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Ma è proprio vero che lo spirito scientifico si caratterizza come una promozione di esistenza?

di Francesco Lamendola - 17/06/2009


Vi sono dei filosofi, e particolarmente degli epistemologi, secondo i quali tutta la metafisica sarebbe da gettare al macero, e tutta l'ontologia, nient'altro che una forma di sonnolenza, un arresto dell'eterno movimento esistenziale.
Brandendo Epicuro contro Parmenide, questi filosofi vitalisti  si compiacciono di immaginare il reale come il campo d'azione di una forza poderosa e in continua espansione: il pensiero; e, senza darsi alcun pensiero (ci sia perdonato il bisticcio) della fonte da cui esso trae origine - degni discepoli di Hegel, per il quale il pensiero crea l'essere e non viceversa - identificano molto semplicisticamente la sua espansione con una promozione di esistenza.
Non ci sono soltanto Eraclito ed Hegel nel loro ricettario, ma anche una bella spruzzata - che non guasta mai - del buon vecchio Nietzsche: dato che, per essi, la forza sembra essere tutto, e tutto ciò che è forza espande l'esistenza. Se, poi, una tale espansione si possa considerare anche, sempre e comunque, una «promozione», questo è un dubbio che non li turba affatto; anzi, non si pongono neppure il problema: sicché si può dire che la loro affermazione termina proprio là, dove sarebbe necessario che si dessero la briga di dimostrarla.
Ad ogni modo, la base di tale posizione è, in buona sostanza, di matrice squisitamente illuminista e positivista: per quei filosofi, «pensiero» e «pensiero scientifico» sono, press'a poco, una sola e medesima cosa; ed essi ritengono cosa «evidente» (strano aggettivo, per un filosofo) che il pensiero si designa come una promozione dell'esistenza.
Da ultimo, ma non per ultimo, nel loro armamentario spicca una essenziale componente baconiana; come per Francis Bacon, anche per loro «sapere è potere»; ma, più sbrigativi del filosofo inglese, non si attardano nemmeno a teorizzarlo, poiché lo danno per scontato; il tutto in una vaga salsa esistenzialista, che va bene per tutte le stagioni,  dato che non si prendono minimamente la briga di spiegare o di indagare che cosa sia codesta «esistenza» che, secondo loro, verrebbe ad essere promossa dall'avanzata del pensiero scientifico.
Gaston Bachelard (1884-1962) - che Althusser, Canguilhem, Foucault e Lecourt hanno riconosciuto come il loro maestro -, nel suo libro «Epistémologie. Textes choisis», è un tipico esponete di siffatto, disinvolto modo di vedere.
Anche se egli ha dedicato ampio spazio, nel quadro generale della sua concezione filosofica,  all'immaginario e alla fantasticheria, arrivando a sostenere che essi corrispondono a delle forme di conoscenza più profonde di quelle della scienza e della tecnica, poiché attingono a quegli strati dello spirito umano che quelle non sono in grado di modificare, nondimeno ha visto nell'immaginario quella facoltà intuitiva che poi, mediata e razionalizzata dal pensiero, entrerà a far parte del patrimonio scientifico.
Come il discolo Pinocchio, quando mette la testa a posto, diventa un bravo ragazzino e guarda con sufficienza al burattino di legno che era un tempo, così l'immaginario - per Bachelard - mette prima o poi la testa a partito, e trasforma le sue esuberanti fantasticherie in materia prima, utile per l'incremento del pensiero scientifico: il quale, evidentemente, resta la pietra del paragone, l'alfa e l'omega dell'esistenza umana (che qui, con una pesante forzatura antropocentrica, diviene l'esistenza in generale).
