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Il ribelle tra destra e sinistra

di Massimo Ilardi* - 25/06/2009


 

osvaldo-licini-angelo-ribelle-rosso_-fondo-magazineIl ribelle è colui che ha un profondo rapporto con la libertà. Anzi, è la liberta stessa. Per lui non c’é nulla al di sopra della libertà. Libertà di dire no. Così afferma Ernst Jünger nel Trattato del ribelle. Il ribelle rifiuta l’ordine del mondo in cui è stato gettato e lo respinge in nome di un altro sistema di valori che, a differenza del rivoluzionario, non trova in una ideologia già bella e pronta ma nelle mutevoli condizioni della sua esistenza. Perché la libertà che insegue è al presente o non è; è materiale o non è. Il ribelle non fa rivoluzioni la cui efficacia si potrà misurare in un futuro più o meno lontano, ma rivolte che valgono di per se stesse e sono legate a una causa e a una situazione contingenti. Non cerca trasformazioni radicali del mondo, che anzi non smette mai di abitare, ma un rapporto diretto con libertà contro il pensiero unico, i luoghi comuni, l’uguaglianza universale e astratta slegata da ogni elemento concreto e appiattita sull’identico, gli apparati di potere le cui fondamenta affondano sulla pretesa di possedere la rappresentanza di una società che non esiste più. Ma soprattutto contro chi, in nome dell’ordine e della legalità, lo bracca per rinchiuderlo nei recinti duri e asfissianti dei divieti, delle identità, dei controlli che, di fronte all’incapacità del mercato di governare i grandi spazi, disegnano ormai in maniera totale e capillare il mondo divenuto metropoli.

Ecco perché il ribelle contemporaneo, a differenza di quello jungheriano, non sceglie di “passare al bosco”: non può farlo perché non ci sono più “meridiani zero” da varcare, non ci sono più boschi, né altri luoghi di esilio dove fuggire e dissociarsi. Si muove invece in un luogo e in un tempo precisi e risponde sempre alle domande: dove chiedere libertà? Quale libertà? Come raggiungerla? Quando? Essere ribelle è sì uno stato d’animo ma non segue coattivamente alcuna legge di natura e non appartiene ad alcun ordine esistenziale (non si nasce ribelli) ma si origina e si forgia sul territorio, su quel territorio, e si spegne quando le cause che generano quello stato d’animo spariscono. La libertà, dunque, non è un viaggio interiore che si può fare ovunque. Dice Spartaco, lo schiavo ribelle: essere liberi sì ma a Roma e non nel nulla. Questa è sempre la posta in gioco di ogni rivolta che determina i suoi obiettivi in maniera concreta, che definisce qui e ora le sue rivendicazioni, che si muove in quello spazio e solo in quello in cui specifiche forme di dominio o di condizioni materiali determinano lo stato di necessità che spinge appunto alla rivolta.

La sinistra ha prodotto partigiani ma non ribelli. Il terribile volto bifronte del partigiano: da una parte la filosofia della storia di Hegel e, dall’altra, la forza tellurica delle masse da lui organizzate. Da una parte il volto di Lenin, dall’altra quello di Mao Tse-Dun. Questa alleanza di filosofia e politica è iscritta nell’atto di nascita di ogni partigiano che ha come obiettivo quello di abbattere l’ordinamento politico e sociale dell’avversario. Per l’instaurazione di un mondo nuovo e diverso. Nulla a che vedere con l’azione del ribelle che attacca il livello del potere a lui più vicino ma solo per decostruirne i suoi effetti, di cui il principale è il controllo dei corpi. Il ribelle non cerca il nemico principale ma il nemico immediato.

Oggi è tempo di ribelli e non di partigiani. E lo dovrebbe esserlo soprattutto per la sinistra. Primo, perché non c’è alcun sistema da abbattere per il motivo che non ne esiste uno alternativo; secondo, perché vanno finalmente curate le infezioni della legalità istituzionale a tutti i costi e del “politicamente corretto”, retaggio di quell’azionismo politico minoritario e parassitario che ha sempre e ovunque perso tranne che a sinistra; questa cura è urgente perché, terzo, i grandi serbatoi del consenso rimangono per la sinistra quei settori sociali che fanno dell’appartenenza culturale il fondamento delle loro scelte e dei loro comportamenti. Valori culturali pre o post politici, vissuti nella loro purezza intuitiva, nel senso di mentalità, quindi intrinsecamente individualisti e che tendono a porsi come indisponibili e non negoziabili; quarto, perchè la rottura della coesione sociale e l’aggregarsi per minoranze sono le nuove forme che assume la dimensione collettiva in una società del consumo e che riorganizzano il senso del gruppo ed il metodo dell’azione; quinto, perché il proibizionismo delle norme, che vuol dire imposizione del primato dell’economia e del diritto per normalizzare e governare il paese, ha preso il posto della politica.

