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Davanti all'immensità della natura non ci si può sentire che piccoli e inadeguati

di Francesco Lamendola - 15/07/2009


Non occorre arrampicarsi sulle vette delle Alpi per sentirsi piccoli e fragili davanti all'immensità della natura, né sfidare l'oceano in tempesta su una modesta imbarcazione, o magari trovarsi ai piedi di un vulcano in eruzione.
È sufficiente affacciarsi all'aperto in una qualsiasi notte d'estate, una di quelle notti nuvolose e senza luna, che paiono dominate da un muto incantesimo.
Il cielo, d'estate, non è mai del tutto scuro, se non nelle ultime ore prima del mattino; e gli spessi nuvoloni s'intravedono, o meglio s'intuiscono, per il contrasto con l'aria più chiara dei tratti sgombri: ma anche questi ultimi devono apparire tali solo per la maggiore altezza dei banchi nuvolosi, dato che nemmeno una stella vi si affaccia.
Laggiù, verso la sagoma violetta delle montagne, le nuvole formano degli strati rigonfi che si adagiano mollemente sulle cime, e il confine tra queste e quelli scompare in un alone scuro indistinto, che pare una nebbia condensata a metà strada fra terra e cielo.
A parte l'eco lontana dei grilli, nessun rumore e nessuna luce turbano il silenzio e la quiete di questo paesaggio fantastico, surreale, con le sagome scure degli alberi che svettano contro il debole chiarore crepuscolare.
Il cielo appare così vasto da far venire le vertigini a colui che ruota lo sguardo su di esso, da un angolo all'altro dell'orizzonte; e l'aria fredda, che carezza ruvidamente la pelle, provoca un brivido che non è solo dovuto alla temperatura, ma anche al senso di sgomento davanti alla grandiosità della scena notturna.
È una di quelle notti d'estate che fanno quasi paura: davanti al loro mistero, all'immensa solitudine che sembra gravare su ogni cosa, pare di essere trascinati in un'altra dimensione, lontano da tutto e da tutti, e di trovarsi in presenza di paesaggi strani e inquietanti, come potrebbero esserlo i crateri della Luna o le desolate, gigantesche montagne marziane.
Lo spettacolo è di una bellezza severa, che sgomenta; e fa sentire non solo piccoli e fragili, ma anche terribilmente inadeguati, e, soprattutto, capitati non si sa come in un luogo proibito, dove non si dovrebbe penetrare senza uno speciale permesso.
L'uomo si crede superiore alla natura, perché sa costruire delle macchine che la sfruttano, la sporcano e la imbrigliano e perché, da pochi anni, ha spinto la sua audacia fino a manipolare le fonti stesse della vita; ma la realtà è che basta uscire in una notte d'estate nuvolosa e senza luna, lontano dalle luci e dai rumori degli uomini, per sentire chiaramente quanto la nostra presenza quaggiù sia solamente tollerata.
Ecco, ora il vento ha sospinto i cumuli di nubi gli uni contro gli altri, sino a formare una massa compatta che copre quasi tutto il cielo, ad eccezione di una zona limitata, verso mezzogiorno; mentre qua e là, lungo le linee di congiunzione, sussistono ancora delle strisce sgombre, lunghe e strette, attraverso le quali si vede il blu cupo della notte.
Nell'insieme, il colpo d'occhio che presenta questo cielo notturno ricorda moltissimo un vasto ghiacciaio che scende dai monti verso valle; o, meglio ancora, un ampio tratto di mare ghiacciato, lassù - o laggiù - presso le calotte polari, con alcuni sottili e provvisori bracci di mare libero, lungo i quali si possono immaginare le navi che avanzano affannosamente, con tutte le vele spiegate, in cerca di salvezza, prima che la morsa del pack le stringa inesorabile.
Sì, fanno quasi paura certe notti d'estate, quando il cielo nasconde le stelle, tutto è immerso nel silenzio e l'aria fredda abbraccia la pelle con il suo alito severo, facendola rabbrividire: ci si sente improvvisamente come smarriti, abbandonati a se stessi.
