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La cacciata dei moriscos dalla Spagna. Memoria e attualizzazione

di Franco Cardini - 14/07/2009

Fonte: identità europea

Si legge con un senso di pena, e non senza commozione, la bella pagina che Juan
Goytisolo dedica, su “L’Internazionale” del 26 giugno scorso, all’episodio –
semisconosciuto fuori della Spagna – della cacciata dal regno iberico, tra 1609 e 1614, di
tutti i moriscos, cioè degli spagnoli (soprattutto andalusi della regione di Granada) d’origine
arabo-berbera e che, originariamente musulmani, si erano per la verità convertiti al
cristianesimo, ma sovente sotto la pressione intimidatoria delle autorità oppure addirittura
forzatamente, per decreto legge: e che dunque, per una serie di motivi che andava dal loro
aspetto ai loro persistenti costumi al sospetto che fossero intimamente restati musulmani,
impedivano secondo re Filippo III d’Asburgo e il suo ministro duca di Lerma l’integrazione
di un paese attraversato da forti differenze etniche ma la cui unità nazionale era stata
compiuta nel segno della Reconquista e della liberazione dai moros. Una “liberazione” che
del resto non sarebbe mai stata né possibile, né perfetta sotto il profilo storico-culturale.
Sette secoli di presenza arabo-berbera avevano e hanno lasciato tracce profonde nella storia,
nella cultura, nell’arte, nel folklore e soprattutto nelle due lingue più diffuse nella penisola
iberica, il castigliano e il catalano. Oggi, in Spagna, la tendenza largamente condivisa è
quella di recuperare e valorizzare le radici non solo cristiane, che sono profondissime, ma
anche ebraiche e arabo-berbere di un’identità nazionale che, come sempre accade, non nasce
dalla “purezza” di origini esclusive – che esistono solo nelle ideologie razzistiche – bensì
nella viva sintesi dalla quale nascono le autentiche tradizioni. E di tale consapevolezza gli
spagnoli dettero prova durante il secondo conflitto mondiale, allorché la diplomazia iberica
si distinse in tutta Europa per il soccorso e l’appoggio dato agli ebrei perseguitati, molte
migliaia dei quali furono salvati da un passaporto rilasciato loro – ebbene, sì – dal governo
franchista. E anche questa è storia che non si cancella: e che Israele ha riconosciuto e
onorato esplicitamente.
Goytisolo presenta in anteprima il libro Moros, moriscos y turcos en Cervantes di
Francisco Márquez Villanueva, dove si rammenta tra l’altro come, tanto nel Don Chisciotte
quanto in un’opera “minore” ma estremamente importante, il Dialogo dei cani, il grande
Miguel de Cervantes – ch’era stato prigioniero dei musulmani in Africa e aveva combattuto
a Lepanto – si esprima con la dovuta e indispensabile circospezione, ma anche in termini
molto rigorosi, contro le vessazioni alle quali venivano sottoposti tanti suoi compatrioti
d’origine arabo-berbera. Nel libro presnetato da Goytisolo si esamina anche il
cinquecentesco Tratados acerca de los moriscos de España di Pedro de Valencia, ebreo
convertito, allievo dell’ebraista Benito Arias Montano e pensatore antiscolastico e
antitridentino. Anche i cristianos nuevos di origine ebraica, a loro volta convertiti – e non
sempre spontaneamente -, temevano la politica di limpieza de sangre nel nome della quale
si discriminavano e si sottomettevano a umiliazioni d’ogni sorta i neoconvertiti, ch’erano
buona parte della popolazione iberica specie meridionale.
E’ d’altronde giusto presentare, al riguardo, quattro ordini di considerazioni.
In primo luogo, la politica di forzata integrazione religiosa perseguita in Spagna
durante tutto il Cinquecento – giusta o meno che fosse: e per noi moderni certo non lo fu –
aveva provocato una serie di reazioni anche dure, come nel 1569-70 la rivolta dell’Alpujarra
e le guerre di Granada, dopo gli editti che imponevano la conversione forzata e vietavano
l’uso della lingua araba: ed era obiettivamente impossibile, giunti a quel punto, non
proseguire con una coerenza che certo ebbe aspetti crudeli sulla via di una cristianizzazione
sentita come necessario carattere nazionale spagnolo.
In secondo luogo, tale via fu comunque tutt’altro che supinamente accettata
all’interno del ceto dirigente spagnolo e delle stesse gerarchie ecclesiastiche: molte furono le
voci che si levarono contro quella politica, anche perchè vivissima era la coscienza che una
fede non può essere imposta per legge e presente la consapevolezza del danno irreparabile
che i provvedimenti di espulsione arrecavano all’economia, al commercio, all’agricoltura
del mondo iberico del tempo (in effetti, la cacciata dei moriscos fu uno dei fattori della
decadenza e dell’impoverimento della Spagna del Seicento).
