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Una pagina al giorno: Combattere per l'onore, non per la vittoria, di O. Piscicelli Taeggi

di Francesco Lamendola - 03/07/2009


Il libro di Oderisio Piscicelli Taeggi «Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale», pubblicato da Laterza nel 1946, con prefazione di Bendetto Croce, è una delle cose più interessanti prodotte dalla nostra memorialistica sull'ultima guerra mondiale.
Ufficiale di carriera di sentimenti monarchici, tenente e poi maggiore di artiglieria, l'Autore partecipò a tutte le operazioni belliche sul fronte libico-egiziano, dal febbraio del 1941 alla primavera del 1942. Poi, nell'aprile del 1943, venne rinviato in Nord Africa, questa volta in Tunisia, praticamente per una missione suicida: il generale Messe voleva un ufficiale di artiglieria che fosse già esperto del teatro di guerra africano, cui affidare un estremo contrattacco nella zone montuosa che proteggeva il ridotto di Tunisi, ormai in procinto di venire sopraffatto.
L'operazione venne lanciata il 25 aprile del 1943 da pochi carri armati e cannoni semoventi italiani e tedeschi; e, se mostrò l'altissimo grado di efficienza e determinazione di quel nostro ultimo esercito in terra africana, strappando la stupita ammirazione degli stessi avversari anglo-americani, non valse tuttavia, come del resto era prevedibile, a mutare le sorti della campagna, ormai avviata verso la sua inevitabile conclusione.
Piscicelli Taeggi venne gravemente ferito e quindi catturato il giorno 9 maggio, iniziando la lunga prigionia, durante la quale decise di raccogliere i suoi ricordi, che sarebbero stati stampati a guerra conclusa, rivelando una tempra di scrittore sobria ma incisiva e molto originale.
L'opera «Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale», infatti, si discosta da molta della memoralistica di guerra per il suo carattere fortemente introspettivo, per cui il racconto scivola in continuazione dal piano del ricordo degli eventi esteriori a quello della riflessione di carattere generale: morale, esistenziale, filosofica.
La prospettiva è quella di un ufficiale che si è battuto fino all'umano limite delle possibilità, non per la vittoria - che sapeva impossibile - ma per un miscuglio di sentimenti e motivazioni che vanno dal senso del dovere, alla lealtà cameratesca, al patriottismo, al bisogno di mostrare al nemico e a se stesso il proprio valore, pur nella consapevolezza della scarsità dei mezzi e della inescusabile faciloneria dei comandi e soprattutto delle alte sfere politiche.
È pertanto, nel medesimo tempo, la testimonianza di uno spirito di sacrificio spinto sino all'estremo e un implacabile atto di accusa contro il regime che aveva gettato l'esercito, così tragicamente impreparato, nella grande avventura di una guerra mondiale: atto di accusa che culmina in una vera e propria invettiva contro la figura di Mussolini, accusato di non aver amato veramente la patria, data la maniera in cui l'aveva esposta alla catastrofe, materiale e morale.
Non è un libro distaccato, quindi; ma nemmeno un libro militante, e men che meno un libro fazioso, per quanto taluni giudizi possano risultare discutibili. Non è un libro contro la guerra, non è un libro antimilitarista: né lo potrebbe, essendo scritto da un uomo che aveva abbracciato la carriera militare con assoluta convinzione.
A differenza di altre opere simili relative ala prima guerra mondiale, quindi - basti pensare a «Un anno sull'altopiano» di Emilio Lussu - non vi si esprime una critica  radicale alla guerra in se stessa, ma piuttosto un profondo sdegno morale per il modo in cui quella guerra è stata condotta; ed emerge, inoltre, una riflessione globale sulla condizione umana, che nella guerra trova la rivelazione della sua essenza più profonda, un po' come ne «L'allegria» di Giuseppe Ungaretti.

Dal «Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale» (Bari, Laterza., 1946; ristampa: Milano, Longanesi & C., 1972, pp. 3-8):