Eppure si tratta di una sensazione salutare, che dovremmo provare anche più spesso: il giusto correttivo alla nostra sciocca presunzione, all'arroganza che ci fa sentire padroni di ogni cosa: noi che non siamo padroni neppure dei nostri pensieri e dei moti del nostro cuore.
Di giorno, in mezzo al traffico cittadino, oppure osservando treni che corrono sulle rotaie e autostrade che scavalcano arditamente vallate o penetrano nel cuore delle montagne, il nostro animo si riempie di orgoglio, e ci sembra di avere in pugno il destino dell'universo: eppure sappiamo che, entro un tempo stabilito, dovremo lasciare questo nostro corpo e tutte le ambizioni e le speranze ad esso legate.
Di giorno, siamo ubriachi di un effimero senso di potenza e quasi d'immortalità; è solo di notte, anzi, in certe notti come quelle che abbiamo descritto, che il dubbio s'insinua come un tarlo nella corazza della nostra ignoranza e fa scricchiolare le nostre illusorie certezze, aprendoci, per converso, ad una visione più serena ed equanime delle cose.
Noi, domani, non ci saremo già più; e anche questi viadotti, queste gallerie, queste dighe, che sembrano destinate a durare per sempre, fra qualche centinaio d'anni non saranno che cenere e polvere. E già adesso, sulla terra, milioni e milioni di esseri viventi - fiori ed insetti, per esempio - non sanno neppure che l'uomo esiste; mentre dal pianeta Plutone, ai confini del nostro sistema solare - uno fra i tanti di una fra le innumerevoli galassie - il nostro pianeta è assolutamente invisibile ad occhio nudo.
Ma non occorre andare così lontano, per misurare tutta la modestia della presenza umana nell'Universo. Basta innalzarsi di qualche centinaio di metri nell'atmosfera, e già cessa del tutto il rumore delle città, della tecnica, del progresso; basta innalzarsi di poche migliaia di metri, e le nostre case e le nostre fabbriche, i nostri ponti ed i nostri trafori, diventano invisibili allo sguardo. Ancora qualche migliaio di chilometri, e nulla permette di arguire che la nostra Terra sia abitata dall'uomo: le sagome dei continenti e degli oceani, come pure le montagne e i deserti, non appaiono che come elementi della natura.
Davanti all'immensità della natura, dunque, non siamo solamente piccoli, ma inadeguati: crediamo di aver capito, e invece non abbiamo capito; crediamo di essere al vertice della creazione, e ci comportiamo in maniera indegna persino della nostra parte animale.
Che dire, poi, dell'immensità del mondo spirituale, la nostra vera patria originaria, rispetto al quale ci comportiamo come se non sapessimo nulla, non ricordassimo nulla, non aspirassimo a nulla? Il nostro comportamento quotidiano è talmente meschino, talmente miserabile, rispetto allo splendore infinito dal quale proveniamo, da far pensare - talvolta - che non siamo figli della luce, ma delle tenebre; che numerosi animali possiedono una consapevolezza maggiore di noi circa il proprio posto nel mondo.
La storia della filosofia occidentale è un po' la storia dell'umano tentativo di emanciparsi da questo senso di piccolezza e di inadeguatezza davanti alla natura e al mistero delle cose, secondo il celebre aforisma di Pascal: «L'uomo è soltanto una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa».
Di questa sua capacità di pensiero, tuttavia, l'uomo si è fatto un orgoglioso piedistallo per giustificare qualunque prepotenza e qualunque incoscienza nei confronti degli esseri, a suo giudizio, non pensanti: ideologia che, proclamata fieramente da Francesco Bacone, e, poco dopo, formalizzata da Cartesio, ha costituito il presupposto e il nucleo portante di tutto il pensiero moderno, e ha giustificato ogni forma di manipolazione, di violenza e di distruzione ai danni delle altre specie viventi, per non parlare della propria.
Forse è giunto il tempo di operare una revisione radicale di tale presupposto ideologico, e di ritrovare un po' di quel sacro timore che gli antichi e i cosiddetti primitivi hanno sempre nutrito davanti alla maestà della natura, indipendentemente dal loro livello di sviluppo tecnico: non c'è una differenza sostanziale, in questo senso, fra l'atteggiamento degli Egiziani costruttori di meraviglie architettoniche, o dei Caldei sommi conoscitori della volta celeste, e quello dell'ultima tribù di pastori nomadi dell'Asia Centrale o del Deserto del Kalahari.
