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Perché Hitler odiava gli Ebrei? Quattro passi nel delirio di una pseudoscienza: la sociopsicanalisi

di Francesco Lamendola - 24/06/2009


Hitler odiava gli Ebrei perché odiava suo padre e desiderava, e temeva al tempo stesso, di essere trattato da lui come una donna? Perché invidiava il suo pene e desiderava appropriarsene, per poter possedere il fantasma della madre?
Detta così, potrebbe sembrare una semplice battuta di spirito; e neanche tanto spiritosa, per dire la verità. Eppure, per i santoni della psicanalisi, la storia del mondo può essere spiegata precisamente in questo modo: non c'è guerra, rivoluzione o genocidio che non si possa spiegare, in misura determinante, con il complesso di Edipo e con le nevrosi pregenitali di questo o quel personaggio, con il suo timore della castrazione, con le sue pulsioni incestuose verso la madre, con la sua omosessualità latente, con il suo incoercibile bisogno di rivalsa, con i suoi sostituti fantasmatici dell'imago paterna quali oggetti da odiare, combattere e, possibilmente, distruggere. Insomma, tutto il classico armamentario della psicanalisi freudiana, con ipotesi e teorie, più o meno bizzarre, più o meno sforzate, a prendere bellamente il posto dei fatti e delle cose.
È chiaro che l'antisemitismo di Hitler non può non costituire un richiamo quasi irresistibile per i seguaci di una dottrina come la psicanalisi, che pretende di spiegare tutto sulla base di pulsioni inconfessabili, che lei sola ha la chiave per decifrare e portare alla luce del sole.
Il dittatore tedesco, infatti, si presenta come un caso paradigmatico di quella «rivolta contro il padre» che, per Freud, sarebbe all'origine della civiltà, ma anche della nevrosi; e, dato che Freud era ebreo, l'antisemitismo di Hitler si presta ad essere letto come una rivolta contro la rivolta, ossia come una reazione «difensiva» - s'intende, in senso schizoide - contro il padre opprimente e castratore, simboleggiato dalla razza giudaica.
Un supporto a tale interpretazione è dato dal fatto che Hitler, fino all'ultimo, sostenne che la sua lotta contro gli Ebrei era stata una lotta difensiva; che erano essi, e non lui, gli aggressori: tanto è vero che la «soluzione finale» vera e propria ebbe inizio solo dopo il fallimento della campagna invernale contro l'Unione Sovietica, culminato nella battaglia di Mosca del dicembre 1941, quando ogni risorsa umana e industriale avrebbe dovuto essere, semmai, concentrata nella guerra contro i nemici esterni e non contro una minoranza interna ormai inerme.
A tale scuola interpretativa appartiene Gérard Mendel (1930-2204), inventore niente di meno che di una nuova pretesa scienza: la sociopsicanalisi, che si propone, appunto, di interpretare e, in sostanza, di spiegare la storia, proprio sulle fondamenta del credo freudiano.
Forse anche per il trauma vissuto nella prima adolescenza, allorché - nel 1942 - i poliziotti francesi, che pure lo conoscevano bene, vennero ad arrestare suo padre, un ebreo - Mendel ha concentrato i suoi studi sul fenomeno dell'antisemitismo  e ha mostrato di considerare quest'ultimo come una forma di delirio da castrazione e come una rivolta edipica nel più classico senso freudiano; senza accorgersi che le sue argomentazioni e la sua stessa impostazione - come, del resto, quella del suo maestro viennese - presenta essa stessa forti connotazioni deliranti, nella sua roboante ma inconsistente pretesa di scientificità.

Ha scritto Gérard Mendel nel suo voluminoso saggio «La rivolta contro il padre» (titolo originale: «La révolte contre le père», Paris, Payot, 1968; traduzione italiana di Rosanna Pelà, Firenze, Vallecchi Editore, 1973, pp. 227-241 passim):

«L’autore del “Mein Kampf” non è sempre stato antisemita:
“A Linz c’erano pochi ebrei. Nel corso dei secoli il loro aspetto si era europeizzato, si era fatto umano; li consideravo perfino come dei tedeschi. L’ingenuità di una simile opinione non mi appariva chiara, dacché fino allora io non vedevo la loro diversità che appunto nella loro diversa confessione. E che essi fossero stati perseguitati a cagione di questa, come lo credevo, faceva sì che provavo fastidio di fronte a espressioni offensive nei loro riguardi. […] Perciò il tono della stampa antisemita di Vienna mi pareva indegno della cultura di un grande popolo. Pesava su di me il ricordo di certe situazioni del Medio Evo, che non avrei voluto si rinnovassero al dì d’oggi.” [M. L., pp. 55-56].