E così mentre si studia come tornare a proibire o a ridimensionare la legalità dell’aborto e si fa pure qualche pensierino sul divorzio, si vieta intanto di fumare, andare liberamente allo stadio, farsi gli spinelli, praticare il nomadismo, chiedere l’elemosina, lavare i vetri, immigrare,  sposarsi tra persone dello stesso sesso, ricercare sulle staminali, inseminarsi artificialmente. Un arcipelago spontaneo di pratiche di ribellione si dispiega allora nei territori urbani incarnando una domanda di libertà negativa che non costituisce alcun ordine, non s’incardina istituzionalmente, non si coniuga con un concetto di legalità, non si declina nelle forme della democrazia o della giustizia o dell’uguaglianza. Giornalisti e sociologi chiamano tutto questo, a volte bisogna ammettere con ragione, devianza, follia, microcriminalità diffusa, decadimento dei costumi, imbarbarimento della società non più governata da alcun valore. Ma per capire bisogna alzare lo sguardo sulla luna e non fissare il dito che la indica. Scrive un autore non sospetto come Isaiah Berlin, uno dei maggiori rappresentanti della grande tradizione del liberalismo europeo: «Simili azioni possono essere ingiuste, possono comportare violenze, crudeltà, la riduzione in schiavitù di altre persone, ma sarebbe difficile negare che in questo modo colui che agisce si mette in gradi aumentare la sua propria libertà nel senso più letterale possibile». Perché la libertà è libertà e basta. Proprio su questa “mobilitazione totale” verso la libertà e la sua ribellione contro la legalità, le culture della strada hanno saputo rompere la stabilità dei codici e della loro storia e hanno costretto l’ordine simbolico a cedere il passo all’immaginario che muta e ricostruisce continuamente i legami tra immagini e significati perché si è persa ogni credenza nella fondatezza (F.Carmagnola).

I loro eroi, da Céline a Jack Kerouac, da Sam Peckinpah, a Clint Eastwood, da Capitan Harlock a Braveheart, da Frodo Baggins al Libanese e al Freddo di “Romanzo criminale”, da “Fight Club” ai pirati dell’Atlantico, tanto per citarne alcuni, disertano i valori universali, tradiscono le forme e le discipline che predispongono a una vita virtuosa e rispettosa delle regole, oltrepassano continuamente i confini della legge. Ma soprattutto sanno che non importa con quale regola il nemico viene battuto perché “la regola più alta è quella che lo sconfigge”. Sono eroi “di destra”? Non lo so e non mi interessa. Ma se fosse così allora bisognerebbe domandarsi perché la sinistra è incapace di creare un suo immaginario. E senza immaginario, lo sanno tutti, non si fa politica vincente. Oppure qualcuno pensa che oggi il buonismo, l’autodisciplina, la responsabilità, il senso dello Stato, l’austerità facciano sognare uomini e donne?  Ha ragione Céline: «Bisognerà davvero una sera far addormentare le persone felici e mentre dormono, ve lo dico io, farla finita una buona volta con loro e con la loro felicità. Il giorno dopo non si parlerà più della loro felicità né della loro Bontà e saremo di nuovo liberi d’essere infelici come vorremo».

*Massimo Ilardi vive a Roma e insegna Sociologia urbana nella Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. È direttore della rivista “Gomorra”. Le sue ultime pubblicazioni sono L’individuo in rivolta. Una riflessione sulla miseria della cittadinanza (1995) e Negli spazi vuoti della metropoli (1999). Per Meltemi ha pubblicato In nome della strada (2002), Nei territori del consumo totale (2004), Il tramonto dei non luoghi (2007). Ha curato Una strana rivista. Gomorra 1998-2007 (2007).

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