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Nulla sappiamo del «mondo esterno», mentre ci morde il cuore la nostalgia dell'Essere

di Francesco Lamendola - 22/06/2009


A volte ci capita di pensare a quella casa in Via Aonez, quartiere di Chiavris, all'estrema periferia nord-occidentale della nostra città natale: dove, tra le fronde dei platani e oltre le cime degli abeti, si stendeva lo spettacolo meraviglioso dell'anfiteatro alpino, ripido e severo sotto il cielo vasto di primavera.
Era la casa dove un gruppo di amici si trovavano, nella bella stagione, quasi ogni giorno, abbeverandosi del piacere di stare insieme; dove si parlava., si scherzava e si fantasticava; dove si confrontavano esperienze e si condividevano sogni; dove si facevano progetti, si organizzavano gite. Era il quartier generale da cui partivano forsennate spedizioni in bicicletta, nella verde campagna e tra i boschi annidati nelle pieghe delle colline: sempre in cerca di avventure, di torrenti nascosti tra il fogliame, di fabbriche abbandonate da esplorare, di vecchi edifici cadenti, abitati - forse - dai fantasmi; perfino di grotte e gallerie sotterranee, dalle volte  oscure e sgocciolanti d'acqua, che mettevano un delizioso brivido di paura al solo pensiero di penetrare al loro interno, nel buio…
Per noi, quella via tranquilla e fuori mano, dove passavano rarissime automobili; quella sedia a dondolo foderata di tela azzurra, nel giardino, che ha cigolato sotto il peso di  lunghi pomeriggi d'estate, mentre le voci gioiose di quattro o cinque ragazzini riempivano l'aria della loro risata argentina, non era soltanto un luogo fisico, ma anche e soprattutto un luogo dell'anima. Era il luogo dell'adolescenza; il luogo dell'amicizia; il luogo dei sogni ad occhi aperti; dove tutto, dentro e fuori, parlava un linguaggio arcano e misterioso, impregnato del sapore pungente di un mondo aurorale: il grande mondo che un ragazzino di dieci, undici anni, viene scoprendo, poco a poco, con stupore infinito e con una sorta di trepidazione.
Questi ricordi e queste riflessioni ci rimandano a una questione filosofica di notevole portata: che cos'è la realtà? Che cos'è il cosiddetto mondo esterno? È qualche cosa di oggettivo, di univoco, oppure è una realtà in perenne movimento, che dipende dalla mente che lo osserva, nonché dai diversi momenti in cui viene osservato?
Nessun dubbio che la vecchia, cara villetta di via Aonez, circondata dai biondi campi di grano che oggi, quasi certamente, hanno ceduto il posto a nuovi edifici e nuove strade sopraelevate, sul nostro animo giovanile produceva un effetto completamente diverso da quello che aveva, poniamo, su un residente, che vi era sempre vissuto; o su un uomo anziano, che non vedeva più il mondo con la freschezza della meraviglia e della scoperta; o, infine, che produrrebbe su noi stessi, se vi tornassimo oggi, a tanti anni di distanza, anche nel caso - improbabile - che quei luoghi siano cambiati di poco, e che quella villetta esista ancora, col medesimo aspetto con cui l'abbiamo gelosamente conservata nello scrigno della memoria.
Secondo una filosofia realista, le cose esterne esistono davvero; e il fatto che noi le percepiamo in modo diverso gli uni dagli altri, o rispetto a diversi momenti della nostra stessa esperienza, dimostrerebbe soltanto che noi non possiamo fare a meno di porci davanti ad esse con gli strumenti percettivi offerti dal nostro sistema nervoso centrale, che rielabora soggettivamente le impressioni comunicate al cervello dalla vista, dal tatto, dall'udito, eccetera.
Nessuno, però, è riuscito a confutare efficacemente Berkeley, il quale sottolineava la semplice, ma innegabile verità che tutto ciò che del mondo esterno noi conosciamo, lo conosciamo attraverso i nostri sensi, e, quindi, all'interno e non all'esterno della nostra mente. L'albero che noi vediamo, è l'albero che vedono nostri occhi e che si rappresenta la nostra mente: non è qualche cosa che esista fuori di noi, della quale nulla sappiamo e nulla potremmo sapere.
