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Uno sguardo verso il cielo

di Giuseppe Gorlani - 22/06/2009

 

"Uno sguardo verso il cielo, dove il sole è meraviglia": così cantavano le Orme agli inizi degli Anni '70, in un loro album intitolato "Collage". In quel periodo, benché l'industrializzazione stesse già marciando e inquinando tronfiamente, ancora si poteva elevare lo sguardo nell'azzurro e vedere il sole.
Oggi i tempi sono cambiati, in peggio. Se si alza lo sguardo, il più delle volte non si vede il sole, ma scie chimiche che attraversano il cielo in tutte le direzioni, deturpandolo con un velame grigiastro che si trasforma in nubi dalle forme e dai colori strani. Non sono un metereologo, ma non credo sia necessario possedere una preparazione specifica per dedurre, sulla base dell'osservazione quotidiana, che qualcosa di non buono e di non naturale sta accadendo sopra le nostre teste.
Basta fermarsi a riflettere un attimo per chiedersi: ma che cosa ci fanno tutti quegli aerei nell'aria? Pochi giorni fa, in una sola mattina, ne ho contati una trentina che rilasciavano scie da un orrizzonte all'altro. Ed è evidente che sono tali scie, dilatantesi in una cortina biancastra, ad offuscare il cielo. Fonti documentate sostengono che gli aerei da cui fuoriescono non sono di linea, né dell'Aeronautica Militare italiana. Ma allora a chi appartengono? Chi li fa volare e con quali scopi? E ancora - interrogativo inquietante -, le scie chimiche che cosa sono, che cosa contengono?
In Internet circola una massa enorme di informazioni su questo tema, tutte - vere o false che siano - allarmanti. In un'intervista di alcuni mesi fa al generale in pensione Fabio Mini, questi, dopo aver ammesso che da molti anni la Nato sta portando avanti una ricerca sulla modificazione del clima, chiede retoricamente al giornalista: "Ma lei non penserà che l'uomo sia buono?".
Abbiamo sempre saputo che l'uomo del Kali-yuga non è particolarmente buono, né tantomeno giusto, ma a questo punto c'è da chiedersi se gli sia rimasto almeno un briciolo di intelligenza, nel suo significato etimologico di inter leger o di intus legere, ossia di saper cogliere i nessi esistenti fra i vari momenti dell'esperienza, oppure di saper penetrare nel significato essenziale delle cose. Tutta questa smania di costruire armi sempre più terribili e incontrollabili, di divorare a velocità folle il poco verde rimasto, di appiattire le diversità tra i popoli entro modelli di astratta e ipocrita "democrazia", di controllare il clima e ogni filo d'erba, ogni voce, ogni pensiero, di ridurre la natura a oggetto di consumo rivela un'enorme stupidità, poiché non potrà che portare a conseguenze viepiù disastrose. Non si tratta di catastrofismo fantascientifico, bensì di uso impersonale della ragione. Dal seme di grano viene il grano; dalla cecità e dall'avidità egoistiche, sradicate da ogni anamnesi metafisica - ma anche, più semplicemente, da ogni ragionevolezza -, viene la sciagura.
Nel Bhagavata Purana si legge: "Quando regnano l'inganno, la menzogna, l'inerzia, il sonno, la malvagità, la costernazione, la pena, il turbamento, la tristezza: questa si chiama Età Kali, esclusivamente tenebrosa. Durante questo periodo gli uomini hanno l'intelligenza limitata".
Parlando della mancanza di intelligenza dell'"uomo dell'Era Oscura" non ci si riferisce soltanto alle élite che detengono le leve del potere politico-economico, ma all'uomo in generale, il cui livello di consapevolezza, di anelito alla verità o alla conoscenza di sé, di rispetto per l'ambiente-vita (con il quale è un tutt'uno) è arrivato ad un minimo spaventoso. Prendersela esclusivamente con i governanti, per quanto corrotti o meschini possano realmente essere, è pertanto un luogo comune insignificante, poiché essi esprimono in modo paradigmatico lo stato di coscienza collettivo.
