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Non sono gli altri a turbare le nostre vite: facciamo tutto da soli

di Francesco Lamendola - 14/07/2009


«L'Inferno sono gli altri», diceva Sartre, uno dei maggiori cattivi maestri della modernità; e riassumeva uno stato d'animo largamente diffuso, fatto di insofferenza, egoismo, invidia e competizione sfrenata nei confronti del prossimo, visto come un ostacolo e come un limite all'esercizio della nostra libertà totale.
Ma aveva torto.
Perché è vero che relazionarsi con gli altri è, spesso, difficile, al punto da mettere a durissima prova la nostra pazienza, la nostra disponibilità, la nostra istintiva benevolenza; ma è altrettanto vero che anche noi siamo «gli altri» per il nostro prossimo, e che non deve essere facile, nemmeno per lui, sopportare le nostre impennate, i nostri egoismi, le nostre diffidenze, e tutta quella parte oscura che è così facile vedere nei nostri simili, ma così difficile riconoscere in noi stessi.
Né Sartre aveva torto solo in questo senso, cioè nella evidente mancanza di reciprocità della sua affermazione: come se solo gli altri fossero un inferno per noi, e non anche noi, un inferno per essi; conseguenza perfettamente logica, del resto, di avere immaginato una libertà assoluta, che consisterebbe nella esplicazione totale e incondizionata dell'io di ciascuno, senza riguardi né scrupoli verso coloro che ci stanno intorno.
No, egli aveva torto anche in un senso molto più profondo: nel sopravvalutare enormemente, cioè, il potere di nuocere agli altri (ma, chissà perché, non altrettanto quello di fare del bene), e di non tenere in alcun conto il fatto che i nostri primi e più temibili nemici, siamo noi stessi: al confronto, gli altri sono delle entità assolutamente trascurabili.
Proviamo a spiegarci.
È vero che ciascuno di noi ha una ben precisa responsabilità per come agisce nei confronti degli altri (e anche, ovviamente, se decide di non agire affatto, specie in quelle situazioni che richiederebbero, invece, un qualche tipo di intervento); ma è altrettanto vero che non bisogna esagerare l'effetto pratico di tali azioni.
La nostra responsabilità nei confronti del prossimo, è legata principalmente al fatto della intenzionalità della coscienza: vale a dire che noi siamo responsabili per l'intenzione con la quale ci mettiamo in relazione con il prossimo. Se la nostra intenzione è quella di nuocere, di far soffrire, magari di uccidere, noi siamo inchiodati a quella responsabilità, indipendentemente dal fatto che poi, magari per ragioni esterne e imprevedibili, la nostra cattiva azione possa andare a monte; e la stessa cosa vale per le intenzioni positive.
Tuttavia, quanto agli effetti concreti del nostro agire, il più delle volte siamo portati a esagerarli: perché resta sempre valida la legge fondamentale, secondo la quale è l'assenso della nostra coscienza che consente alle azioni altrui di agire in modo efficace su di noi; e, se noi neghiamo tale assenso, la nostra anima non potrà subire alcuna influenza (positiva o negativa che sia), ma, eventualmente, ciò accadrà solo alla nostra dimensione fisica.
Non è una distinzione da poco.
Prendiamo il caso di un uomo, o di una donna, che siano oggetto di intensi sentimenti di malevolenza, invidia, odio, da parte di un altro essere umano. Se lui, o lei, si lascia prendere nella loro spirale distruttiva, e reagisce con forza uguale e contraria, si ritroverà ben presto immerso nella palude delle vibrazioni negative, e tutta la sua anima ne risulterà offuscata e sofferente.
Non era un destino stabilito che finisse così; quell'individuo avrebbe anche potuto scegliere di reagire diversamente, ad esempio distogliendosi dai sentimenti negativi e proseguendo per la propria strada; oppure domandando dall'alto la forza necessaria a fronteggiare quella data situazione, al fine di conservare la propria pace e la propria calma interiore.
Se noi perdiamo la pace, non è per causa degli altri; non sono loro che ce la possono togliere: abbiamo fatto tutto da soli, ci siamo castigati con le nostre mani.
La stessa cosa avviene negli amori infelici, negli amori tragici, negli amori che si lasciano dietro solo cenere, polvere, amarezza e un infinito senso di vuoto.