«Prigioniero. La parola mi offende.
Numero senza volontà né diritti se non quelli lasciati dalla pietà delle convenzioni internazionali applicate secondo la capricciosa interpretazione del custode. Me lo dettero scritto su un cartoncino da portare legato al collo con un pezzo di corda. Così credo lo portano i forzati.
La mia colpa è di aver fatto il dovere di soldato che la morale degli uomini comanda e sublima. E quel dovere ingentilii di cavalleria. Ne fui orgoglioso. Ora quegli uomini stessi si vendicano della mia obbedienza alla loro legge.
Prigioniero. Io dico catturato, perché non alzai le mani.. Fui ferito gravemente alla testa ed ero ancora senza conoscendo presero possesso della mia persona.. la fortuna mi diede il narcotico per non farmi soffrire dippiù. Miei valorosi compagni d'arme hanno dovuto bere il calice fino in fondo.
"Non ce lo meritavamo", mi disse uno di loro.
No, non ce lo meritavamo. E l'Italia non se lo meritava. Seppur ha peccato per debole acquiescenza o per credulità, il castigo è troppo più grande della colpa.
Rovina, sangue e vergogna.
Il mio animo si ribella contro chi li ha chiamati sull'Italia. Contro chi, inseguendo le chimere del suo cervello, ha abusato delle nostre coscienze, delle nostre volontà, delle nostre intelligenze, della nostra fedeltà alla bandiera. Inferiori per numero e mille volte per mezzi, ci ha buttato a combattere in terre che ci maledivano e, quando l'esito era già segnato, ha continuato a immolare migliaia e migliaia di combattenti sui campi di battaglia, di vecchi, donne e bambini nelle città bombardate e affamate pur di godere ancora della libidine della tirannia che è stata la sua unica, vera passione, il suo tormento, il suo e nostro castigo. Ora che tutto è chiaro, conosciamo che mai nella storia un uomo ha gettato il suo popolo in guerra con più cinico disprezzo dei suoi sentimenti e della sua vita.

*  *  *

Io ho combattuto da buon soldato. Sapevo di combattere con una speranza di salvezza contro mille, ma sapevo che dovevo mettere tutto me stesso in quell'una. Poi, quando speranza non ce n'è stata più, ho lottato ancora per l'onore del tricolore e per tener lontano dalla nostra terra quel flagello che ora ne rovina pietra dopo pietra, ne brucia albero dopo albero.
Epperciò son qua, uomo senza nome, un numero. E la sentinella del reticolato mi guarda forse con disprezzo.
Qui nel campo c'è ancora qualcuno che dice che colui non va condannato, perché amava l'Italia. No, poveri illusi, o torvi interessati, colui non amava l'Italia. L'amore è pietosa cura, è vigile custodia, non è spinta incessante verso il pericolo.  Egli amava l'Italia solo come creazione del suo cervello  che appagasse il suo spasimo di grandezza. Cioè amava se stesso.
La chimera babelica è crollata sul folle, sull'Italia e su noi.
Quanto deve soffrire mia madre che ama l'Italia davvero, semplicemente, e dopo l'Italia ama noi!

*  *  *
La stufa brontola nella baracca. Le legna  fuma e fiammeggia. Fuori fino al reticolato ed oltre c'è neve.
In Italia si soffre il freddo. Lessi giorni fa in un libro dell'altra guerra le sofferenze delle popolazioni dei vinti. Non voglio, non posso associare  quelle sofferenze al pensiero dei miei. La mia anima, il mio senso di giustizia si ribellano. Perché ho letto quel libro?
Nei miei pensieri è mia madre che torna sempre più spesso.
La rivedo non col suo viso di ora guasto dall'età, ma con quello di una fotografia ch'ella fece credo poco dopo sposata, appena più che ventenne. Le mani sono intrecciate a sorreggere il puro ovale del volto; i capelli nerissimi pesano sulla fronte, inondano il collo e le spalle in furia selvaggia; e fra la bocca e le lunghe ciglia arcuate è un non so qual timido sorriso da giovanetta.
Quanti anni sono passati da allora! Ci tirasti su uno ad uno. Uno ad uno diventammo grandi e avemmo figli anche noi. La giovanetta fu Madre ed è nonna e lungo il cammino tutto è appassito attorno ai grandi occhi neri. Avevi diritto ad invecchiare felice fra i figli e i nipoti che adori. Ma lo squallore cadde sulla nostra Patria, sulla nostra casa, sulla tua vecchiaia.
Chissà se riuscirò ancora a spezzare le tenebre, ad afferrare un po' di sole, un raggio di sole per te.