È opportuno tuttavia rilevare la tonalità affettiva e quasi passionale che caratterizza fin d’ora l’opinione di Hitler sulla questione ebraica: le intenzioni antisemitiche lo riempiono di “fastidio”, gli “pesa” il ricordo delle persecuzioni medioevali.
Come abbiamo dimostrato, fin da giovanissimo Hitler era già colmo di intensa aggressività. Un carattere paranoico non nasce dal nulla. Si può pensare che queste pulsioni aggressive, per la loro stessa intensità, fossero sentite come pericolose, per il rischio che sfuggissero al controllo dell’Io. In questo periodo a Hitler fa orrore, dà ossessione, proprio la sua stessa aggressività, se non contro gli ebrei almeno contro certi oggetti. Aggressività contro chi? Tutti gli elementi permettono di arguire che essa  - almeno su un piano inconscio – era diretta contro il padre, dato che il conflitto edipico con lui si era protratto in forma acuta ben oltre l’età abituale. A poto o dieci anni, capobanda di ragazzi indisciplinati, Hitler, marinando la scuola, si oppone al padre funzionario, difensore dell’ordine costituito […]
A quel tempo la lotta col padre non è ancora diventata aperta e violenta. Una certa sistemazione del conflitto edipico permette qualche possibilità di identificazione con l’immagine paterna.
In particolare il filosemitismo del giovane Hitler ci sembra uno di questi elementi di identificazione nella misura in cui il padre riprovava ogni antisemitismo. È d’altra parte interessante notare che quando la parola “ebreo” compare per la prima volta in “Mein Kampf”, è associata all’immagine paterna. […]
In un’epoca in cui la rivalità edipica è forte ma non ancora esasperata, il ragazzo di nome Adolfd Hitler ha potuto dunque identificarsi con suo padre su un certo numero di punti. Ma questa identificazione rimane precaria, minacciata dall’aggressività latente. La tonalità affettiva dell’opinione del figlio sulla questione ebraica (l’orrore per i propositi antisemiti, l’ossessione per le antiche persecuzioni) riflette l’imminenza delle pulsioni aggressive: tramite l’orrore e l’ossessione, che sono formazioni razionali, Hitler mobilita le difese contro un possibile rovesciamento della propria opinione. Anche su molti altri punti che riguardano l’identificazione col padre si è potuto produrre lo stesso fenomeno, ma evidentemente non ne è rimasta traccia. Hitler ha paura che l’odio verso il padre superi l’amore. I propositi formulati, che sono in contrasto con le idee di suo padre, risvegliano e rafforzano in lui l’odio contro il padre. Quando una cosa fa orrore oppure ossessiona, vuol dire che per essa c’è una forte attrazione, contro la quale l’Io si difende.
L’antisemitismo di Hitler si affermò nel corso della grande crisi interiore da lui attraversata al tempo della morte del padre, della malattia della madre, dell’insuccesso alle Belle Arti, ma in una maniera che gli sembra “penosa”:
“La più grave di siffatte evoluzioni fu naturalmente il cambiamento che subirono nel corso del tempo, le mie idee a proposito dell’antisemitismo.
Essa mi costò i più duri conflitti interiori: e fu solo dopo una lunga lotta tra ragione e sentimento che vinse in me il partito della ragione. Due anni più tardi anche il sentimento seguì la ragione, per diventarne da allora il guardiano più fedele. […]
E ritornavo al punto di partenza, per settimane, a volte per mesi.
La cosa mi sembrava così enorme, le accuse così smisurate, che io, tormentato dalla paura di commettere un’ingiustizia, tornavo pavido e malsicuro. […]
Era giunto così, per me, il tempo del mio grande rivolgimento, come non ne avevo ancora subito nel mio intimo.
Da placido cosmopolita, era divenuto un fanatico antisemita.