Certo, una forma moderata di realismo è disposta ad ammettere che le cose esterne esistono, anche se noi non possiamo conoscerle se non all'interno della nostra mente; ma anche questo realismo moderato, messo alle strette, deve poi riconoscere, con Kant, che le cose in se stesse, se pure sono qualcosa, sfuggono totalmente alla nostra possibilità di conoscenza. Infatti, noi dobbiamo accontentarci del loro apparire entro la nostra mente, ossia del fenomeno; e rinunciare a esprimere il benché minimo giudizio sulla loro essenza, ossia sul noumeno.
Oppure l'albero che vediamo, che tocchiamo, e il cui profumo di resina ci inebria le narici, è altra cosa dal nostro vederlo, dal nostro toccarlo, dal nostro annusarlo? No, non è altra cosa: esso è, in tutto e per tutto, questo nostro vederlo, toccarlo e annusarlo. Si esaurisce completamente nelle nostre percezioni; e, se c'è qualche cosa d'altro, che a noi sfugge - una qualche misteriosa essenza che ne fa un soggetto esistente in sé e per sé -, ebbene: di quell'altro albero «esterno» noi non sappiamo nulla, non possiamo dire nulla e mai saremo in grado di conoscere nulla.
A rigore, noi non avremmo alcun diritto di affermare che qui, davanti a noi, c'è un albero. Potremmo dire soltanto che i nostri occhi, le nostre mani, le nostre narici, bi attestano la presenza di una certa forma, di una certa durezza, di un certo profumo: tutte cose che sono dentro la mia mente, elaborate dalla mia mente. È stato un oggetto esterno a suggerircele? Impossibile dirlo: non esistono mezzi per dimostrarlo; così come è impossibile dire se, in nostra assenza, l'albero di cui parlavamo esiste ancora, oppure no.
Certo, le necessità della vita pratica suggeriscono l'utilità di una convenzione: che tutti credano di sì. Ma si tratta di una forma di realismo assai ingenua, perché la verità è che ciascuno, e specialmente colui il quale faccia professione di realismo, dovrebbe astenersi dal testimoniare su qualcosa che non sia in grado di garantire con grado di assoluta certezza, derivante dall'esperienza diretta e immediata delle cose.
Il mondo nozionale, fondato sulle idee astratte e sulle deduzioni derivanti dall'esperienza, è un mondo puramente ipotetico; o meglio, è puramente ipotetica la sua coincidenza con quel mondo fenomenico che noi siamo soliti chiamare «reale», anche se l'unica cosa reale, per noi, è il mondo delle rappresentazioni, che è dentro la mente e non fuori di essa.
Così, ad esempio, del nostro mondo nozionale fa parte il concetto di Polo Nord: posto che la Terra è un corpo celeste di forma sferica, un po' schiacciata ai Poli, e che la linea immaginaria passante per essi si chiama asse terrestre, noi «sappiamo» che deve esistere un punto matematico chiamato Polo Nord, posto agli antipodi di un altro punto matematico denominato Polo Sud, nel quale l'asse terrestre incontra la superficie della Terra. Possiamo poi recarci al centro dell'Artide e, mediante appositi strumenti, determinare il punto esatto in cui giace il Polo Nord: questo sarebbe il dato sensibile, che si colloca sul piano del mondo esperienziale. Però, tutto quello che l'esperienza ci può dire è che la bussola smette di indicare il Nord in un certo punto della calotta polare artica: i nostri occhi non possono dire altro, non possono testimoniare altro.
A questo punto, sembrerebbe che il piano della conoscenza riceva una conferma da quello dell'esperienza, e che i due piani, in effetti, coincidano. Tuttavia, anche se controllassimo l'esatta indicazione degli strumenti cento volte di seguito, ancora non saremmo in grado di affermare una cosa del genere: dovremmo limitarci a registrare una sovrapposizione empirica, fattuale, dei due piani. Ma tutto ciò che è empirico e fattuale, esprime solo e unicamente una verità contingente; non una verità assoluta, mai.
Inoltre, una verità empirica e fattuale può essere interpretata in molti modi. Dove gli altri vedono un certo colore, poniamo il rosso, il daltonico ne vede un altro, poniamo il verde; mentre, al buio, nessuno è più in grado di precisare il colore di un determinato oggetto.
Ma c'è di più.
