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Massimo Cacciari e la geofilosofia d’Europa.

di Umberto Bianchi - 20/07/2009

Un testo magistrale Geofilosofia d’Europa (Adelphi, 2003) scritto da Massimo Cacciari, professore di filosofia alla Cà Foscari e sindaco di Venezia.Un testo fondamentale per chi volesse addentrarsi nei significati reconditi dell’intera  plurimillenaria vicenda d’Europa, tutta imperniata sull’eterna lotta tra quelle differenze che, del Vecchio Continente costituiscono contemporaneamente il sale e la maledizione. E’ l’eterna lotta tra dualità che vivono perennemente in bilico tra il tentativo di un reciproco riconoscimento e la tendenza ad una lotta senza quartiere. Lotta che, in quanto tale è “polemos”, quando rivolta al nemico esterno, ma non esita a trasformarsi in “stasis”, ancorchè sia rivolta al nemico interno, al  proprio simile, concittadino, correligionario e, (perché no?)  anche a colui che, forestiero, viene da uno stato appartenente alla medesima realtà geopolitica continentale. Una lotta perenne, che ha anche la veste del dilemma ontologico, tra stasi e dinamicità, tra accettazione e ribellione, tra essere e divenire, magistralmente interpretato nei “Persiani” di Eschilo, in cui la madre del re persiano Serse, sogna il figlio intento ad aggiogare due cavalle Asia ed Ellade, mansueta la prima, ribelle ed indomabile la seconda. Ecco, è da questo momento in poi che i Greci si rendono conto della propria grecità, che ne fa un “unicum” peculiarmente distinto dalla antica e statica Madre Asia, senza l’esistenza della quale però, non si renderebbero nemmeno conto della propria. Di quell’esistenza fatta di un’inestricabile commistione di polemos e stasis, tanto ben incarnata dalla conflittuale realtà della polis e dalle sue infinite vicissitudini politiche.  Ecco allora che, l’aspirazione a liberarsi dal giogo assoluto di un monarca straniero viene compensata dall’idea di una forma di governo studiato in modo di conferire un’aura di assolutezza a  tale realtà.

geofilosofia-dueropa_fondo-magazineUna forma di governo alla cui base non può sovrintendere un principio meramente “politico” (così come nei “desiderata” filosofici che stanno alla base della lettura aristotelica di Platone), bensì dovrebbe stare quel “nomos”, quella legge divina a cui tutto rimanda, e di cui deve farsi altresì interprete quel saggio guardiano che sarà preposto alla illuminata guida della polis. Forte e bellicoso con il nemico esterno, il guardiano dovrà dimostrare di essere altrettanto fermo e persuasivo con il nemico interno, con il prevaricatore, l’ingiusto, l’oppositore, per non far cadere la polis nella “Ybris” della guerra civile e della violenza fine a sé stessa. Senza mai dimenticare però, che il governo giusto e perfetto, la “pacem in terris”, è appannaggio unico degli Dei. Agli uomini altro non spetta che esercitare la tirannide del comando, come magnificamente esemplificato dalla vicenda citata da Tucidide riguardante l’assedio ai Meli, in cui la legge del più forte trova negli interlocutori ateniesi, una giustificazione di origine divina. E guai se così non fosse, se alla suprema guida dello stato vi fossero persone animate da buona fede e buoni sentimenti, perché costoro verrebbero ben presto scalzati da una massa animata invece da mala fede e bassi sentimenti. Nel loro malgovernare, gli ingiusti ed i prevaricatori, compiono “bene” il loro lavoro poiché, dunque, a governare le azioni degli uomini è il principio dell’eterogenesi dei fini, che fa sì che le azioni differiscano dagli scopi inizialmente proclamati.