E una sola volta ancora, ma fu l’ultima, pensieri paurosi mi aduggiarono in un’atmosfera di profonda depressione.
Mentre studiavo l’attività del popolo ebraico in lunghi periodi della storia umana, mi si levò dentro la pavida domanda, se l’imperscrutabile destino non avesse deciso la vittoria finale di questo piccolo popolo; e ciò per motivi che sfuggivano a noi piccoli uomini.” [M. L., p. 69].
La risposta che Hitler si dà è che
“la dottrina semita del marxismo rifiuta il principio aristocratico della natura, e pone al posto dell’eterno diritto della forza e della potenza il numero, col suo morto peso.”
Violando l’ordine della natura, la vittoria ebraica porterebbe alla scomparsa degli uomini dalla faccia della terra, perché
“L’eterna natura si vendica spietatamente di ogni trasgressione alle sue leggi”. [M.L., p. 70]
Questa lunga citazione mostra quanto divenisse cruciale per Hitler la questione ebraica, in una fase particolarmente critica della sua evoluzione psichica. Il lungo e tormentoso travaglio, di cui si parla nel brano citato, si spiega, a nostro avviso, con l’abbandono delle antiche posizioni nei confronti dell’immagine paterna e l’adozione di nuove difese. […]
Hitler si sente inconsciamente responsabile della morte improvvisa del padre, sopravvenuta nel pieno conflitto dichiarato fra padre e figlio, sorto a propositi della sua vocazione di pittore.
L’immagine del padre vendicatore viene interiorizzata.
La malattia e poi la morte della madre (che dopo la morte del padre era diventata l’alleata del figlio nel progetto di lui di fare il pittore) sono vissute come una vendetta sadica del padre.
Hitler viene a trovarsi allora alle prese con le immagini di un padre sadico e di una madre vendicatrice (vendicatrice nei confronti del figlio responsabile della sua morte),. La sua posizione è regressiva; egli ha di fronte i fantasmi più arcaici della madre divoratrice e distruttrice.
In questa situazione da suicidio, si scatena il seguente meccanismo difensivo: da una parte l’immagine materna pericolosa è investita nell’immagine paterna; il parziale disinvestimento dell’immagine materna sembra permettere un cambiamento di senso nell’aggressività materna, che non si dirige più contro il figlio, ma contro il padre. La madre vendicatrice ridiventa alleata del figlio nella lotta senza quartiere, e quasi senza speranza, contro il padre (che nella realtà per Hitler ha già avuto la meglio).
Castrare il padre, poi annientarlo; questo fine irraggiungibile formerà il nucleo delirante del sistema difensivo di Hitler: castrare e annientare il padre significherebbe negare la realtà, risuscitare la madre (ossia: risuscitare la razza ariana delle origini; mutare in vittoria la disfatta subita dalla madre-patria nel 1918; assicurare il trionfo della natura sulla razionalità umana.
Questa interpretazione ci sembra costantemente convalidata dal testo, nonché dal susseguirsi degli avvenimenti storici.
Vorremmo ora, per rafforzare le nostre argomentazioni, mostrare - verificare - sul testo ciò che traspare dell’immagine paterna nel fantasma hitleriano relativo all’ebreo.
Esaminiamo uno dopo l’altro gli elementi di questo fantasma:
1. L’ebreo è il “grande”, il padre, e Hitler – come la “razza ariana” con la quale egli si identifica - rimane il “piccolo”, il figlio.
Se infatti nel corso dei secoli la razza ariana ha operato mescolanze di sangue che l’hanno imbastardita - contaminazione che potrà essere riparata solo applicando rigorosi criteri di selezione - la “razza” ebraica ha mantenuto puro, invece, il proprio sangue:
“Ma la razza non consiste nella lingua, bensì nel sangue; cosa questa che nessuno sa meglio dell’ebreo, che se non accentua la conservazione del proprio linguaggio, si sforza in tutti i modi di preservare puro il proprio sangue”. [M. L., p. 339]
La semplice lettura di “Mein Kampf” mostra con chiarezza come, sotto le minacce e gli insulti rivolti da Hitler agli ebrei, si celi un sentimento che, per quanto paradossale possa apparire, è l’ammirazione:
“Dove è il popolo che negli ultimi 2.000 anni ha subito meno cambiamenti delle sue caratteristiche profonde, del suo carattere, e così via? Quale popolo è passato per più terribili vicende – e ne èè uscito sempre identico a se stesso? Quale ostinato e infinito esempio di volontà di vita e di conservazione della specie non sorge da simili fatti!
