Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il collasso globale e il Piano C: prediligere i produttori locali e i loro prodotti

Il collasso globale e il Piano C: prediligere i produttori locali e i loro prodotti

di Francesco Bevilacqua - 15/06/2009

Che oggi il sistema globale sia prossimo al collasso è una verità oggettiva che è oramai chiara a tutti. Ciò è talmente vero che molte delle grandi dispute teoriche fra chi preconizzava catastrofi a breve termine, chi riteneva che la situazione fosse pienamente sotto controllo e chi evidenziava invece l’insostenibilità dei ritmi di vita imposti al pianeta dal genere umano si sono spente, in favore della presa di coscienza da parte di tutti – dalle formazioni ecologiste alle grandi industrie, dai governi all’opinione pubblica internazionale – che su questa strada non era possibile proseguire.

Proprio sulle basi di questa presa di coscienza però, si sono aperti nuovi scontri e si sono palesate differenti opinioni. Il confronto verte adesso su due ambiti, in realtà strettamente collegati fra di loro: le origini di questa situazione problematica e preoccupante e le possibili vie d’uscita.

Rispetto al secondo punto, è interessante e quanto mai opportuno analizzare le molteplici soluzioni che sono state prospettate per vedere quali sono le strade che addetti ai lavori e non indicano per uscire dal tunnel in cui ci siamo infilati. A questo proposito ha svolto un lavoro estremamente interessante Pat Murphy, studioso americano che da anni concentra i suoi studi sul problema del peak oil, il picco del petrolio, e più in generale sulle soluzioni pratiche, che suddivide in tre grandi settori (cibo, abitazione, trasporti), per correggere le imperfezioni e le storture che caratterizzano lo stile di vita imposto dall’occidente consumista e produttivista. Murphy è anche direttore esecutivo dell’Arthur Morgan Institute for Community Solutions che ha sede in Ohio, negli Stati Uniti, e che da quasi settant’anni si occupa di proporre e diffondere stili e pratiche di vita “a misura di comunità”.

Nel suo libro Plan C, community survival strategies for peak oil and climate change (Piano C, strategie di sopravvivenza per la comunità al picco del petrolio e ai mutamenti climatici), Murphy, attingendo quasi da un linguaggio romanzesco e cinematografico, individua quattro “piani per salvare il mondo”, diversi fra loro e ispirati a differenti visioni della situazione attuale e delle condizioni che l’hanno generata. La sua trattazione si concentra su quello che, fra i quattro delineati, individua correttamente le criticità del modello attuale e risponde con idee concrete e vincenti. Com’è facile intuire dal titolo del libro, la proposta in questione è quella avanzata dal Piano C. 

Analizziamo quindi brevemente quello che contengono questo gli altri tre piani.

Per aiutarsi nell’esposizione, Murphy assegna una parola chiave a ogni piano, che riassume telegraficamente la filosofia che sta alla base di ciascuno dei quattro.

Per il primo, il Piano A, l’autore parla di denial, smentita. Il concetto che sta alla base di questa proposta somiglia molto alla soluzione che molti governi e istituti finanziari stanno proponendo in questi giorni per uscire dalla recessione economica: aumentare i consumi, continuare a spendere, alimentare l’economia. Proposta oggettivamente paradossale, come lo sarebbe una terapia che pretende di curare il malato con le stesse sostanze che lo hanno avvelenato. Il Piano A rifiuta quindi l’idea di un “fuori giri” produttivistico e suggerisce di intensificare lo sviluppo tecnologico al fine di individuare nuove fonti energetiche (ad esempio quella nucleare), nuovi giacimenti, di «utilizzare qualsiasi cosa che possa bruciare per generare energia» e di fare pieno affidamento in ambito economico sulle potenzialità del libero mercato. A livello concettuale, com’è facile intuire, i propugnatori di questo modello hanno una percezione estremamente limitata di tutto ciò che riguarda l’impatto ambientale, i costi sociali e umani dello sviluppo intensivo, la prospettiva necessariamente a breve termine di un tale sistema, così frenetico e vorace; nelle loro analisi, tali problematiche sono spesso disconosciute e in ogni caso mai attribuite agli eccessi umani. La limitatezza della visione dei sostenitori del Piano A è emblematicamente rappresentata dalla pratica dello stoccaggio delle scorie radioattive e dalla tecnica del carbon capture, processi che prevedono l’immagazzinamento di queste sostanze (scorie e anidride carbonica in eccesso) in speciali depositi collocati sottoterra, senza però mettere in programma uno smaltimento vero e proprio ma semplicemente stipandole a debita distanza e risolvendo il problema per un centinaio di anni, poi si vedrà.

Veniamo al Piano B, basato sulla substitution, sostituzione. L’approccio in questo caso è già differente: c’è una chiara presa di coscienza dell’impossibilità di proseguire su questa strada e si individuano fonti di energia alternative, si punta sulla «green clean technology», sui biocarburanti, sull’eolico, sul solare e sulle fonti rinnovabili. Tuttavia, pur compiendo un passo avanti rispetto al Piano A, anche questo modello – propugnato generalmente dagli ecologisti ufficiali, i governi, le multinazionali di buone intenzioni, i personaggi politicamente scorretti alla Al Gore – non rifiuta l’idea di sviluppo, ma vi affianca solamente qualche termine per renderla più digeribile; peccato che, come ci dice fra gli altri il decrescitista francese Serge Latouche, non può esistere uno “sviluppo sostenibile”, né uno “sviluppo durevole”. A livello di opinione pubblica il Piano B è probabilmente il più gradito, poiché permette di non rinunciare allo stile di vita consumista e al benessere del superfluo ma al tempo stesso consente di mettersi a posto con la coscienza ricorrendo a fonti di energia pulita e rinnovabile.

