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Gli equivoci dello sviluppo autocentrato

di Raffaele Ragni - 15/06/2009

 
 

Il mito neoimperialista che il Terzo Mondo si sarebbe sviluppato grazie ai crediti a tasso usuraio erogati dalle banche occidentali e dalle istituzioni finanziarie internazionali, comincia ad essere contestato, già negli anni sessanta, da alcuni ricercatori collegati alla Commissione Economica per l’America Latina delle Nazioni Unite (UNECLA) e da un gruppo di intellettuali definiti dependentistas.


Entrambi gli ambienti condividono la teoria della dipendenza, secondo cui sviluppo e sottosviluppo sono fenomeni collegati. Lo sviluppo è alimentato dal sottosviluppo perché, nella divisione internazionale del lavoro ispirata al modello ricardiano dei costi comparati, al Terzo Mondo è stato imposto di esportare materie prime ed importare beni industriali. In sostanza, la ricchezza di alcuni Paesi presuppone la povertà di altri, essendoci un rapporto di reciproca dipendenza tra il centro e la periferia del sistema. La dipendenza penalizza i Paesi sottosviluppati e li condanna a rimanere tali per tre ragioni fondamentali. La prima riguarda l’interscambio di materie prime. Poiché la domanda di materie prime tende a stabilizzarsi indipendentemente dall’andamento dei prezzi, ogni diminuzione dei prezzi riduce gli incassi di valuta da parte dei Paesi produttori senza far aumentare di molto le loro esportazioni. La seconda riguarda l’interscambio di beni industriali. Poiché il Nord dispone di tecnologie più avanzate e di una forza lavoro più qualificata e meglio retribuita, il Sud può esportare solo manufatti di scarso valore e, al tempo stesso, si vede costretto ad importare merci e macchinari a prezzi elevati. La terza riguarda i salari. Per contenere il costo del lavoro, il Nord ha bisogno di manodopera a buon mercato, da sfruttare localmente o far migrare dalla periferia al centro del sistema. La differenza tra i ricercatori dell’UNECLA e gli intellettuali dependentistas riguarda, non tanto i presupposti, quanto gli obiettivi delle rispettive teorie. I primi, che sono soprattutto economisti, studiano il processo di accumulazione che possa favorire il decollo. Propongono la creazione di un raggruppamento economico regionale, auspicano la riforma agraria ed una migliore distribuzione degli investimenti nel settore industriale per sostituire le importazioni con merci di produzione locale, reclamano un sostegno ai prezzi delle materie prime per finanziare ulteriormente la crescita. I secondi, che sono in maggioranza sociologi, studiano le condizioni in cui avviene l’accumulazione di capitale, sia riguardo ai rapporti di classe che alle disparità settoriali e regionali. Evidenziano come, nel quadro del sistema capitalista mondiale, l’appropriazione del surplus da parte del centro blocchi lo sviluppo della periferia e giungono ad auspicare talvolta un liberismo radicale, per riequilibrare le ragioni di scambio, e talvolta un’alternativa socialista per sanare tutte le ingiustizie. Nell’ambito dei dependentistas si distinguono i marxisti americani Paul Sweezy e Paul Baran (1966). Ispirandosi all’analisi di Hilferding e Lenin, essi spiegano come, con la progressiva egemonia degli Stati Uniti, il capitalismo mondiale abbia assunto una struttura monopolistica con la comparsa di grandi gruppi dove il capitale industriale è associato al capitale finanziario. Queste società controllano i prezzi che, nonostante i notevoli aumenti di produttività, non diminuiscono e permettono l’accumulazione costante di un enorme surplus. Il problema principale consiste nell’assorbire tale surplus, poiché il capitalismo monopolistico è incapace di creare una domanda effettiva sufficiente ad assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi lavoro e capitale. Lasciato a se stesso il sistema cadrebbe nella stagnazione. Per stimolare consumi e investimenti si ricorre alla pubblicità, alle sovvenzioni statali, alle spese militari. Ma la guerra imperialista, se da un lato consente la sopravvivenza del sistema, dall’altro accresce in tutto il mondo l’insofferenza verso l’Occidente. Nella rivoluzione mondiale, auspicata dai dependentistas marxisti, i Paesi del Sud svolgono lo stesso ruolo che Marx attribuiva al proletariato. Il loro vero sviluppo consiste nell’uscire dal capitalismo e costruire il socialismo.Le prospettive rivoluzionarie dei marxisti e le critiche dei dependentistas, entrambe avvalorate dal persistente ritardo del Terzo Mondo nonostante gli aiuti delle organizzazioni internazionali, conducono alla prima importante ridefinizione del paradigma dominante. Lo sviluppo, così come è auspicato dai sostenitori del decollo (take-off) spinto da una massiccia dose di finanziamenti internazionali (big push), appare sempre meno credibile. Allora bisogna reinventarlo, dargli nuovi attributi. Nasce così lo sviluppo autocentrato, fondato sulla prospettiva che ciascun Paese povero, senza disdegnare i capitali stranieri, deve acquisire la consapevolezza di poter contare sulle proprie forze (self-reliance). Toccò ad un africano - il presidente della Tanzania Julius K.Nyerere - il compito di aggiornare il progetto lanciato dal presidente americano Harry Spencer Truman nel 1949. Con la Dichiarazione di Arusha (1967) il Tanganyika National Union (TANU) s’impegnò a rispettare, come partito di governo, alcuni fondamentali principi: l’utilizzo prioritario dei fattori produttivi disponibili localmente, il sostegno all’agricoltura destinata all’autosufficienza alimentare, un’etica