Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Iran. Voler spaccare il mondo in due campi contrapposti è infantile

Iran. Voler spaccare il mondo in due campi contrapposti è infantile

di Peter Beaumont - 06/07/2009

 



Andando in Iran lo scorso anno per seguire le elezioni parlamentari, ho scoperto un Paese completamente in conflitto con la maggior parte delle rappresentazioni che se ne danno. Mi sono trovato a discutere del sociologo Durkheim con un produttore di dischi di musica classica in un cinema-café, e a dibattere la situazione politica nelle città sante sciite dell’Iraq con il guardiano conservatore di una moschea nella zona sud di Tehran. Sono stato insieme ad artisti che bevevano vodka illegale a una festa, e ho discusso dei limiti della libertà personale relativa all'abbigliamento prescritto dall'Islam con una insegnante liberal ma che aveva la testa coperta dall’hijab. Persino gli atteggiamenti fra i sostenitori del Presidente Ahmadinejad, che ho incontrato nelle zone rurali, erano complessi, e confondevano ciò che pensavo di sapere. Vedete, l’Iran si fa beffe del modo in cui l’Occidente vorrebbe rinchiuderne la realtà.

Il che rende la lettura di molte delle considerazioni espresse in Occidente nel corso della crisi delle elezioni iraniane spesso sconcertante: ho fatto fatica a riconoscere il luogo rappresentato. E’ un fatto preoccupante, perché se c’è una sola cosa che ho imparato dagli ultimi 15 anni passati a seguire le crisi internazionali, è come le descrizioni semplificate o distorte degli eventi vengano più facilmente fissate come verità assodate che messe in discussione. E in che modo pericoloso, come l'Iraq ha dimostrato chiaramente, queste false immagini contribuiscano ai processi decisionali dei governi occidentali.

Nel caso dell’Iran, ciò che è stato evidente in Occidente sono state due versioni del Paese in concorrenza fra loro, colorate dall’immaginazione politica, e di cui si sono appropriati i due campi rivali – e antagonisti – che hanno dominato la nostra discussione sugli affari esteri dall’11 settembre e dall’invasione dell’Iraq. Fazioni di una nuova Guerra Fredda di idee, le loro posizioni ristrette e reciprocamente antagoniste hanno reinterpretato ogni crisi internazionale emergente per adattarla ai propri piani, e in sfida a quelli dell'altra parte.

Da un lato ci sono i residui della vecchia sinistra, sostenuti e rafforzati da una nuova generazione radicalizzata dall’attivismo contro la povertà, la globalizzazione, e il cambiamento climatico. Con una conoscenza basata sulla lettura di autori come l'attivista di lungo corso Noam Chomsky e di giornalisti come John Pilger, la loro visione del mondo è caratterizzata da un messaggio "anti-imperialista" che è ostile agli interventi occidentali.

Gli si oppone un gruppo più diffuso, che ha molta più influenza sulle processo politico decisionale, i cui membri vanno dai liberal in termini generali ai neoconservatori. La convinzione unificante che ha fatto da collante a questo gruppo è una fede quasi religiosa nel potere di trasformazione che hanno le abitudini democratiche occidentali quando vengono trapiantate in società e culture che hanno subito forti limitazioni delle libertà. E’ una fede, andrebbe detto, che continua stranamente a non venire scossa dai fallimenti multipli degli ultimi anni.

Le due tendenze, tuttavia, si rispecchiano a vicenda in un aspetto cruciale: il modo in cui tendono a descrivere un Iran più omogeneo di quello esistente: o più universalmente desideroso di cambiamento in modo disperato, o più sostenitore di Ahmadinejad.

Più in generale, dal fatto che la discussione sugli affari internazionali è dominata da queste due visioni del mondo ne consegue che ogni crisi internazionale viene cooptata come prova a sostegno delle loro argomentazioni, producendo una conversazione avvilita, piena di accuse che puntano il dito contro quello e condannano quell'altro. Coloro che intervengono, in linea di massima, lo fanno per confermare le proprie credenziali al loro stesso pubblico. Limitare questioni come l’Iran in termini di una argomentazione a favore della democrazia all'occidentale può avere inoltre conseguenze indesiderate. In un Paese i cui leader hanno un sospetto quasi paranoico nei confronti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, offre un invito aperto a interpretare i commenti come "interferenza", come inevitabilmente è successo negli ultimi giorni.