In altre parole, dobbiamo recuperare il senso del limite e il senso del mistero: solo così saremo capaci di ridiventare piccoli davanti al prodigio del mondo; e solo nella nostra piccolezza saremo grandi abbastanza per accoglierlo devotamente e amorevolmente entro di noi.
L'incanto del mondo non si manifesta al Logos strumentale e calcolante, ma si rivela solamente all'anima capace di farsi piccola ed umile; all'anima che sia capace di meraviglia e di stupore; all'anima che sia capace di gratitudine e di compassione per se stessa e per tutti i viventi, umani e non umani.
Una scienza che non provi ammirazione, gratitudine e compassione davanti al mistero delle cose, non è una scienza veramente umana, ma una tecnica diabolica, come lo fu quella magia nera che, secondo il mito platonico, portò alla rovina la civiltà di Atlantide, quando essa era giunta al culmine della potenza e dello splendore.

*  *  *
Ormai tutto il cielo è coperto dalle nubi, eppure l'oscurità completa non si decide a scendere: strani, lunghissimi crepuscoli d'estate, che prolungano per ore ed ore l'agonia del giorno, e diffondono nell'aria una tenue luminosità opalescente.
La massa oscura delle montagne e la massa oscura delle nubi, cariche di pioggia, che premono su di esse si confondono e sono tutt'uno, di un viola cupo che si distacca dal biancore madreperlaceo dei banchi di nubi più alti, estesi da un capo all'altro dell'orizzonte.
In una notte così, esposti all'aspra carezza del vento freddo, ci si sente piccoli e soli, come se sul mondo fosse scesa una potente magia.
Guardando in lontananza, verso le sagome nere degli alberi le cui chiome oscillano al vento, si prova un senso di vastità sconfinata, che non è solo relativa allo spazio, ma anche al tempo; o, per essere più precisi, ci si sente come proiettati fuori del tempo, in una dimensione di eterno presente, che trasmette una inquietudine profonda, ma anche, al tempo stesso, un sorprendente senso di armonia, come se nulla potesse essere diversamente da come è.
Questo è il duplice aspetto delle cose, una volta che si sia imparato ad andare oltre il loro involucro esteriore: numinoso e rasserenante; e i due elementi sono intrecciati così strettamente, che risulta pressoché impossibile separarli. La numinosità è terribile, fa quasi paura; ma poi ecco che giunge il rasserenamento, frutto di un intimo senso di armonia.
Perché le cose, in se stesse, sono armoniose: e, se a noi sembra diversamente, è appunto perché non siamo capaci di spingere i sensi oltre la semplice apparenza (cfr. il nostro recente articolo: «La disarmonia non è nelle cose, ma nella visione distorta e parziale di esse», consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice).
Anche questa cupa notte di luglio è armoniosa, benché faccia quasi paura; e l'anima può trovarcisi perfettamente a proprio agio, se è disposta a rinunciare alle sue orgogliose certezze e alla sua brama di possesso, per abbandonarsi pacificata al fluire del tutto. È una porta stretta: per accedervi, occorre sbarazzarsi del superfluo.
Per riuscire a ritrovare l'intima armonia con il mondo, l'anima deve imparare a farsi piccola e a mettersi in ascolto; deve far tacere i rumori inutili, ed esercitarsi a non guardare più con gli occhi del corpo, ma con la vista interiore.
Adesso la brezza notturna sta rinforzando, è divenuta un vento gagliardo che porta un grato odore di terra bagnata, di boschi e di pioggia imminente.
Le ore della notte scorrono lente, mentre l'aria comincia a incupire.
Il freddo si fa sentire, penetra sotto le vesti leggere con la sua ruvida franchezza, incurante delle buone maniere.
L'anima si lascia prendere da questa pace immensa, da queste carezze silenziose di una notte estiva che pare già autunnale.
Domani, forse, pioverà.