Le qualità intellettuali dell’ebreo sono venute mutandosi nel corso dei millenni.” [M. L., p. 326]
E ancora:
“Carlo Marx in realtà fu solo uno tra milioni che, nel pantano d’un mondo in putrefazione, riconobbe col sicuro sguardo del profeta i veleni essenziali, e li estrasse, per concentrarli, come un negromante, in una soluzione destinata ad annientare in fretta l’esistenza indipendente di libere nazioni sulla Terra.
Ma tutto ciò egli fece al servizio della sua razza.” [M. K., p. 15]
Sentimento di ammirazione che diventa facilmente comprensibile in base all’ipotesi che a quest’epoca (e fino alla sua morte) l’”ebreo” rappresenti per lui il padre. Anzi, proprio quel padre che - così sente Hitler - ha già vinto definitivamente la battaglia contro il figlio. L’ideologia hitleriana è una mera alternativa temporanea al suicidio, un tentativo delirante di negare ciò che lui, soggettivamente,  ha vissuto, la vittoria su di un padre sadico sul figlio e sulla madre alleata del figlio, la vendetta del padre contro l’incesto simbolicamente consumato.
All’inizio - vale sa dire all’inizio della battaglia politica di Hitler - in questo delirio difensivo (diga per arginare il suicidio) l’ebreo è il “grande”, colui che avendo mantenuta pura la propria razza è rimasto forte, potente, e Hitler - la razza ariana - il “piccolo”, dal sangue contaminato. Ma, applicando norme rigorose, avrà luogo il combattimento decisivo, come tra due campioni, e alla fine l’ebreo sarà definitivamente eliminato.
“Senza saperlo, il mondo borghese era già inficiato dallo spirito letale del mondo marxista. […] Uno solo seppe combattere, durante tutti questi lunghi anni, con magnifica ostinazione: l’ebreo. La sua stella saliva all’orizzonte, quanto più calava la volontà di conservazione del nostro popolo.” [M- L., p. 356]
In questo fantasma difensivo, quando il figlio sarà cresciuto, portando le armi della madre - la svastica - s’opporrà in singolar tenzone a quest’altro campione, cresciuto assai prima di lui e che porta la stella di David: il padre.
“Con gli ebrei non c’è modo alcuno di patteggiare; ma soltanto un durissimo sì o no”. [M. L., p. 223]
2. Non solo l’ebreo è il “grande”, ma è - proiezione del conflitto edipico col padre - il rivale che s’incontra dovunque-
Egli è:
a. il seduttore della donna, ossia il rivale in rapporto alla madre (M-L., pp. 352-53);
b. il vero nemico durante la Grande Guerra (M. L., pp. 354-55);
c. il rivale in rapporto alle masse popolari (M. L., pp. 363);
d. colui che, come lo stesso Hitler, mira al dominio universale (M. L., p. 339);
e. infine è colui che, secondo Hitler, ha un posto importante in tutti i possibili campi di attività: arte (M. L., p. 62), stampa, parlamento (M. L., p. 343).
Chi esprime ammirazione per l’altro, chi esprime riconoscimento della potenza o della superiorità dell’altro, esprime anche il desiderio più o meno cosciente, più o meno gravato di senso di colpa, di diventare simile a lui, di identificarsi con lui. Questa identificazione è correlativa alla captazione fantasmatica, inconscia, del fallo dell’altro. Tale captazione aggressiva è possibile solo se la paura dell’altro - cioè il rapporto di aggressività verso di lui in un secondo tempo interiorizzato e mutato di segno, dato che l’aggredito diventa aggressore - non raggiunge un’intensità esagerata. Se invece è così, il fallo rubato diventa oggetto tossico, pericoloso, distruttore.
La battaglia che Hitler sostiene è una lotta contro il suo desiderio di identificarsi col padre, con l’ebreo. […]
La posizione è contemporaneamente pregenitale e edipica, insuperabile, invalicabile.