L'amore è pienezza; e, se esso può trasformarsi nel suo esatto contrario, vuol dire che non era realmente tale, sin dall'inizio: noi gli avevamo imprestato i colori della poesia, per nascondere a noi stessi la nostra insufficiente maturazione spirituale, la nostra reale incapacità di amare e di essere amati (perché non solo amare, ma anche lasciarsi amare è un'arte).
Quando un amore si stravolge e lascia dietro a sé ferite dolorose, ciò significa che non era un vero amore, ma piuttosto una forma morbosa di attaccamento e un bisogno compulsivo di possesso e di gratificazione. Sono sbagli che si pagano cari: e il conto arriva sempre, prima o dopo; a nessuno è dato di farla franca.
In ultima analisi, quando gli altri ci feriscono, è perché noi non siamo riusciti a fare abbastanza chiarezza in noi stessi: se ci riuscissimo davvero, nulla potrebbe ferirci; anche se, innegabilmente, potremmo ancora trovarci in situazioni di sofferenza.
Occorre essere chiari su questo punto. Noi non possiamo evitare, in assoluto, la sofferenza: essa fa parte della nostra condizione di viventi.
Ciò che potremmo evitare, o, quanto meno, ridurre sensibilmente, è la sofferenza gratuita e distruttiva: quella che ci colpisce a tradimento (o meglio, che a noi sembra colpirci a tradimento) e dalla quale non maturano semi di ripensamento, redenzione e ricostruzione, ma solo desiderio di rivalsa, di vendetta e di crudeltà.
Naturalmente, un ragionamento analogo e speculare può essere fatto a proposito delle intenzioni positive, e delle buone azioni che da esse scaturiscono.
È importante nutrite intenzioni positive nei confronti del prossimo, ma non dobbiamo sopravvalutare l'efficacia che le nostre parole e i nostri gesti possono avere: la verità è che tali intenzione beneficano, in primo luogo, proprio noi stessi, immergendoci in una atmosfera spirituale luminosa e rinfrescante.
Quanto agli altri, il fatto è che noi possiamo giovare loro, solamente se e quando essi decidono di lasciarsi aiutare; ma, se essi non vi sono disposti, nessuna parola e nessun gesto, da parte nostra, sarà mai in grado di sollevarli.
Valgono a questo proposito le riflessioni che abbiamo svolto nel nostro recente articolo: «Incontri  felici» (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice): noi facciamo gli incontri importanti della nostra vita quando siamo maturi per farli; che le cose ci accadono, quando è giunto il tempo in cui ci devono accadere. Perciò può succedere che, se la nostra evoluzione spirituale è ancora molto imperfetta, le cose preziose ci passano accanto senza che noi riusciamo a vederle; e gli angeli che potrebbero soccorrerci, ci sfiorano, senza che riserviamo loro un solo sguardo.
Così pure, se il nostro sviluppo spirituale è avviato, ma ancora impastato di tendenze regressive e legato a false immagini di bene, può accadere che noi riconosciamo quelle situazioni e individuiamo quelle benefiche presenze; ma poi, per insufficienza di maturità e per scarsa consapevolezza, quello stesso incontro, che avrebbe potuto essere fonte di bene, diviene invece fonte di male: di sofferenza, delusione e scoraggiamento.
La bellezza delle cose è un riflesso della bellezza dell'Essere. Tuttavia, perché noi, menti finite, riusciamo a scorgerla, ciò dipende dal nostro livello di evoluzione spirituale: ossia, in ultima analisi, dal nostro stesso grado di bellezza interiore.
Pertanto, sia il bene che il male che gli altri possono farci, dipendono dal fatto che noi apriamo ad essi il varco e che permettiamo, oppure no, alla intenzionalità di un altro essere umano - negativa o positiva che sia -, di aprirsi la strada fino al centro della nostra anima.
Parlando in generale, noi occidentali tendiamo da sempre a sopravvalutare il ruolo svolto dalle circostanze esteriori: conseguenza del fatto che sottovalutiamo le potenzialità attive dell'anima, e tendiamo a identificare quest'ultima con gli eventi che la intersecano.
