Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / “Le feu follet” (il fuoco fatuo)

“Le feu follet” (il fuoco fatuo)

di Antonio Rossiello - 15/07/2009

 

 
“Le feu follet” (il fuoco fatuo)
 



L’opera cinematografica “Fuoco fatuo” (Le fou follet) del francese Louis Malle del 1963, è stata tratta dall’omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, e ha rappresentato la combinazione tra una regia classica e la trattazione di argomenti tabù. Si trattò di una co-produzione franco-italiana, il film, di genere drammatico era in bianco e nero e durava 110 minuti. Il cast era formato dal protagonista Maurice Ronet (Alain Leroy), Jeanne Moreau (Eva), Lena Skerla (Lydia), Yvonne Clech (M.lle Farnoux), Jean-Paul Moulinot (dottor La Barbinais), Bernard Noel (Dubourg). Ottenne il premio speciale Leone d’Argento dalla giuria alla XXIII Mostra del Cinema di Venezia del 1963. Nonché il premio critica italiana per miglior film straniero sempre per l’anno 1963 e la “nomination” all’Oscar per il miglior film straniero del 1964.
Emozionante, disperato e lucido. Il film, intimista ed pseudoermetico, racconta gli ultimi due giorni di vita di Alain, un borghese disperato che, distrutto dall’alcool e da una vita in cui non si riconosce più, programma il proprio suicidio. L’azione del romanzo da cui era stato tratto il film si svolgeva alla fine degli anni Trenta, mentre quella del regista era stata trasferita nella Parigi del 1963, come chiosa alla guerra di Algeria. Ronet si è saputo ben identificare con l’infelice protagonista. Alain, trentenne borghese parigino, si risveglia all’alba in un alberghetto di Versailles, dopo aver trascorso la notte con Lydia, un’amica americana della moglie Dorothy da cui è separato. Lydia sta partendo per gli Usa, ma Alain non può accompagnarla all’aeroporto: deve rientrare alla casa di cura del dr. La Barbinais dove sta terminando un trattamento di disintossicazione dall’alcool. Il medico ritiene che la cura è stata efficace e lo incoraggia ad avere un atteggiamento positivo verso la vita. Ma Alain è in piena depressione e in cuor suo medita di farla finita. Assecondando il suggerimento del dr. La Barbinais, si concede un’ultima prova d’appello, il giorno dopo Alain esce dalla clinica e in un bistrot incontra due camionisti dai quali ottiene un passaggio per Parigi. Alain si dà ancora una possibilità, la ricerca di un motivo per andare avanti, un percorso che compie negli ultimi due intensi giorni, cercando nei ricordi, nelle vecchie amicizie che non ritrova, in uno stile di vita che non gli appartiene più, superato dal tempo e dal peso di un’esistenza ormai inadeguata.
Inizia un percorso di ricerca dei vecchi amici con cui ha vissuto importanti esperienze della sua giovinezza. Prima cerca un amico al bar dell’Hotel Quai Voltaire, dove il barman e due cameriere lo salutano festosamente, ma non possono evitare di notarne il degrado fisico. Si reca a casa di Dubourg, il compagno degli anni più intensi, che ha due figlie, una moglie silenziosa e simpatica ed un’attività di ricercatore in Egittologia che lo appaga; Dubourg intuisce il travaglio di Alain, ma, quando questi gli espone la sua decisione estrema, lo prega di accettarsi così come è. Alain vaga per la città. In una galleria d’arte incontra Jeanne, una vecchia amica con cui condivide la critica verso la società borghese e con cui trascorre ore di fittizio sollievo. Jeanne lo porta ad una riunione di suoi amici intellettuali fumatori di droga: uno di questi litiga con Alain e l’incanto si rompe.
Incontra altri vecchi amici, ex camerati della guerra di Algeria, che sono divenuti militanti dell’OAS. Leroy non li condanna né simpatizza con loro: si accorge che il tempo è passato e che anche da loro non può ricevere conforto, li bolla come dei boyscout avventurieri. La giornata si chiude con una cena a casa di altri amici, Cyrille e Solange Lavaux. Momenti di fraterna comprensione si alternano ad altri in cui prevale il cinismo e la vacuità dei discorsi dei commensali. Dopo essersi abbandonato ad uno sfogo lirico in cui esterna il suo insanabile disagio, Alain rientra in clinica. La mattina dopo chiede di non essere disturbato. Termina il romanzo di Francis Scott Fitzgerald che stava leggendo e si spara un colpo di pistola al cuore.
