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Tempi moderni

di Mario Grossi - 13/07/2009

È venerdì mattina presto. È tutta la settimana che rimbalzo tra Bologna, Fiorano Modenese, Parma. Oggi dopo un passaggio in Toscana rientro a casa finalmente. Mi fermo in un Autogrill per prendere un caffè. Pago, mi avvicino al bancone per ordinare. La giovane inserviente si avvicina ed io le chiedo se mi può preparare un caffè. Non ho grandi speranze sulla sua qualità, sarà senz’altro una brodaglia calda ed insipida. La ragazza con fare automatico si volta verso la macchina. È allora che la vedo troneggiare sul bancone un po’ inquietante. La Nuova Cimbali, una delle più avanzate macchine da bar. È ultramoderna alla vista. Un parallelepipedo dagli angoli elegantemente stondati, tutta cromata e lucida. È costellata da tanti led luminosi, verdi e rossi e da pulsanti neri disposti simmetricamente tanto da farla assomigliare a una consolle della Nasa. A ogni pulsante corrisponde una targhetta policroma con un’immagine e una scritta: caffè corto, caffè lungo, caffè decaffeinato, cappuccino e così via. Nella parte inferiore spuntano, non molto visibili, dei tubicini da cui fuoriesce a richiesta il nero liquido che dovrebbe soddisfarmi il palato.

bar_fondo-magazineLa ragazza, svogliatamente sistema sotto uno dei tubicini la tazzina e schiaccia un bottone. La macchina fedele alla richiesta sforna il caffè. Nello stupore attonito sorbisco lo scialappone mentre dentro di me monta una rabbia sorda che peggiora di molto il mio umor nero. Esco dall’autogrill riprendo la macchina mentre nella testa a onde si risvegliano ricordi passati. Come l’ultima volta che a Napoli ho assaporato un caffè portentoso in un bar dalle parti della Stazione Centrale consigliato dal mio mentore e amico di S. Maria Capua Vetere che è anche il mio personalissimo fornitore di mozzarelle di bufala. Che differenza. Il barista aveva accolto me e mia moglie con un largo sorriso. Mi aveva offerto un bicchiere d’acqua (fondamentale nel rito del caffè) e, mentre armeggiava dosando la polvere, pressandola con cura nel filtro, prelevando la tazzina da quel “calidarium” in cui era immersa per scaldarla, manipolando le lunghe leve dell’antica macchina, mi spiegava in che modo sceglieva e testava le miscele che, a suo dire, erano uniche e da lui coprodotte insieme al suo fornitore di fiducia che adottava una tostatura particolare. La nera crema mi deliziò prima, con il suo aroma intenso, le narici, mi titillò la lingua e scivolò nell’esofago facendo esplodere il suo gusto rotondo in tutto il palato. Gusto persistente e paradisiaco. Quell’incontro lo ricordo soprattutto per la lezione che il barista-artista impartì a mia moglie, rea di aver chiesto un po’ di latte per macchiare quel liquido angelico. Lui indignato si rifiutò di darglielo ritenendosi (e glielo disse) offeso per quell’insulto alla sua arte.
Aveva ragione ed io, facendo arrabbiare ancora di più mia moglie, lo ringraziai per aver tentato di evangelizzare un’atea.

È tutta qui la parabola deprimente dei tempi moderni. Il degrado passa metaforicamente per quel barista- artista e per quel bottone schiacciato in modo automatico dalla ragazza e che mette in luce che cosa può significare la modernità e di come la modernità possa diventare un attentato alla vita.  Che cosa si nasconde dietro a quel bottone pigiato è presto detto.  Un automatismo anomico che ci costringe a gesti inconsapevoli privi di riflessione, una pressione senza senso che genera una sequenza di operazioni che non controlliamo e che non possiamo modificare.  Una mancanza di sapere che diventa superfluo visto che è sufficiente, senza nessuna comprensione, schiacciare quel bottone. A nulla ci servirebbe conoscere il processo che produce il caffè perché anche conoscendolo non saremmo in grado con una nostra personale modifica migliorarlo. La schiavitù che ci trasforma in un prolungamento della macchina, in un suo pezzo, se vogliamo anche inutile, visto che sarebbe sufficiente, in vece nostra, un pistone meccanico che a comando vocale dell’avventore schiaccia il pulsante giusto.