del lavoro e stili di vita conformi ai valori tradizionali. Ciò avrebbe consentito di ridurre la dipendenza dal commercio estero e dagli investimenti stranieri, valorizzando le specificità locali e minimizzando il ruolo dell’industrializzazione, almeno nella fase iniziale della crescita.All’epoca i sostenitori più radicali della self-reliance si sforzarono di individuare un’idea o un modello che potesse supportare l’azione politica di Nyerere. Furono di volta in volta indicati: il concetto di rinascita con le proprie forze teorizzato da Mao Tse-tung, l’autosufficienza del villaggio auspicata da Gandhi, il rifiuto di Sékou Touré di far associare la Guinea-Conakry alla Comunità francese, l’esperienza cubana dopo l’embargo statunitense, l’ideologia del nordcoreano Kim Il Sung, il regime albanese di Enver Hoxha. Da parte marxista il socialismo africano del presidente tanzaniano veniva tacciato di imprecisione teorica giacché, pur auspicando la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, non insisteva abbastanza sull’importanza dell’industrializzazione e sul conflitto di classe. Ma per gli sviluppisti di qualunque estrazione esso rappresentava un importante laboratorio politico, dove veniva sperimentata una formula originale meritevole di sostegno finanziario.L’utopia durò appena dieci anni. Nel 1977 risultò che lo sviluppo della Tanzania era stato finanziato al 60% dall’aiuto internazionale. Il fallimento di quest’ultimo esperimento neoimperialista venne riconosciuto dallo stesso Nyerere, allorquando scrisse: “Dieci anni dopo la Dichiarazione di Arusha, la Tanzania non è certamente né socialista né autosufficiente. La natura dello sfruttamento è cambiata, ma lo sfruttamento non è stato eliminato completamente. La Tanzania è sempre una nazione dipendente e non una nazione indipendente. Non abbiamo raggiunto il nostro scopo: non è nemmeno in vista”.Il concetto di sviluppo autocentrato rinnova la credenza sviluppista, ma non produce alcun modello economico capace di risolvere il problema della dipendenza e della povertà nel Terzo Mondo. Non tanto per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati in termini di crescita economica, quanto per alcune contraddizioni insite dell’idea stessa di self-reliance. In sostanza essa introduce, come elemento di novità nel dibattito sullo sviluppo, la valorizzazione delle risorse locali e delle specificità culturali al fine di realizzare un’indipendenza economica basata sull’autosufficienza alimentare. Ma il concetto di autonomia sociale e l’idea che il comune passato serva da modello per il futuro non sono affatto teorie nuove, giacché reggono le comunità umane fin dall’antichità. Per sua natura, infatti, un sistema economico, prima di aprirsi al resto del mondo, crea ricchezza utilizzando i fattori produttivi e le risorse umane esistenti al suo interno. Al contrario, la divisione internazionale del lavoro e la libera circolazione di merci - che sono rispettivamente il presupposto e la condizione dello sviluppo modernamente inteso - distruggono progressivamente proprio i fondamenti della self-reliance, cioè l’identità storica e la prospettiva di indipendenza. In questo paradosso risiede il limite teorico e pratico dello sviluppo autocentrato.Il termine tuttavia sopravvive. Adottato dai Paesi non allineati a partire dalla Conferenza di Lusaka (1970), rimane nel linguaggio politico dei terzomondisti. Svuotato del suo significato originario, appare in due documenti epocali: la Dichiarazione relativa alla instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale (1974) e la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati (1974). Con l’espressione collective self-reliance, l’ONU auspica la cooperazione regionale, subregionale, interregionale tra i Paesi in via di sviluppo. Ma l’innovazione è soltanto lessicale. Si utilizza una parola in gran voga, emersa dalla critica dependentista e marxista alla teoria dello sviluppo a tappe di Walt Whitman Rostow (1960), per indicare un concetto che, nei suoi contenuti fondamentali, era già stato definito alla Conferenza di Bandung (1955).Per gli apologeti della globalizzazione, che rappresenta l’ultima attualizzazione della strategia di dominio imperialista, la teoria dello sviluppo viene epurata da ogni radicalismo destabilizzante. Ribaltando le posizioni dell’UNECLA, secondo cui la dipendenza del Sud dal Nord è la causa del crescente divario nella distribuzione della ricchezza, si afferma che esiste una stretta correlazione tra la prosperità dei Paesi avanzati e lo sviluppo dei Paesi arretrati, per cui l’interdipendenza tra tutti i membri della comunità mondiale è la vera ed unica garanzia di progresso, economico e sociale. Frenando ogni prospettiva di sganciamento (de-linking) delle periferie dal centro del sistema, si considera il commercio internazionale come il motore della crescita. La libera circolazione di merci, servizi, capitali e lavoratori, diventa il principale obiettivo da perseguire per assicurare lo sviluppo in tutti i Paesi, avanzati e meno avanzati. Fallito il tentativo di ridefinire il paradigma dominante definendo autocentrato uno sviluppo pur sempre finanziato da capitali stranieri, il pensiero unico ha lasciato che gli altermondialisti - quelli che si ergono a paladini del Sud del mondo e vorrebbero una globalizzazione diversa - continuassero ad usare il termine in una prospettiva sostanzialmente utopistica, non essendoci reali prospettive di liberazione finché le economie nazionali sono condizionate, anzi governate, dalla finanza cosmopolita.