Pur irrompendo nella vita quotidiana, come gli accenni alla guerra di Algeria o la processione dei volti dei passanti davanti al bar all’Odeon, che evoca un mal di vivere esistenzialista, la regia di Malle è rigorosamente classica ed autonoma verso i modelli narrativi della Nouvelle Vague, caratterizzati da fratture e discontinuità. Il suicidio finale, soggetto difficilmente trattato sugli schermi negli anni sessanta, è preventivato dall’inizio nelle intenzioni del regista e del suo soggetto cinematografico, con il protagonista, uno splendido Maurice Ronet, un dandy nella vita, come nel film, che armeggia con la sua pistola di ex-ufficiale mentre, nella sua camera della clinica per alcoolisti, lunghi piani sequenza raccontano, con oggetti e fotografie, della sua storia. Le conversazioni coi vecchi amici, i racconti delle follie giovanili, il commento di una compagnia di omosessuali non lasciano intravvedere altra soluzione a questo disperato viaggio nel passato.
Nel 1924 Drieu aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti, “Plainte contre inconnue”, mentre praticava il gruppo dei surrealisti, divenendo amico dell’artista comunista Louis Aragon, cui aveva dedicato “L’homme couvert de femmes” del 1925, nonché di Jacques Rigaut, il Gonzague personaggio principale di “La Valise vide”, uno dei racconti tratti da “Plainte”.
L’idillio letterario e l’amicizia con i surrealisti finì nell’agosto 1926 con una lettera ad Aragon e ai suoi amici. Se nel 1917 Drieu era stato attratto dal comunismo, ora si mostrava favorevole ad un’Europa forte. Nel 1927 pubblicò due libri, “La suite dans le idees” e “Le jeune europèen” cui fece seguito “Gèneve ou Moscou” e “Bleche”, entrambi del 1928. Saggi in cui fu denunciata la decadenza materialista della democrazia, pur criticando la dottrina hitleriana in “L’Europe contre les patries”.
In seguito al suicidio dell’amico e scrittore surrealista Rigaut, avvenuto il 5 novembre 1929, Drieu scrisse “Adieu a Gonzague” e “Le feu follet” (Fuoco fatuo), stampato nel 1931. “Le feu follet” di Drieu è un breve romanzo di gran spessore emotivo e di grande riuscita letteraria, un romanzo - testimonianza ispirato a quella tragica fine, ma è anche l’affresco di un’epoca tormentata che ebbe in Drieu uno dei suoi più grandi cantori. Il protagonista del romanzo è Alain, il prodotto di una società in abbandono, alla deriva e al tempo stesso un uomo in rivolta, che rifiuta il mondo degradato, svilito e privo di valori “eroici” che lo circonda. Lo scrittore francese analizza scientificamente, con spietatezza e sottigliezza di osservazione, gli ultimi giorni di un uomo che, già sconfitto dagli eventi e dalla droga, ha deciso di compiere l’unico gesto individuale ormai possibile per sfuggire alla menzogna dell’irrealtà quotidiana e per aderire alle cose. Un uomo lacerato, spento e conscio di essersi perduto, trascina la propria quotidianità, perduto negli eventi, nella droga. La sua delicatezza riflessiva e i suoi dinieghi alla sensibilità altrui tesa a redimerlo dal niente. Non vi è rivolta, ultimo atto di volontà è l’incontro con le cose, che spera di rinviare ad un altro incontro con qualcuno che si prenda cura di lui, ma lui stesso lo diserterà.