Vogliamo qui presentare la pagina in cui il filosofo francese ha sostenuto che il pensiero scientifico si caratterizza come una promozione di esistenza («Epistémologie. Textes choisis», edizione originale 1971, Presses Universitaires de France; traduzione italiana di Franco Lo Piparo, «Epistemologia», Bari, Laterza Editore, 1975, pp. 13-15):

«Se si stendesse un quadro generale della filosofia contemporanea, non si potrebbe non essere colpiti dal poco spazio che vi occupa la filosofia delle scienze. In un modo ancora più generale, le filosofie della conoscenza sembrano ai nostri giorni in disgrazia. Lo sforzo del sapere appare macchiato di utilitarismo; i concetti scientifici, pure così bene coordinati, sono considerati semplici valori di utilizzabilità.  L'uomo di scienza, dal pensiero così ostinato e così ardente,  dal pensiero così vivo, è rappresentato come un uomo astratto. Poco alla volta, tutti i valori dell'uomo studioso, dell'uomo industrioso, cadono in discredito. La scienza non è più che una piccola avventura, un'avventura nei paesi chimerici della teoria, nei labirinti tenebrosi di esperienze artificiali. Per un paradosso incredibile, a sentire le critiche rivolte all'attività scientifica, lo studio della natura distoglierebbe gli scienziati dai valori naturali l'organizzazione razionale delle idee danneggerebbe l'acquisizione delle idee nuove.
Se un filosofo parla della conoscenza, allora la vuole diretta, immediata, intuitiva. Si finisce per fare della semplicità una virtù, un metodo. Si dà corpo al gioco di parole di un grande poeta che toglie una lettera "n" alla parola "connaissance" [conoscenza] per suggerire che la vera "connaissance" è una "co-naissance" [co-nascita]. E si professa che il primo risveglio  è già piena luce, che lo spirito ha una chiarezza innata.
Se un filosofo parla dell'esperienza, le cose vanno in modo altrettanto sbrigativo: si tratta della sua propria esperienza, dello sviluppo tranquillo di un temperamento. Si finisce per descrivere una visione personale del mondo, quasi che essa scoprisse ingenuamente il senso di tutto l'universo. E così la filosofia contemporanea è un'ebbrezza di personalità, un'ebbrezza di originalità. E questa originalità si pretende radicale, radicata nell'essere stesso; caratterizza una esistenza concreta; fonda un esistenzialismo immediato. Così, ciascuno penetra senza sforzo nell'essere dell'uomo. Inutile andare a cercare più lontano un oggetto di meditazione, un oggetto di studio, un oggetto di conoscenza, un oggetto d esperienza. La coscienza è un laboratorio individuale, un laboratorio innato. Allora gli esistenzialismi si moltiplicano. Ciascuno ha il suo; ciascuno trova la propria gloria nella propria singolarità.
Ebbene! Nell'attività scientifica non si è originali a così buon mercato; il pensiero scientifico non trova così facilmente la permanenza e la coesione di una esistenza. Ma, in cambio, i pensiero scientifico si designa come una evidente promozione di esistenza. Ed è su questa promozione di esistenza che vorrei richiamare la vostra attenzione.
In breve, invece di una esistenza alla radice dell'essere,  nel riposo di una naturale perseveranza nell'essere, la scienza ci propone un esistenzialismo alla punta dell'essere pensante.  Il pensiero è una forza, non è una sostanza. Più grande è la forza e più alta è la promozione di essere.  L'uomo, dunque, si istituisce veramente nella sua dinamica di essere pensante  nei due momenti in cui allarga la sua esperienza e in cui coordina il suo sapere.  Quando un celebre esistenzialista ci dichiara tranquillamente: "il movimento è una malattia dell'essere", io gli obietto: "l'essere è un'ostruzione del movimento, una sosta, una vacanza, un vuoto." E vedo la necessità di una inversione radicale della fenomenologia dell'essere umano, in modo da descrivere l'essere umano come promozione di essere, nella sua essenziale tensione, sostituendo sistematicamente ogni ontologia con una dinamologia. In altri termini, mi sembra che l'esistenza della scienza si definisca come un progresso del sapere, che il nulla sia in rappresentazione simbolica con l'ignoranza. In breve, la scienza è una delle testimonianze più inconfutabili dell'esistenza essenzialmente progressiva dell'essere pensante. L'essere pensante pensa un pensiero conoscente. Non pensa un'esistenza.
