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Il tempo del Populismo

di Ernesto Galli Della Loggia - 13/07/2009

È possibile fare una ragionata difesa del populismo pur restando nell' alveo dei principi democratici, anzi magari proprio in nome di quei principi? Penso di sì. Penso cioè che oggi, in Europa, il populismo, o ciò che così viene chiamato, non sia altro, nella sua essenza, che un' ovvia reazione alla crisi proprio di quei principi, alla loro mancata traduzione in pratica da parte dei regimi che pure si dicono democratici. E dunque che esso, benché in certe condizioni possa avere effettivamente contenuti anche molto negativi, non sia però quel fenomeno da demonizzare sommariamente come invece fa gran parte del pensiero politica della sinistra, liberal, «democrat» o marxista che sia. La quale, come spesso le capita, è spinta a nascondere a se stessa le proprie inadeguatezze e le proprie sconfitte non solo negando ogni ragione al suo avversario, ma dipingendolo altresì come il male irrimediabile. Oggi il «populismo» è diventato il nuovo male assoluto che la sinistra vede agire sul palcoscenico della storia occidentale, e con la categoria di «populismo» essa tende ad etichettare ogni fatto sociale che le si rivolga politicamente ed elettoralmente contro. Fondamentalmente il populismo vuole essere la voce (soprattutto la voce di protesta) dei molti contro i pochi, dei «piccoli» contro i «grossi» - insomma del «popolo», come dice il suo etimo, cioè del demos. La sua radice è dunque la stessa della parola democrazia, e in più di un senso un quid di populismo ha costantemente accompagnato i momenti alti della storia della democrazia. Precisamente perché voce dei molti e dei piccoli contro i pochi e i «grossi», esso è destinato a ravvivarsi nei periodi di crisi economica, specialmente di crisi finanziaria. L' alta finanza, infatti, è popolarmente percepita da sempre come una sorta di chiusa conventicola, emblema del big business internazionale, i cui interessi sarebbero sostanzialmente contrapposti a quelli delle piccole e medie imprese industriali o commerciali, considerate invece più legate alla realtà nazionale. Nulla di più naturale dunque che una crisi come quella attuale, nata per l' appunto come crisi della dimensione mondiale del capitalismo finanziario, con il relativo emergere di fenomeni impressionanti di speculazione e di corruzione, diffonda un' ondata di populismo. Il quale, come di consueto, si esprime nella forma di un generale sentimento di discredito nei confronti dell' intero establishment, incluso quello politico in tutte le sue componenti, a cominciare da quelle socialdemocratiche. Le recenti elezioni europee ne sono state una clamorosa conferma. Questo è il punto chiave della denuncia che abitualmente si fa del populismo: proprio il fatto che esso si rivolga anche, o magari soprattutto, contro la sinistra è addotto come prova del suo carattere intimamente reazionario. Non ci si chiede tuttavia se ciò non sia per caso la conseguenza di qualcosa di molto profondo che è cambiato negli ultimi due-tre decenni nella sostanza delle forze di sinistra europee, e il cui effetto si è aggiunto a quello della crisi economica, per l' appunto alimentandone ancora di più gli esiti populistici. La conseguenza del fatto, per esempio, che le sinistre sono divenute parte integrante del sistema di comando politico e non solo; che esse ormai ne ispirano in larghissima misura l' ideologia e i valori dominanti specie di tipo culturale; che esse, infine, hanno spesso condiviso in modo sostanziale le politiche economiche liberistiche e pro-globalizzazione entrate ora in crisi. In tutta Europa, insomma, la sinistra rappresenta da tempo, a pieno titolo, il potere non meno della destra. Ma proprio perché ciò è quanto mai contraddittorio rispetto alla sua identità tradizionale e alla retorica con cui essa tuttora si autorappresenta, è naturale che quando come oggi il potere è messo tutto sotto accusa, è percepito nel suo insieme come inadeguato e inefficace, è allora naturale, dicevo, che sia la sinistra quella che finisce per pagare il prezzo più alto. Non per nulla il populismo è solito fare la sua comparsa precisamente quando gli attori politici tradizionali non sembrano più in grado di soddisfare le domande che si levano dalla società. Il populismo è innanzi tutto il sintomo di un' inadeguatezza profonda dei gruppi dirigenti tradizionali. Sono comprensibili, d' altra parte, i motivi per cui esso non gode di buona fama. Sono almeno due. Il primo è che, a differenza delle due grandi tradizioni ideologiche della nostra cultura politica (quella illuministico-liberale e quella illuministico-marxista) esso non si colloca dentro alcuna filosofia della storia. Il populismo non interpreta né il mondo né la storia, non profetizza dove vada l' uno o l' altra (proprio perciò non dà nessuna soddisfazione agli intellettuali speculativi, ma semmai a quelli immaginativi e passionali, ai Pasolini per capirci): esso si limita ad avere delle radicate antipatie, al massimo dei nemici. Di conseguenza - secondo motivo - esso sfugge in modo inquietante alla divisione destra/sinistra su cui da due secoli si fonda tutto il nostro discorso politico. Il populismo, infatti, è per sua natura un sentimento politicamente «informe», stenta a trovare una qualsivoglia «forma» politica e semmai tende a diventare protesta contro la politica, cioè qualunquismo: che ovviamente il mercato politico tradizionale non sa come maneggiare. Sono proprio la sua elementarietà intellettuale, la sua avversione verso l' alta finanza, verso il big business e il big government, gli elementi che spiegano come il populismo non possa che riscuotere l' avversione dei gruppi sociali che nelle nostre società detengono il monopolio dell' opinione accreditata. Ma se è vero che di populismo non si può vivere - anzi alla lunga si può morire - non è meno vero che una democrazia, se vuole essere davvero il governo del popolo, ha bisogno di una certa dose di populismo: in un quadro di regole, certamente, le quali però non devono diventare il paravento ideologico del dominio di fatto delle oligarchie, non devono servire a sbarrare il passo a nuove idee, a nuove forze, a nuovi valori. Il diffondersi di sentimenti e atteggiamenti populisti cui si assiste oggi in Europa è la prova che è accaduto invece proprio questo: una progressiva chiusura oligarchica delle democrazie liberali di cui è testimonianza indiscutibile la ormai riconosciuta incapacità dei loro sistemi scolastici di produrre la mobilità sociale che producevano un tempo. Le democrazie liberali sono andate sempre più sclerotizzandosi e richiudendo su se stesse intorno al dominio sociale di strutture di potere detentrici insieme dell' autorità politica, dell' egemonia economica e dell' influenza culturale: all' insegna di un' integrazione/complicità che è la vera causa della crescente impotenza innovatrice della politica, e dunque del suo discredito. Un' integrazione/complicità che ha trovato anche la sua ideologia di riferimento: quella del «politicamente corretto» che ormai regna sovrana su tutto il discorso pubblico occidentale, specie europeo. Ma non saranno certo le parti essenziali di tale ideologia - la valutazione positiva di ogni internazionalismo con relativa fiducia nella sua efficacia, l' accreditamento immediato di ogni moda all' insegna del modernismo culturale, il sostegno ad ogni «diritto» all' insegna dell' individualismo fruitorio, l' espansione degli apparati di ogni tipo con crescente delega agli «esperti», l' ostracismo preventivo e derisorio comminato a qualunque critica - non sarà certo nulla di tutto ciò a sbarrare la strada al populismo. È più probabile, temo, che ne rappresenti invece un sempre nuovo alimento