Drieu inserì molto di se stesso nel protagonista. La frenetica ricerca delle donne e del sesso, la tendenza a farsi mantenere da loro per vivere nella pigrizia e acquisire altre donne, l’osservazione analitica della società che lo circonda e dalla quale non riesce a ricavare nulla se non disgusto per la mancanza di ideali forti. Una triplice orazione funebre, affresco di epoca tormentata, dell’amico, di se stesso, della generazione sopravvissuta, della società francese parigina, dell’alta borghesia, con una pesante eredità di sofferenza, alla Prima Guerra Mondiale. Con Rigaut condivideva il culto di una morte volontaria “Cercate, se ci riuscite, di fermare un uomo che viaggia col suicidio all’occhiello”, “Il mio libro di capezzale è un revolver”. Rigaut si era ucciso a 30 anni con un colpo di pistola, dopo un’accurata toilette, in una stanza dove ogni cosa era stata messa in ordine. Nel romanzo c’è Alain, cioè Rigaut, un personaggio dallo stato ambiguo: personaggio reale (Rigaut), o proiezione di Drieu. Frutto dei caratteri comuni a Rigaut e Drieu, mantenuto da ricche ereditiere americane, Alain disprezza gli amici integrati nella vita borghese e l’ottusa energia dei parvenus. Coltiva una lucida pericolosità tagliente e difficile da maneggiare come una lama senza impugnatura. Non è abbagliato dalla studiata vanità degli intellettuali alla moda, che lo deprimono, come le altre vittime del conformismo. Ama i bei gesti che non producono nulla. Versione nera del dandy di Baudelaire che Drieu aggiorna allo spaesamento di generazionale del dopo Prima Guerra Mondiale. Ogni suo gesto è ribellione al mito del lavoro e della produttività. In questo il fascista rosso Drieu La Rochelle anticipava di cinquant’anni gli slogan della sinistra radicale degli anni di piombo: “Siamo come la gramigna, non lavoreremo mai”. Gioca col fuoco, non vuole aver nulla da perdere e rivendica la libertà di scegliere da solo il momento di uscire di scena. Alain è padrone nel vuoto dell’esistenza della sua pelle, suicidandosi. “La vita non andava abbastanza in fretta per me, io l’acceleravo”. Il suicidio è un paradossale ritorno alla realtà, un atto volontario e libero. In una società ferita e lacerata dalla Prima Guerra Mondiale, incapace di risollevarsi dall’orrore e dal degrado, Alain, ribelle ed anticonformista rifiuta ogni convenzione e non trova più pace né salvezza in niente. Alain è negazione del sistema. Inquietudine, isolamento e claustrofobia pura. Alain e Lydia sono una “bella coppia in rovina”. Lei, americana, sta partendo per Parigi, dopo tre giorni di permanenza, in cui Alain l’ha fissata intensamente, quasi cercando una rivelazione. Lydia vuole sposarlo, sta per ottenere il suo secondo divorzio, è decisa a tentare l’impresa. Alain attende il divorzio da Dorothy, non era abbastanza ricca per mantenerlo. La narrazione è decadente. Alain è definito il corpo di un fantasma; il volto è una bella maschera di cera. I seni di Lydia sono “emblemi dimenticati”; il suo viso sembra “anonimo per via di un eccessivo pallore”. La coppia è sul punto di separarsi: il dialogo frammentato, soggiogato dal silenzio. Alain guarda nel vuoto, senza vederla, è ipnotizzato dal niente. Sedotto dalla morte. Lydia se ne va. Alain è turbato dalla sua partenza ed estenuato dall’assenza di Dorothy. Come Gilles, protagonista de “L’uomo coperto di donne”, cerca una risposta alla sua sofferenza ed al dolore nella vita sentimentale: presente a differenza del suo antecedente edonista, una disperata autocoscienza della vacuità delle sue illusioni. Torna a pensare a sconfiggersi, ad annullarsi con la droga, a ritirarsi in sé stesso, calamitato dal torpore del niente. Si dissolve l’irritazione. L’alterità viene osservata, senza curiosità e senza livore. Un disprezzo impressionante nello sguardo di Alain, disprezzo per sé stesso e per la propria specie. Nella casa di salute del dr. La Barbinais, irride l’intento del medico di appellarsi alla sua volontà per combattere la dipendenza dalla droga: è il consiglio dato da un uomo che è figlio di una scienza che nega la volontà per esaltare i condizionamenti del sistema. “Una razza logorata dalla Civiltà”, non può credere alla volontà, “mito di un’altra epoca”. Parla all’amico Dubourg. Alain si avvicina al suo precipizio, prima che la determinazione pretenda azioni e risoluzione del problema: il male si affronta e si estirpa, a costo di cancellare sé stessi. Dubourg e Alain discutono sulla natura della sua tossicodipendenza. Dirà che non si perde perché si droga, ma che si droga perché si perde; o perché è perduto. E’ una conversazione memorabile, che non risparmia cinismo e spietata franchezza, e manifesta una lucidità corrosiva. La disperazione di Alain annienta. Alain rifiuta il vivere, ha orrore della mediocrità e percepisce la sua vita come inevitabilmente mediocre, non riesce ad accettare le ripetizioni. Alain ricerca disperatamente un motivo di sopravvivenza: liberarsi dalla dipendenza della droga appare un pretesto e non l’obiettivo. Sa già che questo non sarà possibile, la lotta ha in sé un motivo di sconfitta ed un atto di ribellione estremo. L’ultima richiesta di aiuto alla moglie americana separata, Dorothy, è fatta perché questa non risponda all’appello, è volutamente ambigua ed anodina se paragonata alla situazione. La cena, l’ultima, in una ricca casa si trasforma nella rappresentazione del disagio sociale e morale di Alain. Esisto, sono tra di voi ma non mi vedete e non mi accettate perché sono diverso e non posso, non potrò mai essere come voi, sembra dire Alain. La visita all’amico Dubourg, compagno di vizio ora sposato ed avviato verso una tranquilla vita dedicata agli studi di egittologia, alla moglie insignificante e alla due figlie, presso cui non trova alcun conforto e vede solo la mediocrità di un’esistenza incentrata su inutili presunzioni come la scrittura. L’ultimo peregrinare per le vie di una Parigi deserta con un amico e poi la decisione.