La “battaglia” che dà il titolo al libro (“Mein Kampf”) è una lotta contro questo desiderio di essere trattato da donna dal padre, dall’ebreo. L’annientamento del padre, dell’ebreo, equivarrebbe all’estinzione del desiderio… o perlomeno, finché la lotta prosegue, si conserva una particella di vita, il massiccio rimbalzo dell’aggressività sull’Io viene rinviato, viene differito il suicidio.
Un’immagine di cui lo stesso Hitler si serve conferma la sua posizione disperata e delirante nel tentativo di dare una soluzione finale al conflitto edipico (così che non ci sia più padre né ricordo interiore del padre, sotto forma di imago o di Super-io):
“Un malato di cancro, che in caso diverso è sicuro di morire, non ha bisogno del cinquantun per cento di probabilità di successo per osare un’operazione. Se questa promette la guarigione con solo mezzo per cento di probabilità, un uomo saggio la tenterà; in caso diverso non deve gemere perché muore.” [M. K., p. 60]
4.  In questa lotta condotta in nome della vita contro la ragione, Hitler ha un fantasmatico alleato: la natura, la crudele, spietata, impassibile.
Conquistare le masse è possibile, poiché esse sono vissute da lui come una parte, ben poco autonoma, della natura:
“Le grandi masse sono in realtà un pezzo di natura” (M. L., p. 367). […]
La nostra tesi, secondo cui la battaglia di Hitler contro gli ebrei da lui perseguita adombra un’altra battaglia, quella contro il padre, ci pare solidamente fondata sugli argomenti da noi presentati. “L’ebreo - così come egli lo chiama costantemente, assommando milioni d’individui in una persona sola - era, nell’inconscio di Hitler, suo padre.»

La citazione è piuttosto lunga, ma era necessaria per dare al lettore un'idea della metodologia e della prospettiva seguita da Mendel.
Dietro una patina di sapore accademico e una terminologia di tipo scientifico, si accavallano l'uno sull'altro castelli in aria, fatti di illazioni opinabili, di discutibili accostamenti, di deduzioni quanto mai azzardate e improbabili. Si dà per scontato praticamente tutto quel che sarebbe necessario dimostrare preliminarmente: dal complesso di castrazione a quello di Edipo, dall'odio verso il padre all'invidia del suo fallo: una montagna di concetti cervellotici, di elucubrazioni arrischiate, di labili supposizioni travestite da monolitiche certezze.
Ma seguiamo per ordine le argomentazioni di Mendel.
Egli si vanta di appoggiare le proprie deduzioni ai testi di Hitler medesimo: «Mein Kampf» e «Mein Leben»; però la lettura che ne fa è sistematicamente pregiudiziale, come di chi abbia deciso di trovarvi, fin dall'inizio, quei determinati contenuti e non altri.
Ad esempio, Mendel cita il passo de «La mia vita» in cui Hitler racconta dei suoi sentimenti giovanili verso la questione ebraica, sentimenti tutt'altro che ostili, anzi, ostili all'antisemitismo; e di come dovette lottare duramente contro se stesso per arrivare a convincersi della realtà del «complotto giudaico» e del fatto che gli Ebrei costituissero un reale pericolo per la Germania e per il resto del mondo.
Tuttavia, e pur ammettendo che Hitler «non è sempre stato un antisemita», Mendel non si cura nemmeno per un istante di valutare la possibilità che le parole di Hitler siano sincere, oppure che rispecchino un atteggiamento psicologico razionale, per quanto disdicevole o confutabile; per lui è scontato che le accuse rivolte agli Ebrei non solo da Hitler, ma da milioni di persone, in Germania e fuori, non avevano altra base che la malvagità pura, e, senza dubbio, un groviglio di complessi edipici irrisolti da parte di persone dall'infanzia infelice, caratterizzata da una presenza paterna opprimente.
Dopo aver osservato che «un carattere paranoico non nasce dal nulla» (di nuovo, postulando ciò che dovrebbe dimostrare), Mendel riconosce nell'uso di parole come «orrore» e «ossessione» del giovane Hitler, allora filosemita, le premesse del suo futuro antisemitismo, con l'argomentazione tipicamente psicanalitica che, quando si adoperano espressioni fortemente passionali, vuol dire che si è segretamente attirati da ciò che il Super-io respinge: in questo caso, le tesi e gli atteggiamenti degli antisemiti.