In terzo luogo, i sostenitori della necessità della dispersione dei neoconvertiti,
insistendo sulla loro inaffidabilità, sottolineavano anche com’essi avrebbero potuto essere
una formidabile “quinta colonna” in caso di aggressione delle coste spagnole del
Mediterraneo dal Nordafrica. Si era nei tempi caldi dell’affrontamento tra l’Europa cristiana
e l’impero ottomano, del quale i principati corsari maghrebini erano vassalli: il pericolo di
venire assaliti e di finir come schiavi e rematori forzati di galee non era aleatorio (ne seppe
qualcosa lo stesso Cervantes).
In quarto luogo, la strada della “pulizia etnica” (ed etno-religiosa), un incubo che
oggi sembra tornato ad aleggiare sul mondo, venne imboccata dalle autorità spagnole, con il
consenso di alcuni prelati (non di tutti): e la Chiesa cattolica nel suo complesso si guardò
bene dall’approvarla esplicitamente. Semmai, va detto che misure del genere erano o
stavano per essere largamente praticate in tutta l’Europa del tempo. Le guerre di religione,
prima in Francia e quindi in tutta Europa, condussero con i trattati di Westfalia del 1648 alla
generalizzata applicazione del principio del cuius regio, eius religio. Lo spettacolo doloroso
delle migliaia di donne e di uomini costretti ad allontanarsi dalla loro patria e magari
separati dai loro cari, che Goytisolo evoca con efficacia a proposito della tragedia dei
moriscos tra 1609 e 1614, si era già proposto in molte parti dell’Europa sconvolta dalla lotta
tra cattolici e protestanti: e di lì a poco si sarebbero viste torme di poveri sassoni cattolici
costrette con la forza a dirigersi verso la cattolica Baviera, e torme di non meno poveri
bavaresi protestanti espulse dalla loro terra e obbligate a chiedere asilo ai principi luterani.
Questi argomenti vanno tenuti ben presenti, al fine di contestualizzare in modo
storicamente corretto la triste pagina richiamata da Goytisolo, che altrimenti rischierebbe
solo di alimentare ulteriormente la “leggenda nera” che avvolge la storia spagnola o magari
di provocare ulteriori “richieste di scuse” da parte della Chiesa cattolica.
Ma un altro pericolo va fatto notare. Quello dell’attualizzazione, al quale Goytisolo
non sfugge. Senza dubbio, certe analogie colpiscono e quasi spaventano. Quando si legge
che alcuni personaggi del governo spagnolo dell’epoca insistevano sul pericolo che i
moriscos, se fossero stati lasciati in pace, con la loro prolificità avrebbero minacciato di
sommergere demograficamente i cristiani, e magari si spingevano a chiedere come rimedio a
ciò non solo la deportazione ma perfino la castrazione, il pensiero corre subito alle proposte
recenti di alcuni deputati estremisti della Knesset nei confronti dei palestinesi: proposte che
del resto il parlamento israeliano ha respinto con sdegno.
Tuttavia, le analogie tra casi in apparenza simili o analoghi verificatisi in tempi
differenti sono sempre svianti: e spesso in malafede. Istituendo un sia pur implicito paragone
tra quel che accadde nella Spagna di quattro secoli fa e quel che succede oggi (la cacciata
dei moriscos “primo esempio europeo delle sanguinose pulizie etniche del Novecento”), si
sottintende in qualche modo una continuità e un’omogeneità tra quell’episodio e quelli cui
oggi assistiamo; e s’insinua pertanto che la ragione ultima delle pulizie etniche attuali risieda
sempre, in un modo o nell’altro, in un pregiudizio di tipo religioso. Il solito escamotage
della fede accusata di essere radice estrema e primaria dell’intolleranza.
Non è così. Il fatto religioso poteva ben essere primario nella Spagna del Seicento.
Ma da allora ad oggi c’è stata una profonda soluzione di continuità, segnata da una serie di
rivoluzioni: la scientifica, l’industriale, la tecnologica, oltre a quelle politiche (la inglese,
l’americana, la francese). le pulizie etniche di oggi, anche quando avvengono all’insegna del
fondamentalismo religioso, sono figlie di una Modernità che – lo riconosca volentieri o no –
è profondamente radicata nel materialismo, nel razzismo biologico, nel sempre risorgente
fantasma sanguinoso del nazionalismo. Non a caso, furono non già i musulmani ortodossi
dell’impero ottomano, bensì i massoni, progressisti, nazionalisti e semiatei “giovani turchi”
a perpetrare il modello dei genocidi novecenteschi, quello contro gli armeni. Se la Chiesa
cattolica e i cattolici spagnoli dovrebbero – secondo la moda di oggi – “chiedere scusa” per i
moriscos deportati quattro secoli fa, è la Modernità laica che dovrebbe “chiedere scusa” per i
massacri odierni (a partire da quelli coloniali del Sette-Novecento). Non sembra sia disposta
a farlo. Ma ogni civiltà ha i moriscos che merita.