Il furore introspettivo è la cifra di Drieu narratore elegante, atto a spiarsi e tormentarsi fino all’agonia. Drieu eccentrico, ai margini dei movimenti. Dadaismo e surrealismo (Breton, Eluard, Aragon, Artaud, Bataille) erano le teorie che affascinavano. Drieu non usò tecniche di avanguardia radicale. Non ruppe con la tradizione, ma restò dietro rispetto al punto di rottura: diversamente da Celine e Artaud, viceversa esprimeva un’opera/azione. Drieu si suicidò non per la sconfitta politica, ma per l’insopportabilità di una condizione vertiginosa di decadenza, di una domanda che lo soverchiava, come un avvicinarsi alla morte, vista in una dimensione non certo cristiana, ma profondamente religiosa. In un mondo in cui non si sa essere fedeli neanche alla propria donna amata, a ciò che si ama, perché si è impotenti, miseri, deboli. Il suo pessimismo ormai travalicava gli eventi, alla decadenza borghese e dell’uomo moderno non c’era rimedio, anche la sua ammirazione per il fascismo come per il comunismo scaturiva dall’interrelazione tra due ideologie intercambiabili. “I comunisti sono sempre stati attratti dal fascismo, hanno sempre favorito il suo trionfo sulla democrazia. Il comunismo in Europa è un fratello maggiore del fascismo, un fratello meno fortunato”, (14 marzo 1940). “Il conservatorismo borghese ha corrotto il fascismo dall’interno. I marxisti avevano ragione: il fascismo in fondo non è stato che una difesa borghese. L’amara, cruenta consolazione di uomini come me consiste nel pensare che, senza il fascismo, la borghesia perirà. Adesso (e questo è vero da un anno) tutti i miei voti sono per il comunismo. Qualsiasi cosa purché la borghesia perisca” in “Diario 1939-1945”, 27 luglio 1943. Il suo nemico è il liberal-liberismo.
L’azione del romanzo copre l’arco di un giorno e di una notte e rappresenta la ricerca affannosa del senso nella vita, è la confessione di Drieu, che nel ‘45 attuerà il suicidio. Alain si uccide, col disprezzo per il mondo, dal sapore nietzschiano del “Così parlò Zarathustra’’. Perché nella vita solo la passione è una cosa bella, e si esprime con l’omicidio degli altri e di se stessi.
Drieu aveva affascinato Malle che aveva rinunciato sviluppato una sceneggiatura basata su questo meccanismo: usare il romanzo di Drieu come paravento per parlare della propria motivazione drammatica, mentre lo stesso Drieu lo aveva usato quale “schermo” del proprio travaglio unito al legame con Jacques Rigaut anche lui suicida.
La trasposizione di Malle è colta, commossa senza ricorsi al pietismo e senza essere letteraria, è tenera senza indulgenze. La fatica di adattare la vicenda ed il personaggio, non attuali, al 1963, la vicina guerra d’Algeria. Il rapporto tra Alain e la realtà fa intravvedere la riposta moralità di un’opera e di un suo autore; in una visione disperata, ma non di un mondo senza valori, ma di un uomo che non riesce, per una malformazione a scoprirli, pur sentendone la presenza e sapendo che quei valori rendono degna la vita di un uomo. L’insicurezza e la mediocrità del tempo di Malle, nel ritratto del protagonista, elaborazione che attualizza l’esperienza di Alain, in una Francia gaullista e conservatrice, chiamando in causa altri temi dell’angoscia del suo tempo, dall’incomunicabilità alla noia, il tedium vitae, decadente e paradannunziano, di Drieu La Rochelle ed i viaggi in fondo alla notte di Scott Fitzgerald o le nevrosi disperate ed impotenti di Marilyn Monroe. Noi spettatori assistiamo, identificandoci con il protagonista, alla lenta decomposizione di un uomo-ombra che, guarito solo in apparenza dal vizio dell’alcool ma non dal male di non riuscire a maturare, errabonda per un giorno da un incontro deludente all’altro, alla ricerca di uno stimolo per non uccidersi. Oltre ad essere un capolavoro del cinema mondiale, “Le feu follet”, fa parte di quelle rare opere esistenziali, sconvolgenti e necessarie che ci aiutano a capire dal di dentro il male di vivere; sarebbe piaciuto all’anima sensibile del suicida Cesare Pavese, che aveva scritto “Il mestiere di vivere”, ed aveva militato sia nel fascismo che nell’antifascismo.