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Contra “utopia”

di Stefano Di Ludovico - 14/07/2009


Ogni pensiero che si presenta come radicalmente critico o alternativo rispetto allo stato presente delle cose suole spesso essere bollato - o presentarsi esso stesso - come “utopico”. Anche l’“antimodernità” è quindi un’“utopia”? Sembrerebbe di sì, se consideriamo la distanza – e quindi l’irrealizzabilità quanto meno nell’immediato – che separa la visione del mondo da noi propugnata dalla realtà circostante. Ma, a guardar bene, le cose stanno alquanto diversamente. Quella distanza che ci fa apparire “utopici” è in realtà solo una contingenza, un fatto accidentale, dovuto allo specifico momento storico nel quale noi con le nostre idee ci ritroviamo ad operare. Perché, a rigore, la visione, ed in genere la mentalità, il sentire “antimoderni”, dovrebbero rappresentare l’antitesi stessa di ogni mentalità utopista, idealista o sognatrice che dir si voglia.

Carl Schmitt, forse il più grande giurista del XX secolo, individua proprio nell’“utopia” l’esito estremo del pensiero politico-giuridico moderno, e più in generale della mentalità stessa da cui è scaturita la modernità. Se infatti questa si presenta innanzi tutto come “trascendentalismo”, ovvero pensiero volto alla negazione della realtà di fatto e del mondo così come esso storicamente si è andato costituendo, in nome di un mondo puramente ideale e dedotto a partire dalla sola astratta “ragione” umana, l’utopia rappresenta evidentemente l’esasperazione massima di tale modo di vedere e di relazionarsi al mondo. In altre parole, se la visione premoderna era fondata, in ultima istanza, sull’accettazione del mondo in tutte le sue sfaccettature, le sue contraddizioni, i suoi limiti, il suo carico di gioie e di dolori – accettazione dovuta principalmente al fatto che il mondo, nel suo complesso, era considerato quale manifestazione del “divino” e dunque come inviolabile da parte dell’uomo -, la modernità è frutto di una mentalità, di un sentire che, incapace di tale tragico ed eroico dir sì, si rifugia in mondi ideali, artificiali, sogni fumosi di universi senza contraddizioni e conflitti, pretendendo di rimodellare l’intera realtà sulla base di tali astrazioni.

Così, evidenzia Schmitt, se storicamente ogni diritto, ogni legge, ogni nomos è sempre stato innanzi tutto “nomos della terra” (da cui il titolo del suo capolavoro, Il nomos della terra appunto), ovvero diritto legato ad una specifica terra, ad uno specifico luogo inteso non in senso puramente geografico bensì culturale, come luogo della propria tradizione ed identità, l’utopia si presenta non a caso, secondo la sua stessa etimologia (ou-tópos, non-luogo), come nomos che non sta in nessun posto, da nessuna parte, se non, evidentemente, nella testa di chi l’ha creato ed immaginato; nomos quindi astratto ed indeterminato che non si lega ad alcuna cultura o tradizione storicamente definita. E cos’altro è la modernità se non il sogno, il progetto di edificare un mondo che, facendo tabula rasa di ogni tradizione e di ogni storia, vuole fondarsi sulla sola “ragione” nell’intento di eliminare dal mondo le sue contraddizioni, i suoi “limiti”, il suo presunto “male” e realizzare così il “migliore dei mondi possibili”, il Paradiso in Terra? Ma un siffatto paradiso non può che essere un “paradiso artificiale”: il mondo della Tecnica che pretende di aver messo al sicuro l’uomo recidendo il cordone ombelicale che lo teneva legato alla “natura” e alla “storia” e dispensandogli un benessere ed una felicità del tutto artefatti e virtuali non è la realizzazione stessa dell’utopia moderna figlia dei Lumi e della filosofia positivista?

