da una croce e portava:”Non compresa nella memoria dei terminali standard, ss 20 e altri della stessa famiglia. Sostituire con MASSA”. Fu con tenerezza che Matteo sussurrò:”Una piccola massa…” La macchina rispose felicemente. “Brava” disse Matteo anche se quell’accostamento gli sembrava contraddittorio. Ma aveva commesso l’imperdonabile errore di parlare vicino al microfono. La macchina compitò diligentemente:”Una piccola massa brava…” Pensò di mettere ‘brava’ all’inizio della frase per non perdere troppo tempo. Con un paio di virgole poteva funzionare. Ma non ci stava come senso, quella piccola folla, anzi massa, non si era comportata affatto bene e non si poteva definire “brava”. Ordinò: “Cancella ‘brava.’” Ma quel giorno la macchina non era in forma o, forse, era in vena di dispetti, come capita, a volte, a certi congegni. Non capì e scrisse:”Cancella brava”. La frase divenne:”Una piccola massa brava cancella brava…” Matteo perse la pazienza e anche la testa e urlò: “Cancella ‘brava’, brutta stronza!” Il computer ebbe un sussulto, e ubbidì, a suo modo:”Una piccola massa brava, cancella brava, cancella brava, brutta ERROR…?” Il turpiloquio era espunto non solo dalla memoria dei computer degli RO, ma da tutti i computer di TeleWorld. Il linguaggio pulito, rispettoso dei lettori e della decenza, era uno dei punti d’onore del Direttore. Le virgole le aveva aggiunte il computer, di sua iniziativa, sembrando anche a lui che la frase fosse un po’ troppo sgangherata. E infatti alla fine del periodo aveva infilato un grosso punto interrogativo. Per rimettere le cose a posto Matteo dovette ricorrere alla tastiera che non si usava quasi più per scrivere.»

È in questa mutilazione continua, in questo rapporto un po’ coatto col PC che tenta di costringerci ad una lingua per tutti uguale, monocorde, anodina, uniforme, neutra, depotenziata che sta il pericolo sommo che alligna in questa società come in tutte le società totalitarie, compresa quella d’oggi che ha fatto, prima che del pensiero unico, la lingua unica il suo cavallo di battaglia per tradurre tutti in catene. Ed è con questo brano che torna prepotente il paragone con il prologo del Vangelo di Giovanni. Anche questo romanzo di Fini è un inno al verbo, alla parola che veramente è l’unico strumento individuale che ci differenzia e che ci rende unici. Ed è quindi attraverso la sua mutilazione e convogliamento verso il piatto che tutti i totalitarismi cercano di andare per dominare alfine degli automi che, privati della loro specifica parola, non hanno più strumenti per caratterizzare il loro pensiero che si affloscia perché non più sorretto dallo scheletro verbale. La cifra di questo splendido romanzo è dunque la parola, il Verbo, prezioso dono che va preservato a tutti i costi e con tutti i mezzi. Opponendosi sia ai correttori automatici sia alla fantalingua delle televisioni, dei talk show, dei reality e ahimè anche dei giornali e dei libri. È un inno al saggio detto di mio nonno che ammoniva “Ben pensato, ben detto” a sottolineare che un pensiero personale esige, per la sua esatta comprensione, un nitore e un profilo netto che solo la nostra personalità può tagliare correttamente. Ognuno di noi ha un suo stile nel dire, un Verbo che lo informa come un demone (o come una divinità) ed a quel demone non possiamo rinunciare mai pena la soppressione di noi stessi. Ed allora la prossima battaglia non è per Fini opporsi all’avvento delle macchine (qualcuno lo taccia di neoluddismo) ma di affilare le proprie armi retoriche, enfatiche, dialettiche per evitare di farci scippare del bene primo che può opporsi ad ogni totalitarismo: la parola.

Il Verbo appunto, come nel prologo del Vangelo di Giovanni.

[Ask] [del.icio.us] [Digg] [Facebook] [Furl] [Google] [LinkedIn] [MySpace] [Reddit] [Slashdot] [Sphere] [Squidoo] [StumbleUpon] [Technorati] [Twitter] [Windows Live] [Yahoo!] [Email]
Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 2.5