*  *  *
La siepe di filo spinato ci isola dal mondo. A trecento passi è la strada ferrata sulla quale due volte al giorno passa sbuffando la locomotiva, estremo battuto della vita. Ma il mondo non ci dimentica, non ci lascia a colloquio con le nostre anime. E neppur blandisce più, è vendicativo.
Gli odii sono ormai scatenati ed incalzano i popoli verso la follia. Le intelligenze si oscurano, i controlli morali si allentano. Chi ha scatenato gli odii, li deve ora saziare. Chi è alla testa dei popoli non può più fermarsi a dire la parola di pace, la parola magica che abbracci tutta la terra come l'arcobaleno chiude l'orizzonte da oriente ad occidente. Anche se volesse non può, sarebbe il primo ad essere travolto.
Al di sopra del clamore degli opposti vangeli, al di sopra dello strepito delle armi ed a dispetto delle loro sorti alterne, la razza umana ha subito una schiacciante sconfitta morale.
Nell'eterno dualismo fra il bene e il male, la luce e le tenebre, la grazia e il peccato, Dio e Lucifero, Lucifero ha vinto. Attraverso la griglia del filo spinato il demone spia e ride con ghigno infernale. Ci sibila piano o ci avventa come colpi di frusta le notizie dello scempio che si fa della nostra Patria. Poi allarga e avvelena le piaghe con lo scherno, la calunnia, l'insulto.
E ciascuno di noi si arrovella e ci guardiamo con occhi nemici e ci scagliamo l'un contro l'altro.
Quando crediamo di essere giunti al termine delle sofferenze siamo così storditi che quasi non sentiamo più dolore, un sorso di speranza o una vaga promessa viene a darci nuove forze per soffrire ancora. Subito dopo un più profondo abisso di dolore e di abiezione si spalanca ai nostri piedi.
L'espiazione è appena in via, il dolore non è ancora abbastanza. Bisogna diventi delirio o estasi o demenza, che invada tutta la nostra anima, bruci con la sua torcia fin in ogni più remoto angolo ogni vanità impura. Allora di tra i rottami delle nostre case, delle nostre credenze, delle nostre speranze e dei nostri egoismi ci tenderemo le braccia l'un l'altro. E l'Italia avrà gli Italiani.
 
*  *  *
La legna fuma e fiammeggia nel focolare che brontola. È una nenia che accompagna la mia giornata, culla il sonno e la veglia.
Mi sembra di non essere mai ben desto. Un torpore invincibile ferma le membra, rende ottusi i sentimenti, cala un velo di caligine sui pensieri.
Dentro ho una pena, quasi un dolore fisico vago. È una ferita sempre dolente che dà delle fitte quando il pensiero di laggiù la tocca. Poi la fitta si quieta, corpo e mente affonda nel torpore. Passo ore e ore a letto guardando il soffitto o seduto davanti a un libro che non leggo o che leggo senza capire. Ho lottato per destarmi. Non che senta bisogno di svago, l'ozio inganna da sé, è la morfina dell'anima. Ma non voglio abbrutirmi, voglio che il mio sangue batta con più veloce ritmo nelle mie vene per la difficile vita che mi aspetta.
Ho pensato a scrivere i miei ricordi di guerra. Ma mi è stato impossibile.
Non che i fatti siano svaniti e confusi nella lontananza.  Sono immagini ed emozioni indimenticabili che hanno ben preciso il loro posto nel tempo e nello spazio. Ma quando li rievoco, essi accorrono con tanto impeto che non riesco a tendere la mia volontà fino a discernerli, ad isolarli uno ad uno per descriverli. È come provare a dipanare una matassa arruffata. Il filo è intero e verrebbe, ma la mano impaziente lo spezza.
Non so staccare, non so dar rilievo ai ricordi. Per i suoni, le figure, le emozioni di guerra trovo nel vocabolario poche parole. E son così logore dall'uso che scivolano sulla mente senza eco e senza immagine come i ciottoli levigati dalle intemperie rotolano per la china senza segnarla. Ma all'orecchio ogni rumore fu vario, l'occhio colse immagini innumerevoli, il cuore passò dallo strazio alla quiete, ala speranza. Il racconto fa uniforme quanto fu diverso e della vita del combattente rende solo forse la monotonia muta e sorda, insensibile, che dopo qualche mese di guerra s'impadronisce dell'animo ed entro la quale tutti gli altri sentimenti nascono e muoiono dopo essere vissuti un istante.
Non rievocherò così i miei ricordi. Li lascerò turbinare nella tormenta. È una tormenta di sabbia, quella del ghibli del deserto, che era giallo-fulva ma che nella memoria è color sangue; in essa appaiono e scompaiono figure, idee, pensieri, i volti dei miei commilitoni, livido qualcheduno di morte.
Sono chimere, come quelle che fiamma ed ombra disegnano e cancellano nel focolare, che son fra queste pagine.»

