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L'eresia come processo di polarizzazione della realtà

di Alberto De Luca - 09/07/2009


L’uomo vive nel dilemma di una Realtà che egli stesso si obbliga di definire razionalmente tramite uno sforzo
apprensivo ed infinito; tuttavia, questa fatica risulta infruttifera ed essa in ultima istanza gli rimane misteriosa.
Sintatticamente mitica, la Realtà, che è naturalmente in-dicibile ed in-audibile, colloquia attraverso il linguaggio poetico
del Siracide e risulta sostanzialmente tetragona al sillogismo, strumento principe invece del razionalismo ante litteram.
Il tentativo umano di spiegarla solo razionalmente risulta dunque inconsistente e, cronicizzandosi nel tempo, finisce per
assumere quei connotati fideistici che il razionalismo per antomasia addita quale cifra della stupidità.
Del resto, però, cos’è che ci convince di un ragionamento articolato intorno ad una cosa di cui non abbiamo mai avuto
esperienza diretta? Semplicemente il fatto che tale ragionamento possa confermare l’idea, l’impressione o l’opinione
che ci eravamo fatti di esso. In buona sostanza, ci fidiamo di una nostra idea e riteniamo valido quel determinato
ragionamento che premia la nostra fiducia. Ora, dire fiducia, significa già entrare nel campo semantico della fede e
quindi tutto, anche il ragionamento, sembra fondarsi imprescindibilmente su quest‘ultima.
Tutti i grandi interrogativi che l’essere umano si pone - e che si è posto -, dipendono in ultima analisi da quella
equazione personale, derivante dal rapporto instaurato con la Realtà e che può risolversi algebricamente in una
simmetria piuttosto che in una diseguaglianza.
La prima di queste due opzioni, seppure attraverso grammatiche e lessici diversi, è stata teleologicamente indicata nel
corso dei tempi quale modello da imitare, mentre la seconda appare l’esito accattivante ancorché naturale di un
volontarismo prometeico che tende a sovvertire il senso della Realtà, perché sostanzialmente ne rifiuta l’intrinseca
misteriosità. Una possibilità quest’ultima che raggiunge il suo massimo sviluppo nel rinnegamento dell’origine
misteriosa della propria personalissima vita.
Realtà, dunque, indica quel mondo percettibile ed esperibile eppure indagabile intellettualmente che può essere
percepito e considerato in due modi diversi, vale a dire staticamente oppure dinamicamente.
Nel primo caso, la staticità restituisce un mondo non relazionale, contraddistinto da una densità ontologica che indica
una condizione immutabile e monoliticamente refrattaria a qualsiasi cambiamento: a causa della sua logica esclusiva
(aut-aut) non permette il dispiegarsi di quelle enérgeiai creatrici, le quali sono le uniche invece a poter spiegare
l’ininterrotta presenza divina nel mondo.
Nell’altro caso invece, la Realtà è il prodotto della compresenza di due suoi aspetti, uno visibile ed uno non-visibile, che
durante un “gioco misterioso” si alternano, determinandone sempre un incessante ed infinita processione di fanie.
Ambedue essenzialmente validi, questi due aspetti restituiscono una Realtà che è massimamente antinomica proprio
perché l’affermano contemporaneamente, determinando quindi la compresenza di due formulazioni ugualmente vere ma
anche ugualmente false. Simile antinomicità, lungi dall’essere indice di confusione, è piuttosto la prova dell’esistenza di
uno spazio che si contrae e si dilata ed entro il quale sono ancora possibili infinite creazioni, proprio perché in esso ha
luogo un contrasto costruttivo tra ontologia e meontologia.
Per cercare di rendere simile idea, bisogna pensare alla trama di un ordito e più precisamente al continuo apparire-escomparire
del filo in essa: il filo rimane comunque tale sebbene a tratti non risulti visibile. La stessa cosa vale per la
visione dinamica della Realtà, laddove il poter essere anche non-visibile da parte di quest‘ultima, non implica pertanto
l’esistenza di un suo alter ego.
La ricusazione di questa particolare chiave di lettura assume i connotati di un’operazione di avulsione razionale:
dapprima, tramite il principio di individuazione, un determinato momento esperienziale, corrispondente ad un certo
aspetto della Realtà, viene isolato dalla sua unitotalità, per poi venire forzato ovvero reso assoluto, determinando quindi
l’oblio dell’altro aspetto, cui corrisponde l’altro momento percettivo.
