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I travisamenti occidentali di fronte alla realtà iraniana

di George Friedman* - 18/06/2009





Nel 1979, quando ancora eravamo giovani e sognatori, in Iràn ebbe luogo una rivoluzione. Quando chiesi agli esperti cosa sarebbe successo, si divisero in due campi.
Il primo gruppo d'iranisti sosteneva che lo Scià ne sarebbe senz'altro uscito indenne: i disordini non erano altro che un evento ciclico agevolmente gestibile dalla sua polizia, ed il popolo iraniano sosteneva compatto il programma di modernizzazione promosso dalla monarchia. Questi esperti avevano maturato la loro previsione parlando con gli stessi funzionari e affaristi iraniani con cui colloquiavano da anni: potenti persiani cresciuti nell'opulenza sotto lo Scià e che parlavano inglese, dato che di frequente gl'iranisti non parlavano il farsi molto bene.
Il secondo gruppo d'esperti considerava lo Scià un tiranno oppressore, e attribuiva alla rivoluzione l'intento di liberalizzare il paese. Le loro fonti erano professionisti e accademici sostenitori dell'insurrezione: persiani che conoscevano le idee della guida suprema ayatollah Ruholla Khomeini, ma non credevano avesse molto seguito nel popolo. Pensavano che la rivoluzione avrebbe aumentato i diritti umani e la libertà. Gli esperti di questo gruppo parlavano il farsi ancor meno di quelli del primo.

Sentimenti fraintesi in Iràn

Limitandosi alle informazioni che giungevano dagli oppositori anglofoni del regime, entrambi i gruppi d'iranisti avevano maturato una visione erronea degli esiti della rivoluzione: la rivoluzione iraniana, infatti, non era portata avanti dalla gente che parlava l'inglese. Era fatta dai mercanti dei bazar cittadini, dai contadini, dai chierici: persone che non parlavano agli Statunitensi, non conoscendone la lingua. Questa gente dubitava dei pregi della modernizzazione, e non era per niente certa di quelli del liberalismo; ma fin dalla nascita coltivava le virtù musulmane ed era convinta che lo Stato iraniano dovesse essere uno Stato islamico.
Europei e Statunitensi stanno male interpretando l'Iràn da 30 anni. Anche dopo la caduta dello Scià, è sopravvissuto il mito d'un movimento massiccio di popolo che guarderebbe alla liberalizzazione: un movimento che, se incoraggiato dall'Occidente, riuscirebbe alfine a formare una maggioranza e governare il paese. Noi definiamo questo punto di vista “liberalismo iPod”: l'idea che chiunque ascolti rock 'n' roll su un iPod, tenga un blog e sappia cosa significhi “Twitter” debba essere un entusiasta sostenitore del liberalismo occidentale. Ancor più significativo che questa corrente non sia riuscita a capire che i possessori di iPod sono una ristretta minoranza in Iràn – un paese povero, religioso e complessivamente soddisfatto degli esiti della rivoluzione di trent'anni fa.
Senza dubbio c'è gente che vorrebbe liberalizzare il regime iraniano. La si può trovare tra le classi professionali di Tehran così come tra gli studenti. Molti parlano inglese, cosa che li rende accessibili a giornalisti, diplomatici e agenti segreti di passaggio. Sono loro quelli che possono parlare agli occidentali; anzi, sono loro quelli che vogliono parlare agli occidentali. E questa gente dà agli occidentali una visione assolutamente distorta dell'Iràn. Possono dare l'impressione che una fantastica liberalizzazione sia a portata di mano. Finché non si capisce che gli anglofoni possessori di iPod, in Iràn, non sono esattamente la maggioranza.
Venerdì scorso il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad è stato rieletto coi due terzi del voto. I sostenitori dei suoi rivali, dentro e fuori dall'Iràn, sono rimasti basiti. Un sondaggio dava per vincitore l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi. Sarebbe ovviamente interessante meditare su come si possa condurre un sondaggio in un paese dove il telefono non è universalmente diffuso, e fare una chiamata, anche dopo aver trovato un telefono, resta una scommessa. Un sondaggio, perciò, raggiungerebbe probabilmente la gente dotata di telefono che abita a Tehran e nelle altre aree urbane. Probabile che tra questi Mousavi abbia vinto. Ma fuori da Tehran e dalla gente facile da contattare, i numeri sono cambiati parecchio.
Alcuni accusano ancora Ahmadinejad di brogli. È possibile che vi siano stati, ma è difficile capire come si possa rubare un'elezione con un margine tanto ampio. Farlo avrebbe richiesto il coinvolgimento d'un numero incredibile di persone, ed avrebbe rischiato di generare numeri palesemente in disaccordo coi sentimenti prevalenti in ciascuna circoscrizione. Brogli su ampia scala implicherebbero che Ahmadinejad abbia manipolato i numeri a Tehran senza alcun riguardo per il voto. Ma ha tanti potenti nemici che l'avrebbero subito rilevato e denunciato. Mousavi insiste ancora d'essere stato frodato, e dobbiamo rimanere aperti alla possibilità che sia così, per quando sia arduo immaginare il meccanismo attraverso cui ciò sarebbe accaduto.