Come si vede, la qualità della scrittura di Piscicelli Taeggi è notevole: non ci troviamo di fronte al solito diario di guerra, ma a qualcosa di molto più intenso e profondo: a uno scavo continuo, coraggioso, implacabile, della propria anima, in una atmosfera quasi agostiniana, sospesa fra Grazia e peccato, fra speranza e disperazione.
Non è un soldato che s'interroga, ma un uomo, che scende fino alle radici del proprio essere e vi cerca una ragione, un segno, uno spiraglio di luce che possano giustificare tutto l'orrore della guerra, delle sofferenze patite, di quelle che stanno straziando le inermi popolazioni. Significativo è il pensiero dedicato della mamma, che, nella sua tragica e desolata dignità, sembra icordare un personaggio dell'antica tragedia greca. Ella avrebbe avuto il diritto di invecchiare in pace, di veder crescere i nipoti, e invece: quante lacrime, quanto dolore, quanta rovina, su quella povera canizie di madre e di nonna!
Il sentimento nazionale offeso è l'elemento dominante di questa pagina: il senso di sdegno per coloro che hanno abusato della fiducia di tanti soldati e hanno precipitato l'esercito e la Patria in una rovina senza precedenti. Questa è la dimensione più autentica e più vibrante della riflessione di Piscicelli Taeggi; così come sarebbe anche la più discutibile sul piano storiografico, se il libro volesse porsi come un lavoro di carattere storico.
Il giudizio su Mussolini, in particolare - duro, spietato, ingeneroso - sembra intonarsi perfettamente alla visione della storiografia liberale, secondo la quale il fascismo è stato una «malattia» che ha colpito un corpo, di per sé, sostanzialmente sano; e passata la quale, anche il ricordo del male sofferto scomparirà del tutto.
Suona davvero un po' troppo comodo, e un po' troppo autoassolutorio, scaricare ogni responsabilità ed ogni colpa su un uomo solo - che, per supremo dispregio, non viene mai neppure nominato -, come se egli avesse potuto traviare tanti milioni di persone; così come finisce per divenire assordante il silenzio sulle responsabilità dell'avversario - le democrazie occidentali - che tanto fecero, prima del 1939, per gettare l'Italia nelle braccia della Germania, con una politica straordinariamente gretta ed egoistica.
Così, dopo aver addossato a un uomo solo tutte le colpe della guerra, al centro della riflessione di Piscicelli Taeggi rimane, pura e incontaminata, la buona fede di milioni di soldati e di civili che, nonostante tutto, hanno creduto e si sono battuti, o hanno sopportato, fino al limite estremo della sopportazione.
È una posizione rispettabile, tanto più quando viene da un valoroso ufficiale, il quale ha fatto quanto umanamente possibile sul fronte del dovere; ma è una posizione manichea, che presenta una evidente forzatura dei fatti ed opera una evidente distorsione della realtà, per poter sostenere una testi chiaramente indifendibile: che un popolo sia sostanzialmente migliore della propria classe dirigente; che un popolo sia puro e innocente, e i suoi capi - o meglio il suo capo, applaudito e osannato per un ventennio - folle o malvagio.
Vale la pena di riportare la presentazione di Benedetto Croce al libro «Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale»:

«C'è un dovere da compiere verso i nostri soldati che valorosamente combatterono non già per lo sciagurato regime, ma per l'onore dell'esercito, per l'onore d'Italia, sempre ubbidienti e devoti al nome della patria. La nostra pubblicazione del libro di Piscicelli Taeggi ha questo significato. Come capitano e poi maggiore di artiglieria, l'autore ci racconta quanto gli ufficiali e i solfati italiani fecero in condizioni difficilissime e con assoluta inferiorità di mezzi rispetto all'avversario, con quanta prodezza, con quanta costanza, con quanto spirito di sacrificio. L'ammirazione e la commozione riempiono il lettore. Sentimento ed elevato pensiero ispirano tutte le sue pagine, ricche di vita e prive di retorica.»

Tuttavia, sarebbe ingiusto - lo ripetiamo - giudicare queste pagine sotto il profilo strettamente storico.
Esse sono innanzitutto una testimonianza morale, scaturita da uno spirito retto, ardente, esigente verso se stesso e assetato di verità; e come tali vanno giudicate.
Dal punto di vista strettamente letterario, sono pagine scritte con quella tensione etica che sfronda il superfluo e punta dritto all'essenziale: perciò sono dense, talvolta aspre, quasi sempre intensamente commoventi.
Non ci sono fronzoli, nello stile di Piscicelli Taeggi; non c'è ombra di retorica.
Quello stato di torpore perenne, in cui sembra essere caduta l'anima dei prigionieri; quel vivido affollarsi dei ricordi, come una raffica del ghibli, il vento del Sahara; quelle immagini che balenano dalla memoria, volti di commilitoni, volti resi pallidi dalla morte, che sembrano agitarsi come le fiamme nel focolare e il gioco delle ombre e delle luci che si proiettano sulla parete, mentre la legna crepita, fumando: sono quadri potenti, degni di un grande scrittore.
Peccato che un libro così non venga letto nelle scuole; peccato che il «Diario di un combattente nell'Africa Settentrionale» sia stato pressoché dimenticato, mentre farebbe tanto bene leggerlo ai giovani, oggi che il senso del dovere e lo spirito di sacrificio sembrano scomparsi dal nostro orizzonte spirituale.