È quasi inutile ricordare, a questo proposito, la pertinente critica di Popper al marxismo, che qui è possibile trasferire alla psicanalisi: se l'Inconscio desidera sempre il contrario di ciò che vuole l'Io, e che il Super-Io giudica accettabile, e se tutto quello che da esso emerge può essergli rivolto contro come un guanto rovesciato, allora è impossibile falsificare la psicanalisi; il che è tipico dei sistemi antiscientifici.
Poi Mendel riporta un ricordo dell'adolescenza di Hitler, allorché marinava la scuola con alcuni compagni; e, naturalmente, ne fa una «prova» dei suoi sentimenti di ribellione e di odio represso contro il padre (che, si badi, era tollerante verso gli Ebrei e favorevole al cosmopolitismo). Se questa interpretazione fosse giusta, allora bisognerebbe dedurne che praticamente tutti gli esseri umani sono stati segnati dalla rivolta e dall'odio nei confronti del proprio padre, dato che è ben difficile trovarne qualcuno che non abbia mai marinato la scuola: e, in effetti, questa è proprio l'idea centrale di Freud, che l'ha spinta alle estreme conseguenze, oltrepassando del tutto l'ambito della psicologia e sostenendo che tutte le religioni nascono dal senso di colpa verso la figura del padre che si vorrebbe uccidere, anzi, che l'«orda primitiva» (altro concetto meramente mitologico) ha ucciso, per poi divinizzarlo.
Ma qui si sta parlando di Hitler: e Hitler, si sa, era un individuo capace di qualsiasi cosa; dunque, doveva essere un bambino, e poi un adolescente, carico di aggressività, addirittura con pulsioni suicide, che aspettavano solo il modo di incanalarsi verso un soggetto destinato a fungere da capro espiatorio. Ecco, allora, che il suo marinare la scuola si colora di sfumature particolarmente cupe e minacciose, come se già allora nella psiche del ragazzino austriaco fossero in incubazione i germi della tirannia e del più fanatico razzismo.
Il lettore si rassicuri: non stiamo cercando di svolgere la difesa d'ufficio di Hitler; lo storico non deve difendere o accusare nessuno. Lo storico deve sforzarsi di essere imparziale, e porsi in maniera aperta di fronte ai fatti o ai personaggi che studia: il suo scopo fondamentale è quello di comprendere, non quello di giudicare. In verità, anche lo psicanalista sostiene di voler fare la stessa cosa, ma con una forte componente di utilità pratica: il suo scopo è quello di aiutare il paziente a comprendere le proprie pulsioni rimosse o represse, e a ritrovare un equilibrio più autentico, dopo aver sconfitto i fantasmi dell'Inconscio che determinano la nevrosi.
Ma torniamo a noi.
Hitler racconta come, dopo un lungo periodo di agitazione interiore, che lo porta fino al limite della depressione, finisce per rendersi conto della realtà della minaccia giudaica per l'esistenza della Germania; e Mendel, immediatamente, trasferisce questo racconto in una trasfigurazione del conflitto edipico col padre, che egli odiava ma anche, segretamente, ammirava; così come, segretamente, ammirava la compattezza e la capacità di preservare il sangue puro da parte della razza ebraica.
A chi gli obiettasse che l'opposizione del padre al progetto di Hitler di iscriversi all'Accademia di Belle Arti e diventare un pittore, è un po' poco per fare di quel padre l'immagine di una presenza implacabile e minacciosa, responsabile perfino (sadicamente) della morte della madre, AVVENUTA DOPO LA SUA, un cultore ortodosso della psicanalisi risponderebbe, probabilmente, che le radici delle nevrosi dell'età adulta affondano su un terreno infantile quasi nascosto alla vista; salvo aggiungere che appunto loro, gli psicanalisti, possiedono la chiave segreta per accedere a quel regno nascosto, cosa che i comuni profani non potrebbero fare.
Ed eccoci giunti alla parte più significativa della disamina di Mendel circa le origini edipiche dell'antisemitismo di Hitler.