La popolarità di Ahmadinejad

Manca pure un punto cruciale: Ahmadinejad gode di grande popolarità. Non parla delle questioni che interessano i professionisti urbani, ossia economia e liberalizzazione; ma affronta tre problemi fondamentali che interessano il resto del paese.
Innanzi tutto, Ahmadinejad parla di religiosità. Entro ampi strati della società iraniana, è cruciale la volontà di parlare genuinamente della religione. Sebbene possa essere difficile da credere per gli Europei e gli Statunitensi, nel mondo ci sono persone per cui il progresso economico non è la cosa fondamentale; persone che vogliono mantenere la loro comunità così com'è, e vivere così come vivevano i loro antenati. Questa gente prova ripulsa per la modernizzazione – che venga dallo Scià o da Mousavi. Essa perdona a Ahmadinejad i suoi fallimenti economici.
In secondo luogo, Ahmadinejad affronta la corruzione. Nelle campagne è diffusa la sensazione che gli ayatollah – che hanno enorme ricchezza ed enorme potere, riflessi nel loro stile di vita – abbiano corrotto la Rivoluzione Islamica. Ahmadinejad è inviso a molti in seno all'élite religiosa, proprio perché ha sistematicamente sollevato il problema della corruzione, che risuona nel contado.
Infine, Ahmadinejad è un portavoce della sicurezza nazionale iraniana: posizione tremendamente popolare. Va sempre tenuto a mente che l'Iràn negli anni '80 combatté una guerra con l'Iràq che durò 8 anni, cagionando perdite e sofferenze inenarrabili, e di fatto conclusasi con la sua sconfitta. Gl'Iraniani, ed i poveri in particolare, hanno vissuto quella guerra ad un livello molto intimo. La combatterono in prima persona, o vi persero mariti e figli. Come succede in altri paesi, la memoria d'una guerra persa non necessariamente delegittima il regime. Semmai, può generare speranze di rinascita, così da non vanificare i sacrifici bellici: un tasto su cui batte molto Ahmadinejad. Affermando che l'Iràn non deve ridimensionarsi ma diventare una grande potenza, parla ai veterani ed alle loro famiglie, che desiderano veder emergere qualcosa di positivo da tutti i loro sacrifici in epoca bellica.
Forse il principale fattore della popolarità di Ahmadinejad è che Mousavi ha parlato per i distretti-bene di Tehran – un po' come correre per le presidenziali statunitensi facendosi portavoce di Georgetown e del Lower East Side. Questa cosa ti segna, e Mousavi ne è uscito segnato. Brogli o no, Ahmadinejad a vinto e pure di tanto. Che abbia vinto non è un mistero; il mistero è come gli altri potessero pensare che non avrebbe vinto.
Venerdì, per un tratto, era sembrato che Mousavi fosse in grado di scatenare un'insurrezione a Tehran. Ma il momento è passato quando le forze di sicurezza di Ahmadinejad sono intervenute sulle loro motociclette. E ciò ha lasciato l'Occidente con lo scenario peggiore: un antiliberale democraticamente eletto.
Le democrazie occidentali credono che il popolo eleggerà i liberali che tutelano i loro diritti. In realtà, il mondo è più complicato di così. Hitler è l'esempio classico di chi è giunto al potere seguendo la costituzione, e poi l'ha violata. Analogamente, la vittoria di Ahmadinejad è nel contempo il trionfo della democrazia e quello della repressione.

