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L’equivoco “migliorista”

di Stefano Di Ludovico - 24/06/2009

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“La Storia era stata piena di uomini ‘col sole in fronte’ che avevano chiesto e sparso lacrime e sangue. E il risultato quale era stato, alla fine? Quello che aveva davanti agli occhi: un mondo più desolato di tutti quelli che lo avevano preceduto. I grandi profeti, filantropi dell’umanità, non avevano provocato che catastrofi. Tutte le volte che l’uomo si era mosso alla ricerca della felicità aveva finito per perderne anche quel poco che aveva”. Così medita Matteo, il protagonista dell’ultimo libro – e primo romanzo – di Massimo Fini, Il Dio Thoth. E così meditiamo noi, gli antimoderni. Anche lui, come noi, vorrebbe cambiare il mondo, suonare di nuovo la sveglia della rivolta, perché “era, forse, un ribelle, un insofferente, ma non si sentiva affatto un rivoluzionario”. Ma cambiare il mondo per che cosa? Quale sarebbe stata la sua “rivolta”? Perché quando si vuol cambiare il mondo, suonare la sveglia della rivolta, gli equivoci sono sempre dietro l’angolo. E oggi che le vecchie casacche, i vecchi slogan, le vecchie contrapposizioni sembrano svanire, dissolversi, e un nuovo trasversalismo, nuove convergenze sembrano incrociare i destini dei ribelli, degli insofferenti, dei rivoluzionari d’ogni parte ed arte, gli equivoci appaiono ancor più incombenti.
Matteo guarda avanti, vorrebbe lasciarsi alle spalle questo mondo dove gli uomini, nell’assurdo intento di eliminare la sofferenza, hanno finito per diventare “automi, atoni, soggetti passivi, indifferenti e acquietati” ad una realtà sempre più contraffatta, artificiale, virtuale. Ma allora il superamento vuole essere altresì un “ritorno”, ritorno a ciò che l’uomo è sempre stato, in ogni epoca e civiltà, prima che “la razionalità della tecnica ne aveva snervato, indebolito, annullato il carattere, gli istinti, la vitalità, mentre la ricerca della conoscenza aveva, alla fine, ucciso la conoscenza”. Si tratta di riaffermare l’uomo, appunto col suo carattere, i suoi istinti, la sua vitalità, e quindi col suo corpo, la sua anima, il suo spirito, contro l’automa anestetizzato che è diventato, mero ingranaggio dell’orrida megamacchina tecnocratica da lui stesso edificata. La rivolta del ribelle è un andare avanti per recuperare ciò che è andato perduto, e di cui la New Era, quella in cui Matteo vive, pretende di cancellare anche il ricordo. E di fronte alle grida di rivolta che da più parti si levano contro un mondo sempre più insensato, l’equivoco è quello di essere confusi con chi quel mondo vuole sì cambiarlo, ma, in fin dei conti, per farlo funzionare meglio, per renderlo più efficiente, per realizzarne appieno quelle premesse e quegli ideali che, per molti aspetti, giacciono ancora allo stato latente. Per portare a compimento quel disegno che il mondo moderno, il mondo della New Era, dice di aver realizzato ma che ai loro occhi risulta ancora privilegio di pochi. Essere confusi con chi utopista, moralista, umanitarista, ambientalista, per ciò stesso vuole ancora più progresso, ancora più benessere, ancora più diritti, felicità e sviluppo per tutti. Con chi, in poche parole, vuole “migliorare” ancora il mondo.
Ma noi ribelli, noi antimoderni, come Matteo, non vogliamo migliorare il mondo. Noi vogliamo “peggiorarlo”. Perché noi siamo quelli che si stava meglio quando si stava peggio. Perché il progetto di migliorare il mondo è stato il progetto della modernità.

“Il mondo è stato rovinato da quelli che hanno voluto cambiarlo” (Alain De Benoist).