È precisamente questo tipo di processo razionale che fonda l’eresia, la cui derivazione etimologica greca significa per
l’appunto “afferrare”, “prendere” e “scegliere”.
La difficoltà di accettare l’origine razionale dell’eresia risiede nella cementificazione storiografica che ha legato quasi
univocamente il concetto e la fenomenologia dell’eresia al dominio della religione. Se infatti è innegabile la sua
apparizione ed il suo sviluppo connesso all’affermarsi delle grandi religioni del mondo, bisogna però ricordare che a
quei tempi la tensione verso la ricerca della aletheia, intesa come totalità del reale, era riservata unicamente alla
religione ed a quella philosophia così intrisa fisiologicamente di sacralità, che attualmente non presenta alcuna
continuità con quella contemporanea.
Eretica è pertanto qualsiasi visione ideologica che scambi la parte per il tutto, come è stato il caso ad esempio dei vari
totalitarismi e dello stesso secolo dei Lumi declinatosi in Illuminismo e se la “eresiologia” è stata fino ad oggi
unicamente l’interessantissima storia religiosa dei tentativi incompleti dell’uomo di tendere a quella verità che è Realtà,
allora è necessario ampliarne la sfera di applicabilità.
Coerentemente quindi a quella metànoja che lo stesso secolo dei Lumi aveva portato e che oggi vede il tentativo di
“voci diverse” di imporsi sostituendo la religione con la propria equazione, l’eresiologia dovrebbe allargare
maggiormente i propri confini e gnoseoligicamente qualificare come eresia ogni tentativo di polarizzazione della Realtà,
uscendo pertanto dall’abitudine semantica di legare eresia solo a religione. Questo risulterebbe davvero interessante,
perché implicherebbe l’assunzione di una precisa posizione di fronte alla problematica possibilità che una variabile
equativa possa sclerotizzare.
La polarizzazione razionale sopra evocata è il precipitato della distrazione di una metodologia, di cui l’uomo si serve
per poter parlare della stessa Realtà con gli altri uomini: la divisibilità del Tutto possiede una valenza solo discorsiva e
non tocca minimamente l’essenza stessa, quindi se l’usum delphini di questo “poter ragionare” sulla Realtà viene
stornato, allora inizia il processo di fabbricazione di una realtà spuria che termina con l’adozione dell’eresia, vale a dire
appunto la decisione di scegliere una parte del discorso, reputandolo il discorso.
La maggiore conseguenza che ne deriva, è l’impossibilità di mantenere una visione armonica del Tutto, soggiacendo ad
una gnoseologia meramente dicotomica: fisiologicamente monca, l’eresia è destinata a perpetuarsi nell’autoalluccinazione
di scambiare la parte per il Tutto.
Coerenti allora alla personale convinzione che la storia si ripeta anche se mai in maniera identica (né totum novum e
neppure semper idem), evidenziamo la continuità tra il mondo contemporaneo e quello di Sant’Agostino riconoscendo
l’esistenza di un legame tra certi atteggiamenti diffusi nella società attuale ed alcune vecchie eresie combattute dal
Vescovo di Ippona.
Alludiamo così al fatto che l’indifferentismo, lo gnosticismo, il rigorismo anticlericale e l’autonomismo antropocentrico
siano oggi lo sviluppo e la nuova maschera di scetticismo, manicheismo, donatismo e pelagianismo.
La materialità storicistica ed il cosiddetto “pensiero debole” sono la continuazione dello scetticismo.
A quest’ultimo è impossibile, però, negare un indubbio valore lassativo contro ogni forma di dogmatismo: se in un
discorso critico, infatti, vengono adottate delle comprensibili cautele nell’esporre la propria opinione (dokein, da cui
deriva lo stesso dogmatismo), allora lo scetticismo è un elemento imprescindibile per ogni filosofia.
Inteso in questa maniera, lo scetticismo è sostanzialmente un metodo che può incorrere però in una mutazione radicale,
tale da farlo divenire un sistema.
Si manifesta allora una duplice contraddizione: la prima sarebbe pratica, giacché uno scettico non dovrebbe né dire
niente e nemmeno fare niente, dimostrandosi appunto coerente al prototipo di Cratilo (uno scettico non si siederebbe su
di una seggiola perché questa potrebbe essere invece una palla). La seconda contraddizione della sistemizzazione dello
scetticismo appare ancora più evidente ed attiene piuttosto al pensiero: è contraddittorio, difatti, usare il pensiero per
affermare che la verità non esiste, dato che non ci può essere pensiero senza verità, proprio perché qualsiasi
ragionamento, come accennato in apertura, convince l’uomo perché rende “verosimile” (e non può darsi
verosimiglianza senza verità) la sua impressione iniziale che è niente di più che un’apertura di credito, un atteggiamento
fideistico.
