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G8 Addio

di Stefano Zoja - 13/07/2009

In tre giorni di incontri il G8 de L’Aquila non è andato oltre una serie di conferenze stampa e documenti zeppi di buone intenzioni. Di fronte alla rapidità delle trasformazioni globali, la formula stessa del meeting sembra inadatta a produrre altro che qualche sequenza buona per i telegiornali. E’ la fine del G8?



 


Obama e Berlusconi discutono. Dietro di loro il "palazzo del governo" è in macerie. Una metafora del G8?
Vertici internazionali se ne fanno troppi: lo ha detto Barack Obama, così la cancelliera tedesca Angela Merkel. Né, in un pianeta rimescolato dalle urgenze della globalizzazione, appare chiaro quale debba essere il formato di questi summit. A L’Aquila si è aperto con il G8, per passare il secondo giorno al G8+G5 (paesi emergenti) +1 (l’Egitto), e chiudere venerdì con un G20. Equazioni senza risultati.

 

Se ossequio alla democrazia e realismo geopolitico inducono a includere sempre nuovi paesi nei grandi incontri internazionali, la loro efficacia evapora con il diversificarsi e il configgere degli interessi intorno al tavolo.

Così restano soltanto il cerimoniale, i sorrisi e le pacche sulle spalle, amplificati da un sistema dell’informazione che, soprattutto a certe latitudini, sguazza nella retorica e nei dettagli ludici. Di questo G8 abbiamo colto le grandi tavolate e le foto in posa. E abbiamo visto Obama giocare a basket in camicia e spiare il fondoschiena di una delegata brasiliana, o il presidente egiziano Mubarak fare colazione con funghi saltati in padella.

Politica e potere da sempre hanno bisogno di autorappresentarsi. Lo scrutinio del vestire, del mangiare e del comportarsi dei leader che la stampa compie a questi summit è il lasciapassare compiaciuto con cui la politica guadagna la visibilità mediatica che desidera. Ma il gioco di sponda fra i leader e i media sembra quasi esaurire il senso di questi eventi.

Dunque anche il G8 de L’Aquila, stretto fra i due G20 che si svolgono quest’anno (a Londra nell’aprile scorso e a Pittsburgh in novembre), non ha prodotto novità vere. I documenti conclusivi redatti nei diversi ambiti appaiono spesso dichiarazioni di buoni intenti, le cui risorse e modalità concrete di attuazione di rado vengono indicate. Ecco, in sintesi, i principali ambiti di lavoro:

- Clima: il riconoscimento, siglato dai paesi del MEF (Major Economies Forum, qui erano in 17) della necessità di contenere l’aumento della temperatura entro i due gradi dall’inizio dell’“era industriale” è un passo avanti a livello diplomatico, per quanto vago nei termini. Ma dai già modesti obiettivi concreti di lungo termine (dimezzamento delle emissioni globali e riduzione dell’80% per i paesi del G8 entro il 2050) si è sfilata la Cina insieme alle altre economie emergenti. L’accordo, resta così zoppo, sia perché non include diversi paesi determinanti, sia perché indica solo obiettivi di lungo termine, astenendosi da proposte più immediate e verificabili.

Logo del G8
A fatto molto discutere la decisione di spostare il G8 dalla Maddalena a L'Aquila. Operazione riuscita?
Inoltre se è vero, come dice l’attivista indiana Vandana Shiva, che ci sarebbe bisogno di ridurre le emissioni del 90% entro il 2030, si capisce come oggi la politica stia ancora discutendo di obiettivi molto timidi. Mentre l’economista americano Jeremy Rifkin ha definito l’accordo “ridicolo”. Arrivano, quindi, segnali modesti in vista del vero appuntamento per il clima: la Conferenza di Copenhagen a fine anno.

 

- Crisi economica: in questo ambito il vertice non è andato oltre alcune enunciazioni di principio, come la necessità di lavorare per una maggiore liberalizzazione degli scambi commerciali globali e di comprimere il protezionismo. Ma il modesto rimbalzo delle economie di alcuni paesi ha scoraggiato il dibattito sulle misure statali di stimolo all’economia, che alcuni vorrebbero già decurtare. L’intervento pubblico sembra stia già passando di moda. Latitano anche le misure per una più stringente regolazione del sistema finanziario: ci si è limitati alla stesura di alcuni, scontati principi.

- Africa: è stato definito un nuovo fondo da 20 miliardi di dollari destinati all’Africa nei prossimi tre anni per combattere la fame. La cifra è considerevole, ma in realtà si tratta in parte di risorse già previste e dirottate su questo nuovo strumento, e in parte, semplicemente, di aiuti già promessi in passato e mai giunti in Africa. Al di là dello sforzo finanziario, comunque, la questione principale riguarda la necessità di indirizzare i soldi in modo che arrivino davvero al sistema agricolo dei paesi africani, senza disperdersi nei mille rivoli della corruzione. Il modello degli aiuti all’Africa va ripensato in termini di efficienza e di autonomia del continente.

- Iran: anche in questo caso i Grandi sono rimasti alla finestra, per vedere quali esiti produrrà la rivoluzione verde, oltre ai rivolgimenti interni al clero sciita che controlla il paese. Il movimento popolare iraniano ha agito finora con determinazione e intelligenza strategica. Ma per i paesi occidentali, come Obama ha colto fin dall’inizio, prendere una posizione decisa avrebbe offerto a Khamenei il pretesto per schiacciare il movimento con una violenza ancora superiore. Al G8 si è dunque preferito evitare condanne formali, così come si è lasciato cadere anche il tema della corsa al nucleare nella repubblica islamica, in attesa di conoscere le sorti del paese.

Nessuna delle decisioni prese in questi giorni al G8 avrà ripercussioni concrete. Le difficoltà oggettive, o più spesso le divisioni interne fra i paesi partecipanti, lo hanno impedito. Sembrano del resto delinearsi due fronti dagli interessi in parte contrapposti: il declinante club dei paesi occidentali, il vecchio “primo mondo”, e i nuovi attori globali, nazioni i cui recenti successi economici stanno ridisegnando la mappa del potere globale. Sta nascendo un nuovo multilateralismo dalle geometrie ancora indefinite, mentre il G8 è in scadenza. Forse non sopravvivrà nemmeno come morbido salotto da conversazione.

 

Leader G8
La foto di gruppo dei "leader" riuniti a L'Aquila
Due cose di questo vertice a L’Aquila restano comunque nella memoria. Due immagini che hanno saputo bucare la retorica. Da un lato Obama, il primo presidente nero, che fa in tempo a partecipare a uno degli ultimi G8, per poi volare in Africa per la sua prima visita ufficiale. Ovunque vada i suoi messaggi restano calibrati, soppesando realismo politico e rottura col passato. Obama è simbolo e, insieme, una delle leve del riequilibrio della globalizzazione.

 

L’altra immagine che resta in mente è quella della città che ha ospitato il vertice, L’Aquila. Si può discutere a lungo sulla motivazione del trasloco fulmineo dalla Maddalena, ma è difficile negare che questa ribalta abbia rimesso per qualche tempo la città e la sua gente al centro dei discorsi. Il lacerato territorio d’Abruzzo non deve essere dimenticato, a dispetto delle cattive abitudini italiane e nonostante le correnti della globalizzazione creino nuove urgenze. Obama e L’Aquila, su piani diversi, sono attori della transizione, e sono destinati a rimanere con noi. A differenza del G8.