Non solo le strutture sensibili delle cose esterne sono tutto ciò che a noi, menti finite, è dato percepire e conoscere; il che vuol dire che, dietro quelle strutture percepite, potrebbe anche esservi il nulla (qualcuno ha ipotizzato che tutto l'universo non sia altro che un immenso ologramma, ossia una specie di rappresentazione virtuale di un mondo che, in realtà, non esiste affatto).
C'è dell'altro: si può aggiungere che le stesse categorie della conoscenza, ossia le modalità attraverso le quali si organizzano le reti, estremamente complesse, che trasformano la percezione sensoriale in conoscenza di un determinato oggetto - e nelle quali entrano fattori quali l'affettività, la memoria, la creatività individuale -, le stesse categorie della conoscenza, dicevamo, sono parte di un sistema di valori che è proprio di ciascun soggetto pensante.
Un filosofo contemporaneo che ha particolarmente insistito su questo aspetto del problema, ossia sull'importanza dei nostri valori nella costruzione dell'immagine del mondo esterno, è stato Hilary Putnam, sostenitore di un «realismo interno», polemicamente contrapposto al «realismo metafisico», sul modello platonico.
Nel suo libro «Ragione, verità e storia» (titolo originale: «Reason, Truth and History», Cambridge University Press, 1981; traduzione italiana di A. N. Radicato di Brozolo, Milano, Il Saggiatore, 1985, pp. 146-47):

«Naturalmente, se avesse ragione il realismo metafisico e lo scopo della scienza si potesse considerare soltanto quello di far "combaciare" il nostro mondo nozionale con il mondo reale, allora si potrebbe sostenere che la coerenza, la comprensività, la semplicità funzionale e l'efficacia strumentale ci interessano semplicemente in quanto sono mezzi che servono allo scopo di perseguire quella corrispondenza: invece, il concetto stesso di quella corrispondenza trascendentale della nostra rappresentazione con il mondo reale non è altro che un nonsenso. Negare che vogliamo questo tipo di corrispondenza metafisica con il mondo noumenico non equivale affatto a negare che vogliamo l'usuale tipo di congruenza empirica con il mondo empirico (come la stabiliscono i nostri criteri di accettabilità razionale (e viceversa, ovviamente). Noi ci serviamo dei criteri di accettabilità razionale per costruire una raffigurazione del "mondo empirico" e poi, mano a man che si completala raffigurazione, rivediamo i criteri stessi che abbiamo per l'accettabilità razionale alla luce della raffigurazione, e così via all'infinito. In altri miei libri ho già posto l'accento sulla dipendenza dei nostri metodi dall'immagine che abbiamo del mondo. In questa sede voglio invece mettere in evidenza soprattutto l'altro aspetto di quella dipendenza, cioè la dipendenza del mondo empirico dai nostri criteri di accettabilità razionale. Intendo, insomma, far notare che per avere un mondo empirico dobbiamo in primo luogo avere criteri di accettabilità razionale e che questi rivelano parte della nostra nozione di intelligenza speculativa ottimale. Sostengo, in breve, che il "mondo reale" dipende dai nostri stessi valori (e, ancora una volta, viceversa).»

Queste osservazioni, che possiamo condividere in parte, ci forniscono alcuni spunti per tentare di delineare una sorta di mappa della cosiddetta «realtà».
Il mondo esterno dipende dai nostri valori: cioè, noi non possiamo non percepirlo attraverso il diaframma della nostra struttura assiologica, che funziona come un filtro per separare ciò che a nostro avviso è possibile, e quindi reale, da ciò che non lo è. Se qualcuno ci dicesse, ora, di aver incontrato per la strada un uomo con tre gambe (l'esempio è tratto da un intenso colloquio del romanzo di Graham Greene «The End of the Affair», noi, forse, rimarremmo turbati, almeno sul momento; ma se quel qualcuno soggiungesse, subito dopo, che erano coperte da scaglie di pesce, capiremmo all'istante che si trattava di uno scherzo, non per altra ragione che per l'incompatibilità di quella situazione con la nostra rappresentazione del mondo, e, più ancora, con i nostri criteri di accettabilità del reale: ciò che è una questione di valori, e non di fatti.