Dopo aver rilevato le esplicite espressioni di ammirazione hitleriana nei confronti delle capacità organizzative del popolo ebreo, Mendel prende in esame la convinzione di Hitler (allora largamente condivisa da milioni di Europei) che il marxismo altro non sia che il cavallo di Troia escogitato da un ebreo tedesco per distruggere la vita delle libere nazioni, mediante un distillato dei veleni di un mondo in putrefazione - quello borghese e liberale -, al servizio della razza ebraica.
Mediante la lotta di classe, trionfa il numero col suo morto peso su tutti i valori aristocratici: c'è bisogno di notare le assonanze di questa interpretazione del socialismo con quella di Nietzsche? Eppure Nietzsche non era antisemita. In altre parole, Mendel si astiene deliberatamente dal contestualizzare le idee di Hitler, le distacca dalla cultura e dalla società del suo tempo, per meglio mettere in scena - isolandola - la sua rappresentazione favorita, anzi, unica ed estremamente monotona: la lotta fantasmatica contro il padre come origine di tutti i mali della storia, nazismo compreso.
È interessante osservare che Mendel, in altra parte del suo libro, riconosce che Stalin è stato l'altro grande paranoico, la cui distorsione psichica ha causato danni immensi al genere umano; ma, forse a causa del fatto che Stalin non era antisemita, si limita a questo vago accenno, mentre dedica a Hitler ben quattro capitoli, per un totale di sessanta pagine. Di nuovo: dato che la psicanalisi è una dottrina di origine ebraica, e dato che Hitler ha rappresentato la punta più acuta e virulenta dell'antisemitismo moderno, chi meglio del dittatore tedesco si prestava per esemplificare, ad un tempo, l'origine schizoide, delirante dell'antisemitismo, e la cristallina esattezza dei metodi d'indagine psicanalitica, anche applicati alla storia dei popoli?
Dunque, per Hitler, l'«ebreo» (al singolare: altra conferma che si tratterebbe di un riflesso della odiata/amata immagine paterna) è divenuto «grande» perché ha conservato puri i caratteri della razza, cosa che dovrebbero fare anche gli altri popoli, a cominciare da quello tedesco, per non essere più «piccoli» - e, quindi, deboli - a causa della contaminazione del sangue.
Non solo: l'ebreo è l'eterno rivale per il possesso della donna/madre (quindi della «madrepatria»: gli psicanalisti amano moltissimo questi giochetti di parole); il responsabile della sconfitta del 1918; il rivale nel dominio delle masse (anche la massa è «femmina», quindi oggetto del desiderio sessuale); rivale nella volontà di dominio universale; rivale in quanto occupa posizioni chiave in tutti i principali settori dell'economia, della finanza e della cultura.
Qui, veramente, Mendel viene meno alla sua stessa metodologia, perché mescola insieme, in maniera indifferenziata, spiegazioni psicanalitiche e spiegazioni storiche dell'antisemitismo hitleriano (ma non solo hitleriano). Come si fa a mettere sullo stesso piano la figura dell'ebreo come rivale per il possesso della madre, e come responsabile della sconfitta del 1918? È chiaro che si tratta di due ordini di spiegazioni incommensurabili e che il loro accostamento, in una prospettiva unitaria, è quanto di più antiscientifico si possa immaginare.
E perché non dire niente di niente circa la presenza ebraica nelle posizioni chiave della società tedesca, fattore che - all'epoca - era percepito come anomalo, e potenzialmente pericoloso, da milioni e milioni di Tedeschi; presentandolo anzi, e di sfuggita, come uno dei tanti sintomi della sindrome schizoide di un solo individuo, Adolf Hitler? Perché le convinzioni del futuro dittatore in proposito  possono ben essere state schizoidi, senza che per questo si debba far finta di non vedere che una questione del genere esisteva realmente, o era, comunque, vista in quei termini, da una larga maggioranza del popolo tedesco (e non solo tedesco).
Mendel sostiene che, nel giovane Hitler, dopo la morte del padre e della madre e dopo essere stato rifiutato dall'Accademia delle Belle Arti, il conflitto edipico aveva toccato punte parossistiche di angoscia e disperazione; e che egli avrebbe finito per suicidarsi, se non avesse trovato il modo di trasferire i suoi fantasmi nella realtà esterna, riversando sull'Ebreo/padre tutta la sua aggressività, la sua paura e il suo odio incontrollato. Anzi, si spinge anche più in là, e presenta la sua successiva azione politica come una sorta di suicidio differito, che sarebbe culminato - appunto - nel Bunker sotto la Cancelleria di Berlino, nella primavera del 1945.