Ed infine, anche ammettendo che si possa dubitare di tutto, non si potrebbe dubitare del dubbio stesso e quindi della
certezza del pensiero.
Il revival gnostico che si manifesta nel rifiuto della generazione, è la maschera attuale del manicheismo che si sviluppa
intorno alla corrispondenza tra dualismo cosmico ed antropologico.
In questo senso, il Bene ed il Male sono compresenti tanto nell’uomo quanto nel mondo e ciò avviene in maniera
coeterna ed inestinguibile, mutuando così una situazione conflittuale che porta Dio a creare l’uomo per farsene un
alleato contro le potenze delle tenebre. L’uomo in compenso lo aiuta a togliere il Male dal mondo, evitando la
riproduzione della vita.
Deriviamo così, molto semplicisticamente, che l’esistenza dell’essere umano costituisca per Dio una necessità perché
solo l’uomo può limitare la stessa imperfezione divina (l’impossibilità di vincere da solo le tenebre) tramite un’azione
ascetica guidata da un principio cognitivo e finalizzato ad una sua completa acquisizione: la gnosi.
L’interpretazione e l’impiego semantico di questo termine non risulta però del tutto corretto nel caso dello gnosticismo,
soprattutto perché nell’opera di espunzione della gnosi dal suo contesto originario (le Sacre Scritture e le opere dei Padri
della Chiesa) essa viene arbitrariamente divisa dalle cosiddette “opere”, vale a dire le “azioni quotidiane” che l’uomo
compie perché informate dalla gnosi stessa.
La separazione della theoria dalla praxis e la sua conseguente assolutizzazione sancisce de facto uno iato ontoteleologico:
la conoscenza dell’essere non è più finalizzata ad una sua realizzazione pratica.
L’esasperazione del dualismo, che potenzialmente si annida nella piscologia umana e nello stesso cosmo, conduce
dunque ad un paradossale dualismo etico, in forza del quale può esistere un ascetismo totale - che rifiuta come
“malvagità” la bocca, la mano ed il seno e finanche il matrimonio e la procreazione - contrapposto ad un’indifferenza
totale alle leggi morali, che portava parecchi gnostici al di là del bene e del male tramite sfrenate licenze orgiastiche e
circuizione di minori.
In direzione diametralmente opposta conduce invece la Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, che propone di santificare il
sesso ed il matrimonio attraverso l’amore reciproco ed il dono della vita. Lo stesso Cristianesimo, infine, non considera
il corpo né bene né male. Esso è un mezzo in funzione dell’uso che se ne fa ed in questo preciso punto la religione del
Cristo sostituisce la dottrina greca dell’immortalità dell’anima con il novum della risurrezione della carne, così
scandalosa per ogni gnostico.
L’autonomismo antropocentrico è oggi la prosecuzione del pelagianismo, eresia che trae il proprio nome dal monaco
inglese Pelagio, il quale sosteneva che non c’era la necessità della grazia divina e che quindi l’uomo diventava
autonomo.
La salvezza era pertanto una conquista dell’energia morale e della libertà del soggetto. Applicazione consequenziale di
questi assunti in campo teologico era ad esempio l’inutilità del battesimo.
Il risultato cui arriviamo è il paradosso pelagiano che polarizza la Realtà soltanto nella libertà umana, dimenticandosi
però che nessuno è mai tanto libero come quando uno si sottomette alla verità. Quella grazia e quella libertà che sia i
manichei quanto i pelagiani vedono da prospettive opposte, tanto che per affermare l’una debbono sacrificare l’altra,
sono invece una cosa sola nella relazione teandrica: l’uomo trova se stesso solo quando trova il suo Dio.
Questa particolare forma di antropocentrismo contraddistingue sempre di più quella pletora di posizioni laiciste che
oggigiorno cercano di sostituire la fede religiosa con quella scientista. Un’analisi maggiore e più pacata, in realtà,
porterebbe a scorgere in questo laicismo una delle declinazioni ateistiche di un razionalismo che non riesce ad accettare
un fatto incontrovertibile, ovvero che laddove non ci sia esperienza diretta della Realtà, ogni ragionamento umano è
impotente ed inconsistente.