La demonìa dello standard che ci permette solo scelte coatte all’interno di ben definiti servizi che possiamo chiedere e senza poter deragliare neanche di un millimetro. Lo stesso sconcerto di fronte alla Cimbali lo provai in un mio viaggio negli Stati Uniti dove, nei ristoranti visitati, si poteva scegliere tra diversi menù numerati. Impossibile scegliere il menù 3 (che prevede patatine fritte come contorno) con insalata, il cameriere risponde che è fuori offerta. L’unica soluzione è ordinare due diversi menù e poi mangiarne solo le parti desiderate.

La complicazione che si fa dominio e (che passa per una finta semplificazione del gesto) che si estrinseca in macchine sempre più complesse, gestite elettronicamente da un processore centrale che controlla minuziosamente tutto. Complicazione del mezzo che gioco forza si trasforma in una finta semplicità d’utilizzo. Non essendo in gradi di capire il processo (per mancanza di sapere), non potendolo dominare perché troppo complicato, cedendo la sua gestione a un processore molto più sapiente di noi ci basta credere che quella macchina sia facile da usare. Basta schiacciare un bottone per sedare la nostra ansia. Per poi capire in quale trappola foriera di guai ci siamo ficcati nel caso qualcosa non giri nel verso giusto.

Una totale deresponsabilizzazione e spersonalizzazione visto che è la macchina a preparare il caffè. Noi abbiamo solo schiacciato il bottone e non ci sentiamo più responsabili della qualità finale del prodotto erogato e così ci comportiamo in maniera totalmente spersonalizzata. Non siamo noi gli artefici nel bene e nel male della qualità di quel caffè. Non siamo tenuti a scusarci nel caso di un pessimo caffè, ma non possiamo neanche sentire quel giusto orgoglio nel caso di un successo.

Esempi di baristi schiacciatori di bottoni ne esistono un’infinità. Il meccanico che, per riparare un led che si accende per un falso contatto, è costretto a ricorrere ai check elettronici per verificare gli apparati di un’automobile. Il medico che, per emettere una diagnosi, dimentico di quella sensibilità, esperienza, arte sottile che andava sotto il nome di “occhio clinico”, è costretto a ricorrere a una serie infinita d’analisi per poi non decidere nulla se non nuovi accertamenti. Il ragazzino che un tempo smanettava sul suo motorino, smontando candele e carburatori, modificando la marmitta, sostituendo testate e che oggi non saprebbe neanche svitare le carenature che avviluppano scooter più complicati di una navetta spaziale. L’artigiano che un tempo torniva, saldava, aggiustava pezzi, spellava cavi elettrici per rimettere in sesto l’oggetto con perizia che è costretto dalla sua insipienza, dalla complessità dei mezzi, dai costi alti delle riparazioni a sostituire animalescamente pezzi nuovi di cui non capisce il senso se non osservarne l’involucro esterno.

Certo la società di massa ci obbliga ad avere un numero crescente di baristi sparsi sul territorio nazionale per permetterci di sorbire un presunto caffè anche al bordo di una strada. Cosa impensabile fino a ieri. Ma per avere un numero elevato di baristi non si può pretendere che tutti acquisiscano conoscenza con un lungo tirocinio e apprendistato nelle botteghe d’arte. Bisogna inventare modi diversi che permettano una fruizione massiccia di quel bene. Bisogna contornarsi di macchine azionate con un bottone che si prendano la briga di sostituire la nostra capacità venuta meno o non appresa. Ma alla fine quello che ci tocca non è caffè ma un suo squallido surrogato che ne porta abusivamente il nome. Non sarebbe meglio per tutti tornare a un sistema più sapiente rinunciando a quei surrogati che tanto ci avvelenano la vita? È meglio farsi il palato amaro in ogni autogrill di autostrada per soddisfare un desiderio subitaneo sognare il prossimo viaggio a Napoli per tornare dal barista-artista che ci ripagherà di tanta attesa?

Quantità per qualità? O viceversa?

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