Il problema del nomos, dell’origine divina del diritto, sembra dunque essere un’altra costante della narrazione di Cacciari, che va ad aggiungersi all’altra idea-perno del testo: quella cioè del continuo riaffiorare di dualità in conflitto coinvolgenti i concetti alla base dell’identità greca ed occidentale. E così se Ellade è ribelle e dinamica, quanto Asia sottomessa e statica, Asia incarna questa volta lo statico attaccamento alla Madre Terra, quanto invece Ellade manifesta quella dinamica irrequietezza che trova la propria compiuta espressione nell’andar per mare, cercando nuove terre da colonizzare ed incrementando scambi. Attraverso questa attività il nomos si fa errabondo, va perdendo progressivamente la propria natura di numinoso principio domestico, per assurgere a principio di cosmopolita irrequietudine, manifesta espressione di quella tendenza ad un costante auto superamento dei propri limiti che caratterizza l’intera vicenda occidentale e che sembra ripetersi via via in quella vicenda che va dalla scoperta dell’America, sino a quelle più recenti legate al volo umano ed alle imprese nello spazio. Attraverso le parole di Hegel e Nietzsche l’Occidente si fa metafora di una vicenda che, attraverso lo stesso nome, dalla continua spinta al superamento dei propri limiti finisce con il superare la propria stessa voglia di superarsi, banalizzandosi ed infine tramontando. E così il nomos ellenico che sembra trovare un sicuro approdo nell ‘universale e cosmopolita diritto romano, verrà ben presto scalzato dall’agostiniana “civitas dei” che relega la grandiosa costruzione statuale romana ad un ruolo secondario rispetto all’ultraterrena civitas cristiana. E così da Hobbes in poi, da quando l’Occidente vedrà nello Stato unicamente un freddo Leviatano nel ruolo di arbitro tra quelle che sono le istanze spirituali dei singoli cittadini ed i valori di cui questo è, in qualche modo, titolare, si assisterà ad un continuo contrasto tra la sfera statuale, pubblica e quella privata, individuale.

Questa natura doppia ed antinomica dello Stato, farà sì che gli organi delle democrazie parlamentari occidentali vadano oggidì svuotandosi di funzioni e significati, isterilite da infinite contrattazioni e discussioni, mentre le vere decisioni vengono prese altrove. E qui ritorna prepotente la domanda sulla possibilità di conciliare gli opposti e le risposte che ne danno i vari filosofi da Eraclito, a Parmenide, da Pitagora a Platone. L’armonia sta nel riconoscimento dell’opposto, ovverosia di ciò che si ritiene non veritiero. L’armonia è la ragione (logos) che mette accordo tra le parti che, nel conflitto, trovano però la propria ragion d’essere. L’armonia è comprensibile ed incomprensibile al contempo; essa è la composizione di un conflitto sempre latente e perciò stesso alla base della necessità d’essere dell’armonia stessa. Armonia è “palintropos” secondo l’accezione di Parmenide, ovverosia vagolare da uno stato all’altro, passando da stabilità ad instabilità senza alcuna soluzione di continuità. In base alle risposte della filosofia Cacciari pensa di poter ravvisare la soluzione al problema d’Europa e d’Occidente, a quell’aggregato di diversità ontologiche, in perenne contrapposizione tra loro.

Il grande pensatore rinascimentale Niccolò da Cusa distingue tra pace ed armonia facendo di quest’ultima un’opinione e chiedendosi invece ciò che i distinti in quanto irrimediabilmente tali possano avere in comune. La successiva risposta sta nel riconoscimento e nell’identificazione dell’altro come parte conflittuale di sé, e dunque come necessario completamento alla conoscenza della Verità, seguendo in tal modo una riflessione partita da Ibn’Arabi, Raimondo da Lullo, Abelardo ed altri pensatori medioevali. Essendo però la stessa Verità inattingibile, le opinioni e le varie congetture volte ad arrivare ad essa, altri non sono che mezzi che contribuiscono, ognuno per la sua parte, alla ricerca ma non al definitivo disvelamento della Verità stessa. E’ dunque quella della Verità una ricerca senza fine, che nell’essere promossa aumenta l’amore per ciò che si ricerca. Ed ecco che ora si staglia più nitida l’immagine di un’Europa come  “molteplice delle distinte congetture”, come unità di molteplicità in perenne conflitto, indifferente a qualunque direzione dei corsi storici, impotente di fronte all’eterogenesi dei fini che ne anima l’esistenza, in lotta con la propria volontà di conservazione, sopravvivenza ed identità. L’Europa è Occidente, poiché essa porta insita alla propria natura di continuo auto superamento, l’idea di un altrettanto continuo tramonto. Ecco, tra Nietzsche e Carl Schmitt, tra Hegel e Platone, Cacciari ci offre il primo spunto per l’elaborazione di una Geofilosofia d’Europa che, vera e propria geografia spirituale del Vecchio Continente, possa essere in grado di offrirsi e proporsi come valida alternativa all’ “isola” americana.

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