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Il brillante piano di pace di Netanyahu

di Hasan Abu Nimah and Ali Abunimah - 18/06/2009

Fonte: blogghete

 
 
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha proposto un piano di pace così ingegnoso che è stupefacente che in sessant’anni di spargimento di sangue nessuno ci abbia pensato. A qualcuno potrebbe essere sfuggita la piena genialità delle idee che egli ha esposto il 14 giugno in un discorso all’Università di Bar Ilan, pertanto ci pregiamo di offrire ai lettori la presente analisi.

Prima di tutto, Netanyahu vuole che i palestinesi divengano ferventi sionisti. Possono dimostrare la loro fede dichiarando “Riconosciamo il diritto del popolo ebraico a possedere un proprio Stato su questo territorio”. Come egli ha sottolineato, è solo il rifiuto degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare di convertirsi al sogno sionista ad aver provocato il conflitto, ma non appena “essi avranno detto queste parole alla nostra gente e alla loro gente, allora si aprirà la strada per la risoluzione di tutti i problemi fra i nostri popoli”. Ovviamente è del tutto naturale che Netanyahu attenda “con impazienza quel momento”.

In ogni caso, una semplice sincera conversione al sionismo non sarà sufficiente. Affinché la conversione palestinese abbia un “significato concreto”, ha spiegato Netanyahu, “deve esservi anche la chiara consapevolezza che il problema dei rifugiati palestinesi dovrà essere risolto al di fuori dei confini israeliani”. In altre parole, i palestinesi devono acconsentire ad aiutare Israele nel completamento della pulizia etnica iniziata nel 1947-48, rinunciando al diritto al ritorno. Ciò naturalmente è del tutto logico, poiché, una volta divenuti sionisti, i palestinesi condivideranno l’obiettivo sionista di una Palestina quanto più possibile svuotata di palestinesi.

Netanyahu è abbastanza intelligente da riconoscere che perfino questa auto-pulizia etnica dei rifugiati potrebbe non essere sufficiente a garantire la “pace”: ci sarebbero pur sempre milioni di palestinesi che continuerebbero fastidiosamente a vivere nella propria terra natìa o nel cuore di quella che Netanyahu ha insistito a definire la “patria storica” degli ebrei.

Per questi palestinesi, il piano di pace prevede ciò che Netanyahu chiama “demilitarizzazione”, ma che andrebbe più correttamente intesa come resa incondizionata seguita da consegna delle armi. La consegna delle armi, benché necessaria, potrebbe comunque non essere immediata. Qualche palestinese recalcitrante potrebbe non essere felice di diventare sionista. Pertanto, i neoconvertiti palestinesi sionisti dovrebbero scatenare una guerra civile per sconfiggere coloro che insistono scioccamente ad opporsi al sionismo. Per dirla con le parole di Netanyahu, “l’Autorità Palestinese dovrà garantire il rispetto della legge a Gaza e sopraffare Hamas”. (In realtà questa guerra civile è già in corso da diversi anni, da quando le “forze di sicurezza” palestinesi, sostenute da americani e israeliani e guidate dal generale americano Keith Dayton, hanno iniziato a condurre attacchi sempre più frequenti contro Hamas).

Una volta che i palestinesi anti-sionisti saranno stati schiacciati, i restanti palestinesi – il cui numero sarà ancora uguale a quello degli ebrei nella Palestina storica – dovranno mostrarsi in grado di condurre la propria esistenza da bravi sionisti, secondo la visione di Netanyahu. Dovranno rassegnarsi a starsene pigiati in ghetti ed enclavi ancora più strette per consentire l’ulteriore espansione delle colonie sioniste, i cui abitanti sono stati definiti da Netanyahu “una parte integrante del nostro popolo, una comunità di sani princìpi, di pionieri e di sionisti”. E in linea con il loro fervente sionismo, i palestinesi dovranno naturalmente riconoscere che “Gerusalemme deve restare la capitale unita di Israele”.

Questi sono solo gli aspetti israelo-palestinesi del piano di Netanyahu. Gli elementi regionali includono il pieno appoggio arabo al sionismo palestinese, la normalizzazione dei legami con Israele e perfino il finanziamento di tutto questo con il denaro dei paesi del Golfo Arabo. Perché no? Se tutti diventano sionisti ogni conflitto cesserà di esistere.

Sarebbe bello poter davvero considerare il discorso di Netanyahu come una barzelletta. Ma si tratta purtroppo di un importante indicatore di una cruda realtà. Contrariamente a certe ingenue ed ottimistiche speranze, Netanyahu non rappresenta soltanto una frangia estremista di Israele. Oggi l’opinione pubblica ebrea israeliana si presenta (con poche eccezioni) come un fronte unico a favore di un nazionalismo violento e razzista, alimentato dal fanatismo religioso. I palestinesi sono visti, nella migliore delle ipotesi, come esseri inferiori da tollerare finché non si presenta l’occasione buona per espellerli, incarcerarli o affamarli come gli 1,5 milioni di reclusi nella prigione di Gaza.

Israele è una società in cui il violento razzismo anti-arabo e la negazione della Nakba sono la norma, anche se nessuno dei leader americani ed europei che pontificano continuamente di negazione dell’olocausto oserà mai rimproverare Netanyahu per le sue spudorate menzogne ed omissioni sulla pulizia etnica dei palestinesi compiuta da Israele.