Facciamo un piccolo salto e passiamo al direttamente al Piano D, la cui funerea parola chiave è die off, letteralmente “morire uno dopo l’altro”. Ai propugnatori di questo piano appartengono i catastrofisti della prima ora, coloro che non intravedono vie d’uscita e secondo cui l’unica possibile soluzione è quella di chiudersi in piccole comunità isolate e autosufficienti per mettersi al riparo dal collasso economico, dalle guerre, dalle carestie e dai disastri climatici che colpiranno il pianeta nel giro poco tempo. Una presa di posizione radicale che però non contempla altre prospettive se non quella della mera sopravvivenza.

Last but not least, giungiamo al Piano C che da il titolo all’opera di Murphy. Dei quattro è sicuramente il più completo e condivisibile, non solo perché a esso hanno lavorato per anni studiosi e addetti ai lavori – fra cui lo stesso Murphy – ma anche perché è stilato secondo uno schema che partendo da profonde e ragionate riflessioni di ordine teorico e concettuale, vertenti sull’opportunità – divenuta poi necessità – di un’inversione di rotta, ha prodotto una serie di indicazioni  operative estremamente realistiche, dirette a ciascun soggetto interessato – dal padre di famiglia, al dirigente della grande impresa, al presidente di una nazione – e da attuare a partire da subito nella pratica quotidiana. La parola chiave riassume ottimamente l’importanza della dimensione concettuale e di quella operativa: redesign, riprogettare. A questo termine Murphy ne affianca altri due, che danno un’idea ancor più precisa della direzione nella quale si intende lavorare: curtailment e community, riduzione e comunità. Le indicazioni che fornisce il Piano C sono semplici e attuali: cambiare il nostro stile di vita, ripensare il nostro rapporto con la Natura, recuperare la dimensione locale, fare comunità. Tutto ciò in termini pratici si traduce nel consumo a chilometri zero, nella riduzione degli acquisti, possibilmente nell’eliminazione di quelli superflui, nella creazione di saldi legami umani, politici ed economici fra gli appartenenti alla stessa comunità, nel ricorso misurato alla tecnologia, da intendersi come mezzo e non come fine o come strumento di sviluppo senza freni.

..........

L’ambito operativo del Piano C è suddiviso in tre categorie all’interno delle quali possono essere racchiusi quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana di una persona. Queste categorie sono alimentazione, abitazione e trasporti.

Prendendo in esame la sola categoria dell’alimentazione, nel libro di Murphy si possono trovare interessanti considerazioni e spunti anche di natura statistica. Uno di essi è il particolare rapporto che l’autore individua fra il costo dovuto alla produzione e al trasporto del cibo e la capacità nutritiva del cibo stesso; la variabile che egli sceglie per calcolare tale rapporto è la caloria, che da un lato misura l’apporto energetico del cibo mentre dall’altro l’energia prodotta dai combustibili fossili necessaria per produrlo e trasportarlo. Questo conto ci svela molti dati interessanti: per esempio, per garantire 1 caloria al consumatore di cibo è necessario impiegarne 10 di combustibile fossile. Queste ultime a loro volta sono così suddivise: il 40% viene impiegato per fertilizzanti e pesticidi, il 23% per la lavorazione e l’imballo e il 32% per la conservazione, il congelamento e infine la cottura.

Analizzando questi dati, Murphy è in grado di proporre alcuni suggerimenti; uno di questi è diminuire il consumo di carne, poiché proprio la carne è l’alimento che richiede un contributo più alto in termini di combustibili fossili. Questo è ovviamente un consiglio pratico, da attuare nell’immediato; la cosa migliore è tuttavia sforzarsi in direzione di un deciso mutamento di mentalità: prima della “rivoluzione verde” infatti – siamo nell’immediato dopoguerra -, quando l’agricoltura e l’allevamento non erano una vorace industria ma un’attività tradizionale di sostentamento della comunità, il rapporto calorico non era di 10 a 1 ma di 0 a 1, cioè ogni caloria fornita al consumatore non costava nulla in termini di energia prodotta da combustibili fossili. La meccanizzazione dell’agricoltura, la creazione di prodotti sempre più variegati e lavorati, con imballaggi sempre più complessi, l’introduzione di aggressive strategie di marketing volte ad attirare l’attenzione sulla marca e distoglierla dalla qualità del prodotto stesso, hanno generato il mercato alimentare globale, in cui la qualità del cibo è decisamente inferiore, i costi economici non sono poi tanto vantaggiosi, mentre quelli sociali, umani e ambientali sono elevatissimi.

L’alternativa? Prediligere i produttori locali e i loro prodotti. Una scelta che porta solo vantaggi: si può controllare direttamente la qualità del processo produttivo, si accorcia la filiera produttiva e distributiva con un notevole abbattimento dei costi, si contribuisce alla ricchezza locale investendo denaro all’interno della propria comunità e si riallacciano i legami non solo commerciali ma anche umani e amicali fra venditore e compratore.