Il rigorismo anticlericale, qualche volta giustificato ma spesso divenuto un luogo comune, è la proposizione
dell’integralismo donatista.
Forse poco si conosce del donatismo, ma esso al tempo fu un vero e proprio pericolo pubblico. L’Editto di Milano (313
d.C) e quello di Teodosio (391 d.C.) iniziarono il lento processo che portò il Cristianesimo a divenire religione dello
stato e pertanto queste date potrebbero essere considerate lo spartiacque tra un Cristianesimo martirizzato e catacombale
- che custodisce un’adesione intimamente sentita e fisicamente difesa - ed uno “statalizzato” - la cui appartenenza,
quindi, risulta “più facile” rispetto alla fase immediatamente precedente.
In questo solco si collocò Donato che rivendicava il nome di cristiano solo a chi non avesse atteso l’egida statale per
farsi tale. Le reazioni violente dei donatisti si estrinsecavano nelle azioni dei circumcelliones, delle bande armate di
donatisti, che ferivano oppure uccidevano fedeli cristiani rei di non essere privi di peccato.
È molto facile comprendere che la pretesa di una Chiesa composta solo da “santi” urta non solo con il realismo ma
anche con la stessa parola del Cristo: buoni e cattivi coesistono nella Chiesa e sono in essa mescolati per tutta la durata
della vita terrena come bene esemplificano le parabole del grano e della paglia, della rete da pesca e del grano mischiato
all’erba cattiva.
Il valore dei sacramenti non deriva infatti dalla virtù del sacerdote (opus operantis) bensì dalla presenza nel rito del
dono di Dio.
Del resto la decisione di Cristo di fondare la sua Chiesa su Pietro, uomo che lo rinnegò per tre volte, dovrebbe far
meditare maggiormente chi si abbandona populisticamente a comode semplificazioni.
Nel moralismo pretenzioso dei donatisti, solerte più nell’accusare che nel capire i limiti degli uomini di Chiesa si
nasconde perciò un nuovo “fariseismo” o meglio un altezzoso clericalismo, che pretende che quella santità - fine della
tensione dell’uomo - ne sia già la caratteristica in itinere. Sant’Agostino al proposito fu chiarissimo: ci vuole
un’ecclesiologia concreta e realistica che si fondi sulla distinzione tra la santità della Chiesa e la debolezza degli uomini
di Chiesa.
Grandi, enormi sono le differenze che separano i tempi del Vescovo d’Ippona e quelli attuali, come ad esempio il fatto
che ai tempi del Dottore non si discuteva la religione bensì la sua realizzazione. Oggi, questo non è più possibile perché
ogni religione viene vissuta come “eresia”, scelta personale di fabbricarsi una religione che non richieda troppi sacrifici
ma che prometta rilassamento, “positività” ed irenismi infiniti.
Ciononostante , è possibile intuire che la crisi del Cristianesimo e del pensiero occidentale in generale passano anche
attraverso la ripresa in termini secolarizzati di queste quattro eresie archetipali. Diciamo secolarizzati perché le eresie
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non riguardano solo la religione, ma coinvolgono l’attività gnoseologica dell’uomo.
Di fronte all’individualismo, all’indifferenza ed al narcisismo, davanti alla morale della situazione de all’agnosticismo è
però ancora possibile a voce alta che esiste la Verità (contro gli scettici) e che essa si basa sulla sua autorità e non su
qualche strana composizione alchemica di coscienza personale e libero arbitrio, che la creazione e la corporeità sono un
bene (contro i manichei), che la vera libertà non è l’autonomia ma la risposta al dono della grazia (contro i pelagiani) e
che la Chiesa è santa anche se non lo sono tutti i cristiani (contro i donatisti).
Al cospetto dello sviluppo esponenziale di nuove teologie, che ripropongono strade già tentate in passato (vedi Vito
Mancuso ed il luteranesimo), ed a strane filosofie destrutturanti, come se non bastasse già la mancanza di un’autentica
struttura sensata e conformante, la Realtà attende di essere gustate e “pensata”.
Soluzioni interessanti arrivano, perciò, da tutti quegli autori che da tempo indicano in una philosophia mystica l’unico
strumento noetico in grado di supportare l’innato stupore che prova l’uomo di fronte alla Realtà.
Nella “semplicità” dello stupore si cela dunque l’in-audibile risposta ed al contempo la via che la Realtà stessa offre
all’uomo: la tua incapacità, uomo, di definire è la misura della tua stessa gnosi.