In tal senso, secondo Schmitt, il pensiero utopico costituisce l’approdo ultimo dell’evoluzione del diritto europeo, secondo quella prospettiva delineata in Terra e mare, splendida “riflessione sulla storia del mondo” (come recita il sottotitolo dell’opera): al diritto della “terra”, espressione degli Stati europei continentali, che è diritto del “limite”, diritto fondato sul limes, sul “confine”, perché ogni civiltà, ogni tradizione è “delimitata”, “confinata” ad una terra, ad un orizzonte spaziale circoscritto, si va progressivamente sostituendo il diritto del “mare”, emerso con l’affermarsi della potenza inglese, ovvero della potenza marittima, talassocratica. Ed il mare, a differenza della terra, non ha confini, non ha “limiti”, e perciò stesso tale diritto si presenta come diritto “astratto”, diritto della ragione universale e cosmopolita, che dal mare, secondo uno sviluppo che vede gli Stati Uniti ereditare il ruolo che prima era stato dell’Inghilterra, riesce a poco a poco ad avere la meglio sul suo nemico storico, il continente, finendo progressivamente per fagocitare la terra stessa ed avviando quel processo di globalizzazione che sradica ogni cultura ed ogni civiltà in nome dell’utopia di un’umanità generica ed astratta e per tanto “marittima” - “liquida” direbbe oggi Bauman - ovvero sciolta da ogni tradizione e da ogni identità.

Da qui l’inevitabile sbocco “totalitario” del pensiero utopico: svalorizzando come irrazionale, come “malvagia”, ogni civiltà fondata sulla terra, il pensiero utopico vuole rifondare il mondo secondo parametri uniformi e validi per ogni tempo e per ogni luogo. Il suo sogno è di costruire l’“uomo nuovo”, non più legato ad una tradizione, ad una “patria”, ma “cittadino del mondo”, ovvero di un non-luogo, dedotto sulla base dei principi della sola “ragione” e scevro da ogni contaminazione materiale, storica, “terrestre”. Sappiamo dove conduce una simile prospettiva, sappiamo qual’è il prezzo da pagare per l’avvento del Paradiso in Terra: lo sradicamento, la cancellazione, il genocidio culturale - e se è il caso anche fisico - di popolazioni e genti testardamente radicate al suolo, alla terra, e la violazione, la devastazione della natura, del cosmo, perché alcun limite, alcuna resistenza possa ostacolare il cammino verso le “magnifiche sorti e progressive”. Alla fine, dietro ogni utopista si nasconde sempre un mostro che ha sete di sacrifici e di sangue: come abbattere, altrimenti, la storia, la realtà, il mondo che, inevitabilmente, rialzano la testa? Come abbattere il “concreto” – per dirla con Hegel - che si riappropria dei suoi diritti contro la furia distruttrice dell’ “astratto”? E così i giacobini le teste han finito per tagliarle ed i bolscevichi per rinchiuderle a marcire nei gulag; giacobini e bolscevichi che di tutti gli utopisti moderni sono i padri. Proprio coloro che più di ogni altri si sono presentati come “i buoni e i giusti”, gli “incorruttibili” che volevano eliminare il “male” dal mondo e costruirne uno migliore, si sono tramutati nei peggiori criminali. Esito scontato quando si pretende di cambiare il mondo “negando” il mondo stesso. Ma chi di furia distruttrice ferisce, di furia distruttrice perisce…: non si è incamminato l’uomo moderno lungo la stessa folle strada suicida, prossimo a soccombere per mano del mostro tecnico da lui stesso scatenato proprio come i giacobini per mano della stessa ghigliottina?

Noi antimoderni con il mondo e con l’uomo, come essi sono e sempre sono stati, vogliamo invece riconciliarci, e, al di là della contingenza storica che ci pone, paradossalmente, in rotta con essi ma non a caso proprio contro gli utopisti che hanno voluto negarli, al mondo e all’uomo dire nuovamente sì. E contro il “non-luogo” vogliamo riaffermare il limes, contro il mare la terra, perché “secondo la nostra umana storia ed esperienza, […] tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato ad una tradizione” (Martin Heidegger).