Quindi, la nostra concezione della realtà presuppone la razionalità: noi non possiamo concepire un mondo logicamente contraddittorio, ove siano vere cose opposte e inconciliabili. E non possiamo farlo non già per motivi logici (non si può dimostrare razionalmente la verità della ragione), ma perché facciamo istintivamente riferimento a un qualche sistema di valori. In questo caso, noi «sentiamo» che un mondo coerente e razionale è un bene in se stesso, mentre un mondo intrinsecamente contraddittorio e irrazionale, sarebbe un male.
Ricapitolando.
Esiste un mondo dei valori, cui tende ad adeguarsi il nostro mondo nozionale, e che si colloca al livello della razionalità; e si crede che vi sia un mondo empirico, un mondo dei fatti, che si colloca al livello dell'esperienza; benché l'esperienza, a guardar bene, non ci dica nulla sui fatti, ma descriva degli stati interni della nostra mente (forme, numeri, colori, odori, sapori, ecc.) e rifletta un insieme di criteri razionali e di valori del singolo soggetto pensante.
Che relazione esiste fra il mondo dei valori e il mondo nozionale, e fra quest'ultimo ed il mondo «reale» (nel senso di esterno e oggettivo?
La relazione fra il mondo dei valori e il mondo nozionale è una relazione di tipo logico (noi consideriamo vera una determinata cosa, in base a criteri di accettabilità razionale), ma anche di tipo trascendentale: noi, mediante un atto di fede, «vogliamo» credere che esista una verità al di là delle molteplici apparenze del mondo; e riconduciamo questo atto d fede all'idea del Bene, che diviene normativa per ogni altra cosa. Come abbiamo visto, infatti, noi giudichiamo buona - nel senso più ampio del termine - una cosa, una persona o una situazione, se riusciamo a scorgervi una coerenza interna e una razionalità; cattiva, se non vi riusciamo.
Ancora più in generale, noi giudichiamo un bene il fatto che le cose esistano, quindi l'essere; e un male il fatto che non esistano o che (apparentemente) cessino di esistere, quindi il non-essere. Perfino i pessimisti più radicali, come Leopardi e Schopenhauer, mentre denigrano l'essere e sostengono che l'unica cosa buona è il non essere, si servono di idee, parole, immagini, per esprimere tali concetti: si servono, dunque, dell'essere, di quell'essere che dicono consistere in un  male, ma che offre loro il bene del ragionamento e della comunicazione.
La relazione fra il mondo nozionale e il cosiddetto mondo reale, poi, è una relazione di secondo grado, un po' come nel mito platonico della caverna. Come abbiamo visto, i fatti non parlano da se stessi; anzi, non possiamo dire nemmeno che siano qualcosa al di fuori di noi: perché tutto quello che possiamo dire, riguarda la realtà della nostra percezione, della nostra mente, e - in ultima analisi - dei nostri valori.
Vi è una scala, tuttavia, che rende possibile una comunicazione tra il mondo di quelli che, per pura comodità, chiamiamo i «fatti», e quello dei valori: e i suoi gradini sono, in senso ascendente: l'idea della razionalità, l'idea della verità, l'idea del Bene.
Mediante l'idea della razionalità, noi operiamo, per così dire, una selezione fra le possibili, molteplici verità del mondo dei fatti, o, meglio, dei fenomeni, e separiamo ciò che è possibile, e quindi vero in senso forte, da ciò che non lo è. (Altro discorso è che noi siamo sovente troppo restrittivi nell'adoperare il criterio di accettabilità razionale, perché un pregiudizio razionalista ci porta a considerare possibile solo ciò che lo è in senso fisico: cosa, evidentemente, inadeguata a rendere conto della verità di tutta una serie di altri «fatti» o fenomeni, a cominciare da quelli dell'affettività e dell'immaginazione.)
Mediante l'idea della verità, noi ci innalziamo di livello, dalla dimensione del contingente verso quella dell'assoluto. Incominciamo a comprendere che le single verità parziali, confermate dall'accordo fra il giudizio dei sensi, quello della ragione e quello dei valori, non sono che menzogne, se non riusciamo a vederle così come esse sono realmente: fasci di luce che abbiamo gettato, qua e là, su alcuni lembi di un tutto unitario e meravigliosamente coeso, di un'unica verità totale, cosmica, il cui fulgore sarebbe per noi insostenibile, se potessimo vederla direttamente nella sua interezza.