Infine, Mendel sostiene che Hitler ha trovato un potente alleato al suo delirio antisemita nella concezione della natura come una entità spietata e invincibile, che nessuna scienza e nessuna tecnica potranno mai sottomettere; e che, darwinianamente, riserva la vittoria al più forte: cioè, nella prospettiva nazista, a chi è capace di preservare pura la propria razza.
Quest'ultima osservazione, a dire il vero, non si lega molto con il resto, perché potrebbe servire ugualmente a «spiegare» (nella particolare prospettiva psicanalitica) molti altri aspetti della concezione politica di Hitler; l'unico aggancio consiste nel fatto che, per Mendel, Hitler vede la natura come parte di quelle masse che vorrebbe dominare, ossia come un riflesso della madre che vorrebbe possedere incestuosamente.
Ma tant'è: perché non aggiungere anche questo agli tasselli che dovrebbero rendere ragione dell'odio di Hitler verso gli Ebrei? La malvagità di Hitler è così grande, che pochi fra gli studiosi che si sono occupati di lui, hanno saputo resistere alla tentazione di caricare ulteriormente il fardello delle sue colpe; un po' come fanno gli inquirenti che, dopo l'arresto di un serial-kiler, finiscono per attribuirgli anche il decimo delitto, non suo, aggiungendolo ai nove dei quali è stato dimostrato colpevole. Tanto, essi pensano, uno in più o in meno, che differenza può fare? Un uomo capace di assassinare crudelmente nove persone, può ben essere capace di ammazzare anche la decima. Peccato che questo modo di ragionare non abbia nulla a che fare con la icerca della verità, e meno ancora con la giustizia.
Concludendo, ci sembra che il modo proposto da Mendel per leggere la storia, la sociopsicanalisi, presenti tutte le aporie e le contraddizioni di quella forma di magia nera che è la psicanalisi; con l'aggravante che essa pretende di applicarsi non alla mente dei singoli, ma alle vicende di popoli interi.
Il risultato è un pasticcio presuntuoso e delirante, dove si parla della pulsione ad impadronirsi del fallo del padre, ammirato e odiato, come di una evidenza scientifica e non come di una mera ipotesi psicologica, tutta da dimostrare. Mendel sembra non accorgersi affatto di quanto certe sue frasi assumano un tono grottescamente serioso, nella loro circolarità autoreferenziale; come questa, ad esempio: «[la] identificazione [con il padre] è correlativa alla captazione fantasmatica, inconscia, del fallo dell’altro. Tale captazione aggressiva è possibile solo se la paura dell’altro - cioè il rapporto di aggressività verso di lui in un secondo tempo interiorizzato e mutato di segno, dato che l’aggredito diventa aggressore - non raggiunge un’intensità esagerata. Se invece è così, il fallo rubato diventa oggetto tossico, pericoloso, distruttore.»
Nemmeno Aristofane, nella sua satira dei sofisti svolta nella commedia «Le nuvole», sarebbe riuscito a fare una simile parodia di un sapere borioso e al tempo stesso fumoso; con la significativa differenza che, qui, ci troviamo di fronte ad una autoparodia involontaria.
Ci sembra che non sia questa la strada giusta per avvicinarsi al mistero di un'idea che ha avuto conseguenze storiche così funeste, come l'antisemitismo di Adolf Hitler.
Saremo tremendamente all'antica, ma siamo ancora dell'opinione che ciascuno dovrebbe fare il proprio mestiere, purché si sforzi di farlo bene: lo storico dovrebbe fare lo storico e soltanto lo storico; lo psicologo, dovrebbe occuparsi di psicologia.
Ciò non significa che lo storico debba negarsi ad un approccio interdisciplinare del proprio campo di studi; ma altro è la sinergia delle discipline affini in un dato campo di ricerca, altro è il pasticcio e lo scambio arbitrario dei ruoli.
Sono due cose profondamente diverse; anche se - ormai - è venuta di moda la più disinvolta confusione dei ruoli, a tutti i livelli della società e della cultura.