Il futuro: lo stesso, di più

La domanda è ora cos'avverrà in seguito. Internamente, possiamo aspettarci che Ahmadinejad consolidi le sue posizioni sotto la copertura della lotta alla corruzione. Lui vuole ripulire gli ayatollah, molti dei quali sono suoi nemici. Avrà bisogno del sostegno della guida suprema ayatollah Alì Khamenei. Quest'elezione ha fatto di Ahmadinejad un presidente potente, forse il più potente che ci sia mai stato in Iràn dalla rivoluzione. Ahmadinejad non vuole sfidare Khamenei, e la sensazione è che Khamenei non vorrà sfidare Ahmadinejad. Si profila un matrimonio obbligato, che forse metterà in una posizione difficile molti altri capi religiosi.
Di certo le speranze che la nuova dirigenza politica ridimensionasse il programma nucleare iraniano sono state annullate. Il campione di quel programma ha vinto, in parte proprio perché se n'è fatto paladino. Riteniamo l'Iràn ancora lontano dallo sviluppare un'arma nucleare utilizzabile, ma di certo la speranze dell'amministrazione Obama che Ahmadinejad sarebbe stato rimpiazzato o quanto meno indebolito e ridotto a più miti ragioni, sono state infrante. È interessante che Ahmadinejad abbia inviato congratulazioni al presidente Barack Obama il giorno della sua investitura. Ci aspetteremmo che Obama ricambi la cortesia, vista la sua politica d'apertura, che il vice-presidente Joe Biden pare aver affermato, assumendo che parlasse per conto di Obama. Non appena la questione dei brogli si sarà risolta, avremo un'idea migliore se la politica di Obama proseguirà (e crediamo che sarà così).
Ora abbiamo due presidenti in posizione politicamente sicura, cosa che normalmente garantisce buone basi per negoziati. Il problema è che non si capisce su cosa gl'Iraniani siano pronti a negoziati, né quali concessioni gli Statunitensi siano disposti a dare agl'Iraniani per indurli a negoziare. L'Iràn vuole maggiore influenza in Iràq ed il riconoscimento del suo ruolo di maggiore potenza regionale, cose che gli Stati Uniti non vogliono concedergli. Gli USA vogliono la fine del programma nucleare iraniano, cosa che l'Iràn non vuole accettare.
A prima vista, questo sembrerebbe aprire le porte ad un attacco contro le installazioni nucleari iraniane. L'ex presidente George W. Bush non ebbe alcuna voglia di condurre un simile attacco, né l'ha ora Obama. Entrambi i presidenti hanno impedito agl'Israeliani d'attaccare, posto che quest'ultimi abbiano mai voluto farlo davvero.
Per ora, le elezioni sembrano aver congelato lo status quo. Né Stati Uniti né Iran sembrano pronti a mosse significative, e non vi sono terze parti che vogliano farsi coinvolgere nella questione, eccettuate le occasionali missioni diplomatiche europee o le minacce russe di vendere qualcosa all'Iràn. Alla fin fine, ciò dimostra quel che sappiamo da molto: il gioco è bloccato sul posto, e va avanti.

(traduzione di Daniele Scalea)

* George Friedman è direttore di “Stratfor” (www.stratfor.com), da cui è stato tratto quest'articolo pubblicato originariamente il 15 giugno 2009