Nel caso degli eventi delle ultime due settimane in Iran, la reazione è stata monotonamente familiare. Per la sinistra dissenziente, che si trova ad affrontare quella che assomiglia in modo sospetto a un’altra "rivoluzione a colori" – dopo la "rivoluzione delle rose" in Georgia, e la "rivoluzione arancione" in Ucraina, che hanno avuto il sostegno dei gruppi a favore della democrazia – la reazione è stata quella di appoggiare l’"anti-imperialista" Ahmadinejad, amico dei poveri e nemico del sionismo, come il probabile vincitore. Più vittima di un tentato colpo di Stato che responsabile di un colpo di Stato effettivo, si tratta di una versione degli eventi che, attraverso la necessità di appoggiarne le ragioni, ha teso a far scomparire le caratteristiche più sgradevoli dell’Iran di Ahmadinejad.

Questa valutazione è stata più che eguagliata da una uguale raffica di giudizi, spesso da parte di coloro che conoscono meglio Tel Aviv o Tallahassee che Tehran, che hanno abboccato senza riserve a un discorso sulla "libertà" che cerca di interpretare le manifestazioni di massa dei sostenitori di Mir Hossein Mussavi in maniera egualmente semplicistica – come rappresentative delle aspirazioni di tutto l’Iran.

Si tratta di una versione che ha le sue lacune. Investendo così tanto nell’opposizione riformista, e ingannata da una versione particolare che emana dalle non rappresentative zone residenziali di Tehran nord, essa non riesce a riconoscere o la natura del programma di Mussavi – che si è autodefinito un "fondamentalista riformista", ed è assai meno radicale di quanto essi presumono – o la realtà dell’enorme sostegno di cui godono Ahmadinejad fra il suo elettorato e la Rivoluzione islamica.

Il fatto che a dominare la discussione siano due argomentazioni così superficiali e interessate è importante, precisamente perché l’immagine che abbiamo dell’Iran conta.

E sull’Iran proprio adesso, c’è un bisogno enorme di una disamina accurata di quanto sta accadendo, che va oltre le solite rappresentazioni superficiali di Ahmadinejad come niente di più che un dittatore che nega l’Olocausto, o di Mussavi come un ricettacolo delle speranze di una sorta di riforma liberale in senso occidentale della rivoluzione iraniana.

La crisi di legittimità che è andata sviluppandosi sulla scia delle contestate elezioni iraniane non può essere espressa attraverso toccasana semplicistici. Le tensioni sociali e politiche che sono andate aumentando a partire dalla Rivoluzione islamica hanno avuto una accelerazione da quando i Riformisti sono emersi come una forza politica seria. Ciò a cui parlano è un insieme di preoccupazioni che si possono capire solo in un contesto iraniano. Fra i problemi inclusi c’è la questione pressante di come riconciliare la questione sempre più conflittuale del modo in cui la gente si comporta in privato nelle proprie case e negli spazi pubblici più restrittivi. Esiste inoltre la tensione, che è andata crescendo da oltre un decennio, fra il concetto di velayat e-faqih – la giurisprudenza clericale – e il desiderio di una rappresentazione democratica più significativa nel contesto di uno Stato islamico socialmente conservatore.

Cosa di importanza decisiva, inoltre, sia per i fautori della linea dura ansiosi di preservare l’eredità della rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini, che per i riformisti, a dare impulso alla crisi attuale è una piena anticipazione precisamente di ciò che accadrà a uno dei più importanti pilastri della Rivoluzione, il ruolo della Guida Suprema, che persino quella attualmente in carica, l'ayatollah Ali Khamenei, ha messo in discussione. E' stata inoltre portata al centro dell'attenzione la questione dei limiti della tolleranza dell'espressione politica che stanno cambiando, e dei termini nei quali vengono stabiliti da un regime sempre più nervoso, in uno Stato che gode di libertà maggiori di quanto si pensi generalmente, ma che rimangono rigorosamente circoscritte.

Infine, e forse più importante di tutto, c’è la questione di come le fragili istituzioni dell’Iran possono comporre una spaccatura crescente che – data la natura dell'aritmetica coinvolta da entrambe le parti – non può essere risolta né dalla posizione dominante della fazione di Ahmadinejad né da quella dei Riformisti.

Siamo in un momento cruciale, non solo per la nazione iraniana, ma per la geopolitica della regione più ampia. La sfida non è modellare la realtà dell’Iran nel modo che ci è più comodo; per confermare i nostri pregiudizi o le nostre speranze. La sfida è quella di capire. Perché solo capendo eviteremo di porre le condizioni per ripetere i peggiori errori dell’ultimo decennio.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

The Observer