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Cina a rischio implosione interna

di Manuel Zanarini - 20/07/2009

Nei giorni scorsi è venuto in Italia il Primo Ministro cinese Hu Jintao, per incontrarsi col premier Berlusconi, al fine di stipulare accordi commerciali tra i due Paesi, si calcola per un valore di circa 2 miliardi di dollari. Così come avvenuto con Gheddafi nulla è stato trattato di prettamente politico, in quanto in questi momenti di crisi, soldi freschi per le aziende italiane vengono visti come manna dal cielo. Credo invece che alcune riflessioni, soprattutto sulla situazione cinese, siano d'obbligo.

La Cina deve affrontare diversi problemi nella gestione di due fattori fondamentali per la sua esistenza: l'enorme estensione geografica, che la porta a ricomprendere popoli di varie etnie; e la situazione energetico-economica.
Oltre a una sempre più forte opposizione interna, segnata da continue proteste sociali e scioperi, la “bomba etnica” sta per scoppiare in Cina. Per anni, il governo centrale ha attuato politiche di trasferimento dell'etnia Han nelle province “ribelli”, seguendo la stessa politica di Milosevic, che di fatto ha causato l'esplosione e la fine dell'ex Jugoslavia; infatti, le popolazioni indigene mal sopportano il regime di favore riservato ai “nuovi arrivati” Han, che si traduce in posti di lavoro di elite esclusi alle altre etnie, cosa che fa accendere l'odio e rischia di generare guerre civili. A questo si aggiunga il fatto che Pechino proibisce alle popolazioni locali l'uso del dialetto e limita fortemente la libertà religiosa, cosa che ovviamente non fa che peggiorare la situazione. Noto a tutti è il caso del Tibet, dove i monaci guidano una protesta da decenni, che punta a ottenere maggiore libertà; ma, questo non è l'unico caso. Nelle settimane scorse, è scoppiata una rivolta nella regione dello Xinjiang, ad opera dell'etnia Ujguri. Questi ultimi sono un popolo turcofono di religione islamica,  storicamente maggioranza della regione. La rivolta ha causato oltre 170 morti e decine di migliaia di arresti; ma, se quella tibetana preoccupa Pechino più in termini di politica estera, quella degli Ujguri è una minaccia ben più seria; infatti, coinvolge il secondo aspetto della “crisi” cinese, quello economico.  Se il Tibet rappresenta più un puntiglio per Pechino, specialmente agli occhi dell’Occidente, lo Xinjiang ha ben altri tesori da tutelare. La regione ha riserve enormi di energia: nel 2008, è diventata la seconda regione produttrice di petrolio del paese, con 27,4 milioni di tonnellate di greggio assicurando da sola ben il 14%  della produzione nazionale; inoltre, fornisce un terzo della produzione nazionale di gas naturale; è la prima produttrice di carbone nazionale; sempre nel 2008, lì è stato scoperto un grande giacimento d’uranio; si vorrebbe usare la sua superficie terrestre per aumentare la produzione di energia eolica; le regioni centro-asiatiche, con i loro fondamentali oleodotti, sono confinanti con queste terre; infine, nella città di Malan è situato un importantissimo istituto di ricerca in fisica nucleare.
Con la fine del regime comunista, Pechino si è gettata all’inseguimento del modello americano, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti; infatti, aldilà della proclamata ispirazione alla “società armonica” di Confucio, in Cina si fondono gli elementi del più bieco capitalismo- miliardi di persone sfruttate e ridotte in schiavitù per favorire l’arricchimento di una ristretta elite- con quelli più degradati del comunismo novecentesco- dittatura, annichilimento dell’individuo, massificazione sociale, ecc. Su questa strada, gli scioperi dei contadini in periferia, le rivolte etniche, come quelle dei Tibetani e degli Ujguri, le proteste della medio-borghesia in cerca di libertà (qualcuno ricorda ancora il massacro di Piazza Tienanmen?), saranno sempre più frequenti. A questo deve unirsi una situazione economica particolare; infatti, il boom cinese si è già fermato, e la recessione viene evitata solo grazie a pesantissimi interventi statali; inoltre, Pechino dipende quasi interamente dall’esterno per il sempre più crescente bisogno energetico, e come dice il bellissimo libro “The Oil Card”, Washington detiene ancora le chiavi del gioco del prezzo del petrolio, con la possibilità di mettere la Cina alle strette coi pagamenti. Senza contare i milioni di dollari che Pechino ha deciso di investire nei fondi pensionistici di Wall Street, cosa accadrebbe se l’ “Impero Americano” crollasse e il dollaro si svalutasse? Pechino si troverebbe con della carta straccia da spendere sui mercati internazionali per acquistare le materie prime che le sono necessarie.
L’unica soluzione per evitare l’implosione è che la Cina abbandoni la logica mercantilistica, che ha abbracciato in questi ultimi anni, si riavvicini alla sua grande tradizione millenaria, puntando seriamente alla “società armonica” confuciana, e impostando i rapporti con le popolazioni che abitano nei suoi confini, così come faceva Roma, secondo la dottrina dell’ “Imperium”, nel quale ognuno gode di ampie libertà culturali e religiose, rimanendo politicamente all’interno del potere centrale, proprio come chiedono i Tibetani e gli Ujguri.