Che cosa sarà allora, espresso in uno stile moderno, la filosofia delle scienze? Sarà una fenomenologia dell'uomo studioso, dell'uomo teso nel suo studio e non solamente un vago bilancio di idee generali e di risultati acquisiti. Dovrà farci assistere al dramma quotidiano dello studio quotidiano,  dovrà descrivere la rivalità e la cooperazione dello sforzo teorico e della ricerca sperimentale, dovrà metterci al centro di quel perenne conflitto di metodi che è il carattere manifesto, il carattere tonico della cultura scientifica contemporanea »

Dopo essersi confrontato con una tale pagina di prosa, il lettore è costretto ad accumulare entro di sé tutta una serie di enunciati che, in verità - e nello stile di Hegel - il filosofo francese si limita a porre, invece di tentare di dimostrarli.

Primo: che la filosofia della scienza è, nell'ambito del pensiero occidentale, assai poco sviluppata.
Secondo: che la scienza è vista, generalmente, come una piccola avventura nei paesi chimerici della teoria.
Terzo: che solo il pensiero scientifico porta una vivida luce del mondo, poiché lo spirito, senza di esso, si illude solamente di avere conoscenza delle cose.
Quarto: che tutta la filosofia contemporanea è una ebbrezza di personalità e di originalità, come se corrispondesse a una «ingenua» scoperta dell'universo da parte del singolo pensatore.
Quinto: che la filosofia contemporanea è pigra e velleitaria, perché si limita a penetrare «senza sforzo» nell'essere dell'uomo.
Sesto: che il solo pensiero scientifico non ostenta una originalità a buon mercato, ma - in compenso - corrisponde a una evidente promozione di esistenza.
Settimo: che la scienza non propone una esistenza alla radice dell'essere, ma sulla punta dell'essere pensante.
Ottavo: che il pensiero è una forza, non è una sostanza; e che più grande è la forza, e più alta è la promozione di essere.
Nono: che l'uomo si istituisce nella sua dinamica di essere pensante, nei due momenti in cui allarga la sua esperienza e in cui coordina il suo sapere.
Decimo: che l'essere è un'ostruzione del movimento, una sosta, una vacanza, un vuoto.
Undicesimo: che è necessaria una inversione radicale della fenomenologia dell'essere umano, in modo da descriverlo come promozione di essere, nella sua essenziale tensione.
Dodicesimo: che occorre sostituire sistematicamente ogni ontologia con una dinamologia.
Tredicesimo: che l'esistenza della scienza si definisca come un progresso del sapere, cui si contrappone il nulla dell'ignoranza.
Quattordicesimo: che l'essere pensante pensa un pensiero conoscente, non un'esistenza.
Quindicesimo: che, per conseguenza, la scienza è una delle testimonianze più inconfutabili dell'esistenza essenzialmente progressiva dell'essere pensante.
Sedicesimo: che la filosofia delle scienze (non della scienza al singolare) deve diventare una fenomenologia del dramma [?] quotidiano dello studio quotidiano.
Diciassettesimo: che la cultura scientifica contemporanea ha un carattere tonico.

Come si vede, e tranne rare eccezioni (come nei punti  quattordicesimo e quindicesimo) non vi è un vero collegamento organico fra questi enunciati, che si pongono, isolati e apodittici, come una sorta di tavola della legge epistemologica.
Non mancano le battute di sapore paradossale, ma impregnate di un vigoroso vitalismo di matrice quasi futurista: che si debba sostituire ogni ontologia con una dinamologia, ad esempio, è una «boutade» che non sarebbe dispiaciuta a Filippo Tommaso Marinetti, celebratore, nel «Manifesto futurista» del  1909, del passo di corsa, dello schiaffo, del pugno, e di una nuova bellezza aurorale: la bellezza della velocità.
Nemmeno l'affermazione circa il «carattere tonico» della cultura scientifica sarebbe dispiaciuta ai futuristi; anzi, crediamo che avrebbe incontrato in pieno il loro gusto, essi che odiavano il sonno e la polvere dei musei, e preferivano un'automobile in corsa a tutta l'arte classica.