La “prospettiva” di Netanyahu non ha fatto compiere assolutamente nessun passo avanti al Piano Allon del 1976 per l’annessione dei territori della West Bank o alle proposte di “autonomia” fatte da Menachem Begin a Camp David. L’obiettivo rimane lo stesso: controllare la maggior quantità possibile di territorio con il minor numero possibile di palestinesi.

Il discorso di Netanyahu dovrebbe mettere a riposo le rinate illusioni – nutrite soprattutto dal discorso fatto al Cairo dal presidente americano Barak Obama – che un Israele del genere possa essere condotto volontariamente a qualunque tipo di accordo equo. Coloro che in questa regione hanno riposto le proprie speranze in Obama – come le avevano precedentemente riposte in Bush – sono convinti che la pressione americana possa spingere Israele a cedere. Si appigliano alle forti affermazioni di Obama, che aveva richiesto una completa interruzione della costruzione di insediamenti da parte di Israele (una richiesta che Netanyahu ha respinto col suo discorso). Resta da vedere se Obama farà seguire dei fatti alle sue dure parole.

Del resto, anche se Obama fosse davvero determinato ad esercitare su Israele una pressione senza precedenti, dovrebbe esaurire gran parte del suo capitale politico solo per ottenere da Israele il consenso a congelare gli insediamenti, figuriamoci se riuscirebbe ad affrontare una qualunque delle dozzine di altre questioni ben più essenziali.

E nonostante l’impressione diffusa che vi sia in corso uno scontro tra l’amministrazione Obama e il governo israeliano (che potrebbe riguardare questioni tattiche minori), quando si passa ai problemi essenziali essi mostrano più convergenze che divergenze. Obama ha già dichiarato che “qualsiasi accordo con il popolo palestinese dovrà preservare l’identità israeliana di Stato Ebraico”, ed ha affermato che “Gerusalemme resterà la capitale di Israele e dovrà rimanere indivisa”. Quanto ai rifugiati palestinesi, egli ha detto “il diritto al ritorno [in Israele] è qualcosa che non costituisce un’opzione in senso letterale”.

Per quanto baccano abbia fatto sugli insediamenti, Obama si è riferito solo alla loro espansione, non alla perpetuazione della loro esistenza. Finché l’amministrazione Obama non si dissocierà pubblicamente dalle posizioni di Clinton e Bush, dovremo presumere che concordi con loro e con Israele sul fatto che le grandi aree di insediamenti che circondano Gerusalemme e dividono in ghetti la West Bank debbano essere conservate in permanenza in qualunque “soluzione dei due stati”. Né Obama né Netanyahu hanno menzionato il muro illegale nella West Bank, sottintendendo che non vi sia alcuna controversia sulla sua collocazione e sulla sua esistenza. E adesso, entrambi concordano nel definire i rimanenti brandelli uno “stato palestinese”. Non c’è da stupirsi che l’amministrazione Obama abbia salutato il discorso di Netanyahu come “un grande passo avanti”.

Ciò che più infastidisce nella posizione espressa da Obama al Cairo – e da allora ripetuta in continuazione dal suo inviato in Medio Oriente, George Mitchell – è il fatto che gli Stati Uniti parlino di “legittima aspirazione palestinese alla dignità, alle opportunità e ad un proprio Stato”. Questa formula è studiata per apparire carica di significato, ma è in realtà un vago brusìo da campagna elettorale che non contiene alcun riferimento ai diritti inalienabili dei palestinesi. Sono parole scelte dagli scrittori di discorsi americani e dagli esperti di pubbliche relazioni, non dai palestinesi. La formula di Obama implica che qualunque altra aspirazione palestinese sia per definizione illegittima.

Dove, nel diritto internazionale o nelle risoluzioni dell’ONU, possono i palestinesi trovare le definizioni di “dignità” e di “opportunità”? Questi termini infinitamente duttili riducono scorrettamente tutta la storia palestinese ad una ricerca di vaghi sentimenti e di uno “stato” anziché ad una lotta per la liberazione, la giustizia, l’eguaglianza, il ritorno e il ripristino dei diritti usurpati. E’ facile, dopotutto, concepire uno stato che mantenga per sempre i palestinesi spossessati, dispersi, indifesi e sotto la minaccia di nuove espulsioni e nuovi massacri ad opera di un Israele espansionista e razzista.

Nel corso della storia non sono mai stati i capi a dare una definizione dei diritti, ma i popoli che per essi hanno lottato. Non è un risultato da poco che per un secolo i palestinesi abbiano resistito e siano sopravvissuti agli sforzi sionisti di distruggere fisicamente la loro collettività e di cancellarli dalle pagine della storia. Finché i palestinesi continueranno a resistere in ogni arena e con ogni mezzo legittimo, costruendo intorno a sé una vera solidarietà internazionale, i loro diritti non potranno mai essere soffocati. E’ su questa base di forza nativa e indipendente, non dalle promesse elusive di una grande potenza o dai favori di un occupante usurpatore, che sarà possibile ottenere giustizia e pace.


Versione originale 


Fonte:
http://electronicintifada.net
Link:
http://electronicintifada.net/v2/article10606.shtml

Traduzione acura di GIANLUCA FREDA