Per fare un esempio banale, noi siamo soliti dire: «Quest'oggi ho un terribile mal di denti, mi sembra di impazzire», identificando senz'altro il mal di denti con la totalità del nostro io e annullando la distanza che, in realtà, esiste fra i due ordini di cose.
In effetti, una cosa è il nostro io, e un'altra cosa è il mal di denti; ma, poiché siamo abituati a porci in una relazione di possesso con il mondo (tanto è vero che il nostro linguaggio sovrabbonda di pronomi e aggettivi possessivi, mentre ciò non accade presso altri popoli e altre culture), tale operazione mentale ci sembra del tutto logica e naturale. I denti che soffrono sono i MIEI denti: dunque, io soffro atrocemente.
In realtà, non dovremmo parlare (e pensare) così, ma dovremmo dire, semplicemente: «I miei denti, quest'oggi, patiscono forti dolori», recuperando così la distanza tra il fatto e il nostro giudizio - ed il nostro eventuale assenso - su di esso. Oppure: «Quest'oggi il mal di denti si fa sentire»; e non è un semplice trucco linguistico o una tecnica di autosuggestione (quantunque possa divenire ANCHE quest'ultima); quanto piuttosto una registrazione distaccata e oggettiva del fatto.
Che noi siamo i nostri denti, questo è tutto da dimostrare; anche se secoli di cultura materialista ci hanno abituati a considerare una tale identificazione come del tutto logica e naturale. Infatti, secondo il materialismo, tutta la realtà consiste di materia: che altro siamo noi, dunque, se non la nostra pelle, i nostri muscoli, le nostre ossa, i nostri organi?
I moderni maitres-a-pénser lo ribadiscono in ogni modo, ad ogni occasione: che cos'è la mente, se non il corpo? Ne abbiamo già parlato varie volte, in particolare nel saggio «Nell'ambivalenza corporea di Galimberti la riproposizione di un relativismo radicale» (anch'esso sul sito di Arianna), a commento del suo famoso libro «Il corpo», del 1983. Per essi, tutto è corpo; e l'anima, è roba da vecchiette del secolo scorso.
Costoro non si rendono conto dei meccanismi perversi che questa identificazione comporta: inebriati dal sapore di libertà che la loro sedicente «rivoluzione del corpo» evoca in maniera superficiale, non vedono gli effetti negativi di essa.
Se tutto è corpo, allora un banalissimo mal di denti può somigliare pericolosamente ad una vera e propria devastazione dell'io; un male di denti un poco più forte, comporta una sorta di distruzione della coscienza.
Questo, però, significa conferire alle circostanze esterne un potere smisurato su di noi, un potere che non sarebbe realmente in esse, ma che siamo noi ad attribuire loro. È come se scambiassimo delle ombre per qualcosa di reale, e ci consegnassimo nelle mani di una forza tirannica e incontrollabile che noi stessi abbiamo evocato.
Se ci mettiamo in simili condizioni, a dispetto di tutto lo sbandierato potere che esercitiamo sulla natura mediante la scienza e la tecnica, ciò significa che non crediamo realmente in noi stessi; che abbiamo una bassissima opinione del nostro io profondo. E come meravigliarcene, se la maggior parte degli occidentali è fermamente convinta di non possedere affatto un'anima, né un principio spirituale indipendente dal corpo in cui abita?
In Oriente, non sono rari coloro i quali, mediante un rigoroso percorso spirituale, sono giunti a sottomettere il corpo, sino al punto da sospenderne le funzioni vitali o da annullare le leggi della gravità: possono librasi in aria e possono riemergere dalla terra, dopo una sepoltura di parecchie settimane, durante la quale hanno contratto le pulsazioni cardiache fino ad annullarle, e hanno sospeso il respiro (entrambe le operazioni sono considerate impossibili dalla scienza occidentale, come si può leggere in qualsiasi manuale di fisiologia umana).
Lo ripetiamo: le cose ci accadono quando noi siamo pronti per esse. Solo quando noi ci siamo arresi alle forze negative, gli altri possono farci realmente del male; e solo quando abbiamo deciso di aprirci a quelle positive, possono farci del bene.
Perciò, nella maggior parte dei casi, quando soffriamo e quando godiamo, non dovremmo sopravvalutare l'importanza degli altri: siamo noi a fare tutto da soli.