Infine il patetismo e l'implicito titanismo di quel carattere drammatico dello studio scientifico, farebbe la delizia di tutti gli esistenzialisti da palcoscenico e di tutti i superomisti a un tanto il chilo, che ormai intasano da oltre un secolo il panorama del pensiero contemporaneo.
Che dire di questa lunga serie di enunciati senza contraddittorio, senza sfumature, senza ombra di consapevolezza autocritica?
Il minimo che se ne possa concludere è che essa si basa su un grossolano fraintendimento di una concezione qualitativa, e non meramente quantitativa, del pensiero (ma, coerentemente, nel capitolo successivo Bachelard sostiene che il pensiero scientifico deve espungere da sé il senso del limite, obsoleto retaggio della vecchia metafisica).
Quando afferma, ad esempio, che «il pensiero è una forza, non è una sostanza. Più grande è la forza e più alta è la promozione di essere», sembra che l'Autore non venga neppure sfiorato dal sospetto che promozione di essere è una espressione certamente elegante e gradevole, ma che non vuol dire assolutamente nulla, se non si tenta di precisarla almeno un poco.
Perché la filosofia, ad esempio, o l'arte, o la spiritualità, non dovrebbero corrispondere anch'esse ad una promozione di essere? Infatti, delle due, l'una: o solo il pensiero scientifico lo è - e non si capisce perché -, oppure tutte le forme che assume l'attività dello spirito, implicano una promozione di essere; e allora il pensiero scientifico è solo una fra di esse.
Oppure si prenda quest'altra affermazione: «L'uomo, dunque, si istituisce veramente nella sua dinamica di essere pensante  nei due momenti in cui allarga la sua esperienza e in cui coordina il suo sapere».
Qui vi è una intuizione certamente condivisibile, ossia che l'essere umano è, essenzialmente,  tensione; ma manca proprio la parte più significativa del discorso: tensione verso che cosa? Per Bachelard, che si fa beffe della metafisica, non può essere che tensione verso il sapere. Ma ciò significa chiudere l'essere umano entro un ferreo circolo vizioso: il pensiero è tensione, tensione verso il sapere; ma da dove viene il pensiero? E da dove gli proviene questa sete ardente di conoscere, di darsi delle risposte?
Anche qui, bisogna constatare che le tesi di Bachelard incominciano proprio là dove una bene intesa filosofia si porrebbe il problema di incominciare, ossia il problema dei fondamenti. Ma egli non può farlo, anzi, non può ammetterlo, dal momento che dichiara di aborrire l'ontologia, perché «l'essere è un'ostruzione del movimento, una sosta, una vacanza, un vuoto».
Strano ragionamento! L'essere è un vuoto del movimento; ma il movimento, che cos'è? Donde proviene?… Mistero!
In tali condizioni, non c'è affatto da meravigliarsi che la tensione dell'esistenza umana sfoci non in un movimento dialettico vero e proprio, ma semplicemente in una scienza della tonica: ossia in una scienza del movimento per il movimento, di gusto decisamente estetizzante (ancora quel benedetto futurismo!).
Infine, che dire della concezione del pensiero come di una forza, una forza che quanto più è grande, tanto più promuove l'esistenza? Non vorremmo fare delle battute troppo facili, ma ci viene inevitabile domandare: veniva da un pensiero piccolo, la bomba atomica?
Forse sì.
Ma, con gli strumenti epistemologici messi a disposizione da filosofi come Bachelard, non saremo mai in grado di rendercene conto per tempo; e di capire che non qualunque pensiero promuove l'esistenza, ma solo un pensiero che sia veramente umano, ossia conforme alle finalità e alla natura dell'essere umano.
Ora, per avvicinarci alla reale natura dell'uomo e al suo fine, così come a quelli di ogni altro ente (ma degli enti non pensanti, significativamente, Bachelard non dice nulla), è inevitabile porre la questione del fondamento, ossia dell'essere.
Diversamente, non faremmo altro che celebrare i fasti di una scienza che gira sempre più in fretta, ma sempre più a vuoto, e sempre più pericolosamente; ossia, di una mera adorazione dell'esistente, anche se pomposamente battezzato «progresso».
Ma è tutto qui, allora, il compito della filosofia: adorare servilmente l'esistente?