Mediante l'idea del Bene, infine, noi facciamo felicemente ritorno a quel mondo dei valori dal quale eravamo partiti, dato che il mondo dei fenomeni, come si è visto, ci appare come ci appare non solo e non tanto in virtù di una percezione fisica o razionale, ma in virtù di una idea innata in ogni mente pensante: l'idea che l'essere è un bene, e che tutto ciò che promuove l'essere è un bene; e che non esistono «fatti» che non siano da noi percepiti attraverso la mediazione dei valori, da cui sono come permeati.
Putnam e altri filosofi pensano che si debba considerare superata questa teoria della conoscenza, perché presupporrebbe il punto di vista di Dio: un punto di vista, cioè, superiore ala cose e superiore al nostro orizzonte esperienziale, razionale e valoriale.
La logica conseguenza delle loro affermazioni è che vi sono numerose descrizioni «vere» del mondo, tutte egualmente legittime e giustificate; e che la verità non è altro che una sorta di idealizzazione dell'accettabilità razionale, dato che non è sempre una verità empirica (e quindi verificabile).
Noi non lo crediamo; ci sembra che il ragionamento di codesti «realisti interni» sia viziato dal fatto che le premesse sono maggiori delle conclusioni.
La premessa fondamentale è che la verità delle cose, non essendo determinabile sempre per via empirica, rimanda a una verità ideale (che solo per un puntiglio linguistico essi non osano chiamare «metafisica»).
La conseguenza sproporzionata che essi traggono, è che la verità deve essere, quindi, una costruzione più o meno arbitraria dei singoli soggetti, tutt'al più verificabile attraverso criteri razionali di giudizio, stabiliti rigorosamente in precedenza.
Esiste, invece, un'altra possibilità, più semplice sul piano logico, anche se richiede un notevole atto di umiltà da parte della logica stessa: che esista una verità in se stessa, la quale coincide con l'idea del Bene e con l'Essere con la iniziale maiuscola; che da questa verità noumenica traggano esistenza e consistenza tutte le verità parziali; che da essa, e solo da essa, noi abbiamo ricevuto questa spinta misteriosa che non ci dà tregua, e sempre ci sprona a cercare il vero, come l'assetato cerca l'acqua nel deserto e come il minatore, che emerge di notte dall'oscura galleria, cerca il fulgore stupendo del cielo stellato.
Si obietterà che avevamo negato, in precedenza, la possibilità, per noi menti finite, di conoscere il noumeno, la cosa in sé.
Qui, però, non si tratta della cosa in sé dei singoli enti, ma della Cosa in sé totale, ossia dell'Essere; e non si tratta di conoscerla, ma di ammetterne la necessità sia logica, sia etica. Logica, perché senza quel fondamento, qualunque forma di conoscenza risulterebbe impossibile; etica, perché senza di esso non avremmo che gruppi di valori eterogenei, in lotta perpetua fra loro, e il mondo sarebbe assurdo ed autocontraddittorio.
Ma il mondo esiste (se in senso «esterno» e fisico oppure no, questa è un'altra questione); e il solo fatto che esista dimostra che non è assurdo e autocontraddittorio: perché, se lo fosse, non potrebbe esistere; o, se potesse esistere, non potrebbe conservarsi.
Il mondo esiste, ed è un bene che esista; è un bene che noi esistiamo; è un bene che noi ci interroghiamo.
Noi, però, non potremmo porlo da soli, per il semplice fatto che non potremmo porre da soli neppure noi stessi. Noi abbiamo ricevuto l'esistenza, non ce la siamo data.
Al tempo stesso, avvertiamo dolorosamente la ferita del non-essere: vediamo che alle cose tutte, ed a noi per primi, manca qualcosa; e questa mancanza ci fa soffrire, e ci pungola continuamente ad andarne alla ricerca.
E che cosa ci manca - a noi che esistiamo, ma non ci siamo dati da noi stessi l'esistenza - se non l'essere, che dia pienezza, splendore e gioia al nostro esistere, talora così palesemente stentato e doloroso?
Ma se avvertiamo la ferita del non-essere, vuol dire che qualcosa ce la fa sentire: se non esistesse l'acqua, nessuno ne avrebbe sete; se non esistesse il cielo stellato, il minatore non uscirebbe con esultanza dalla buia caverna, nel cuore della notte.
Questa forza potente non è altri che l'Essere: fondamento del mondo, garanzia del nostro conoscere, testimone del nostro aspro cammino verso la verità.