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Vince l'astensione "per scelta"

di Renato Mannheimer - 23/06/2009

 

Il 61% di votanti alle comunali. Il 46% (meno della maggioranza assoluta) alle provinciali. Addirittura 23-24% al referendum. Al di là dei risultati in questo o in quel comune o provincia, il dato più significativo di queste consultazioni è stato l’ulteriore incremento delle astensioni. L’imponente diserzione dalle urne può essere definita come il più importante fenomeno politico di massa registrato negli ultimi tempi.

Un elettore si può astenere per una pluralità di motivi. C’è chi, per problemi fisici o perché residente all’estero è in ogni caso impedito a recarsi alle urne. Si tratta del cosiddetto astensionismo «necessario», presente in ogni elezione. Ci sono molteplici stime sulla sua ampiezza, ma la maggior parte degli studiosi concorda su circa il 10% dell’elettorato. C’è poi l’astensionismo «per forza maggiore», legato a impedimenti temporanei: una malattia, un incidente, ecc.: con tutta probabilità esso si aggira al massimo sul 2-3%. Tutte le restanti assenze dalle urne sono classificabili come astensionismo «per scelta». Dipendente cioè da una decisione consapevole dell’elettore.

È ragionevole pensare che l’incidenza delle astensioni «necessarie» o «per forza maggiore» sia grossomodo sempre la stessa nelle diverse consultazioni. Di conseguenza, ciò che spiega il grande incremento dell’astensionismo in questi ultimi anni è la progressiva diffusione delle astensioni «per scelta». Queste ultime sono dovute sia alla costante erosione (o, nelle nuove generazioni, addirittura all’assenza) delle identità e delle appartenenze politiche tradizionali, sia specialmente all’ampliarsi del distacco degli italiani dalla politica. Non è certo un caso se, domandando a un campione rappresentativo degli elettori qual è «la prima cosa che le viene in mente parlando di politica », la risposta prevalente, data da quasi un quarto, sia «disgusto». Con un incremento di questo atteggiamento negli ultimi anni. E la risposta successiva, data da un altro 22% è «rabbia».

In queste consultazioni amministrative c’è, tuttavia, un’ulteriore, rapida e forte accentuazione del fenomeno. Alle provinciali, tra il primo e il secondo turno si sono recati a votare addirittura il 23% di elettori in meno. Alle comunali la differenza è stata del 15%.

Queste ultime hanno visto un’affluenza maggiore, data la più accentuata «vicinanza» del comune alle problematiche quotidiane dell’elettore. Mentre le provinciali hanno registrato l’assenza della maggioranza assoluta dei cittadini e la diserzione, tra il primo e il secondo turno, di quasi un quarto, anche a testimonianza, forse, di una perplessità, peraltro più volte espressa, sul ruolo e l'utilità di questa istituzione.

La rilevante differenza nella partecipazione tra il primo e il secondo turno va naturalmente anche interpretata con la difficoltà per l’elettore italiano di scegliere un candidato che non è «il proprio». Diversi votanti per i partiti esclusi al primo turno non se la sono sentita di scegliere, al secondo, quello che consideravano solo il «meno peggio».

Ma, anche in questo caso, la maggior parte delle astensioni dipende da un ulteriore distacco dalla vita politica avvenuto proprio negli ultimi tempi. Spiegato, per gli elettori del centrodestra, anche dall’appannamento, accentuatosi proprio in queste settimane, della figura del Cavaliere. E per quelli del centrosinistra dal disagio dovuto alla conflittualità crescente tra i partiti e, specialmente, tra i leader di quest’area.

Anche la bassissima affluenza al referendum rientra in questo quadro esplicativo. La presenza di solo meno di un quarto degli aventi diritto non dipende solo dai quesiti «troppo tecnici » (anche se erano davvero difficili da interpretare e le schede, così complesse, accrescevano la confusione) né dal mero effetto dell’invito di astenersi da parte della Lega. Il fatto è che le tematiche proposte e l’intero mondo della politica appaiono ai cittadini italiani sempre più lontani. E sempre più privi di interesse.