Forse che all'uomo ordinario, compresso entro gli angusti spazi del lavoro automatico, al servizio della Macchina, e della fruizione di piaceri ormai quasi tutti "virtuali", viene mai il pensiero di alzare lo sguardo al cielo? Certo che no. Del resto, se l'uomo moderno guarda la volta celeste in essa vede soltanto una "cosa", separata da sé, tra mille altre; così egli vive imprigionato in una rete di oggetti, dedito esclusivamente al produrre, al consumare, al divorare, all'inquinare, senza rendersi conto che in questo modo si sta scavando il terreno sotto i piedi, votandosi all'annichilimento. Tutto ciò che non è produzione, consumo o mercato per lui è inutile, anormale, persino irreale.
Appuro ciò quasi ogni giorno, camminando tra le colline. Oltre a me, i pochi (eppure troppi) che frequentano questi posti sono tartufai, cacciatori, contadini e operai addetti a riparare linee elettriche, telefoniche o acquedotti; ebbene, salvo rare eccezioni, la maggior parte di costoro (tutte "brave" persone, intendiamoci) si inoltrano nella natura con merendine, gomme da masticare, sigarette, bibite, ecc., gettandone poi quel che resta dove gli capita. Per non dire degli autoctoni che nei greppi a lato delle stradine bianche scaricano ogni specie di rifiuti: televisori, lavatrici e plastica, tanta plastica. Mi domando in che modo questa gente intenda la natura. Dicono nominalmente di amare la loro terra, ma in realtà vogliono soltanto possederla. E se loro stessi non custodiscono con cura la terra in cui sono nati, che genere di governanti si meritano? Ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso, afferma l'ermetismo; parimenti, ciò che sta fuori è come ciò che sta dentro. In tale prospettiva, i governanti venali e ciechi e l'ambiente trasformato in pattumiera non possono che riflettere lo stato interiore della maggioranza inerte.
Così gli uomini trascorrono le proprie esistenze senza mai contemplare il firmamento, le colline o il mare. Contemplare significa assorbire, rivelare in sé, abbattere la barriera tra esterno ed interno, tra passato, presente e futuro. Se si abbandonasse il cieco fare, privilegiando il contemplare, sicuramente una luce filtrerebbe nell'intimo e un raggio di intelligenza-amore si farebbe strada nel Cuore, centro dell'ente, consentendogli di tornare a guardare il cielo. Allora ci si renderebbe conto delle scie orribili e dei fumi tossici che lo deturpano e si smetterebbe di sostenere i "sepolcri imbiancati", da noi stessi votati, che si compiacciono di violentare la vita e i princìpi che la sostengono.
Ho iniziato queste riflessioni con una citazione musicale. Mi avvierò alla conclusione con un'altra citazione musicale per me significativa. Negli anni in cui alcuni giovani sapevano ancora celebrare la bellezza, i Dulcimer, nel loro capolavoro And I Turned As I had Turned As A boy, cantavano: "I travelled many roads and I wandered many trails…". Anch'io ho percorso molte strade e vagabondato per molti sentieri, ma, in tutta sincerità, non ho trovato verità più salda della venerazione per la bellezza. La terra, per quanto in certe sue sembianze appaia spietata e tremenda, è sempre bella, ma il mondo moderno è orribile, poiché assolutizza il relativo ed esalta freneticamente il brutto. Ricordare, pregiare la bellezza viva della Natura - all'interno della quale noi rappresentiamo l'autoconsapevolezza atemporale e sintetica dell'Essere - e dell'Arte che ad essa si ispira, trasfigurandola, significa sottrarre forza alle barbarie. La tradizione sapienziale atemporale non insegna a separare irrimediabilmente la Natura dallo Spirito, ma sottolinea come i due aspetti manifesto e immanifesto dell'Essere siano sostanzialmente indivisibili. La ragione pertanto non va rifiutata, ma impiegata al meglio, purché non si pretenda di penetrare con essa l'assoluta e indicibile Presenza. In altre parole, esaurita la fase dialettica, connaturata all'uso della ragione, è indispensabile pervenire al nucleo ineffabile di se stessi, dove la dualità si risolve nella non dualità.
Solo dopo aver riconosciuto l'inferno per quello che è - la proiezione mentale di un uomo in continuo dissidio con se stesso - potremo con Dante cantare:  "… salimmo su, el primo e io secondo, / tanto ch'ì' vidi delle cose belle / che porta'l ciel, per un pertugio tondo; / e quindi uscimmo a riveder le stelle" (Purgatorio, XXXIV.134-139).