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Prigioniera del passato, l'anima non riesce a scorgere la luce

di Francesco Lamendola - 22/07/2009


 

«Ed è per questo che hai finito per riversare tutto il tuo bisogno di dare e ricevere amore sulla tua cagnetta?».
«Sì, è per questo. Ma tu non riderne.»
«Non ne rido affatto. E nemmeno ti farò la solita, insulsa osservazione che è un vero spreco riversare tanta capacità di amore su un animale, invece che su degli esseri umani. Ho avuto anch'io una cagnetta, affettuosa e intelligentissima, e ho imparato ad apprezzare l'enorme capacità di bene che si cela in questi nostri fratelli minori. E poi, l'amore è sempre amore: non è possibile distinguerne le manifestazioni in base ad una gerarchia di soggetti.
Solo, mi limito a pensare che devi essere stata molto sfiduciata verso i tuoi simili, o verso te stessa, per arrivare a ritenere che solamente un animale potesse colmare il tuo vuoto interiore…».
Lei mi guarda con tristezza: non più giovane, ma sempre bella. Somiglia un po' alla scrittrice Margaret Mazzantini.
Ora è come se parlasse da sola: è talmente abituata alla solitudine interiore, che non sente il bisogno di fissarmi negli occhi, anche se mi sta raccontando più cose di se stessa, di quante non ne abbia mai dette ad anima vivente.
«È stata una mossa obbligata per salvare me stessa e per salvare gli equilibri della mia vita sociale e affettiva. Senza la mia cagnetta, non ce l'avrei fatta a sopportare la recita che mi sono imposta, la maschera che ho finito per indossare.»
«Vedo. Ma hai pagato un prezzo altissimo: quello di rinunciare ad essere te stessa, a vivere la tua vita, a cercare - come tutti - la tua parte di felicità…»
«Non avevo scelta. Non volevo far soffrire coloro che mi vivono accanto, nessuno dei quali neppure s'immagina cosa sia stata la mia vita, in realtà, dietro le apparenze rassicuranti di una posata tranquillità borghese.»
«Vuol dire che hai vissuto in mezzo a dei ciechi…»
«… a dei bambini. Dei bambini che non vogliono sapere, che non desiderano essere turbati. Io, almeno, non ho mai avuto il coraggio di farlo. »
«E a te, chi ha pensato? Chi ti ha fatto coraggio, quando ne avevi bisogno? E adesso, che devi fare i conti con la malattia, su chi ti puoi appoggiare?»
«Su nessuno. Sono sola.»
«Neppure le persone più intime?…»
«Quelle, meno di chiunque altro. Ho cercato conforto nelle pratiche benefiche, nella preghiera… Ora, ho bisogno di silenzio.»
«Certo. L'anima, per ritrovarsi, ha bisogno di silenzio; ma c'è silenzio e silenzio. Tu stai fuggendo; e, così, dubito che si possa trovare la pace.»
«Adesso non mi giudicare. Ho già sofferto abbastanza.»
«Assolutamente no. Non è per giudicarti che ti dico così, ma perché penso che tu possa ancora reimpostare la tua vita nel senso dell'apertura, della speranza.»
«Quale speranza? Ormai è troppo tardi, per me.»
«Non è mai troppo tardi per nessuno.»
«Parole. Non c'è più tempo…»
«C'è sempre tempo, se lo vogliamo. Fino all'ultimo giorno della nostra vita terrena.»
Di nuovo mi guarda, e un'espressione indefinibile passa velocemente attraverso i suoi occhi profondi, ravvivati da una luce intensa.
È un mattino estivo pieno di sole, fresco e ventilato; la campagna è un tripudio di colori, di suoni, di profumi.
Il cielo è immenso, come un occhio azzurro dilatato a dismisura e solcato da bianchi velieri di spuma che veleggiano verso l'infinito.
In alto, sopra le montagne, la Luna piena impallidisce: quella Luna che gli uomini pretendono di avere «conquistato» giusto quarant'anni fa, in un giorno di luglio simile a questo. Ma quella bandiera a stelle e strisce che garrisce al vento, su di un corpo celeste privo di atmosfera, sembra voler raccontare un'altra storia, ben diversa da quella ufficialmente accreditata. Una storia magari tutta da riscrivere.
«Forse - riprende lei, pensosa - la vita é solamente giusta, dopotutto. Dà a ciascuno secondo i suoi meriti; e, se toglie, vuol dire che non meritavamo di più.»
«L'importante è essere in pace con se stessi.»
«Perché io sto facendo un bilancio, non è vero?, e forse i conti non tornano, alla fine. Forse c'è qualcosa di sbagliato, nella mia partita doppia del dare e dell'avere. So di aver dato molto, e di aver ricevuto, anche; ma non nel modo in cui ne avrei avuto bisogno. Alla fine, l'unica persona a cui non ho saputo dare abbastanza amore, sono stata proprio io.»
«Ti sarai chiesta come sia potuto accadere…»
«Sì. Ma non ho trovato la risposta. Mi volevo punire, forse.»
«Punire di che cosa?»
«Di non essermi voluta bene.»
«Ma questo è un circolo vizioso.»
«No, non di non essermi voluta bene. Di non essere stata amata, quando ero piccola, da chi avrebbe dovuto farlo. Di non essere stata capita, protetta, incoraggiata…»
«E hai deciso di punirti riversando sugli altri tutta la tua capacitò di amore, tranne che su te stessa; anzi, escludendoti volutamente.»
«Sì. Per quanto possa sembrare strano e quasi incredibile, penso che la verità sia questa; che sia andata proprio così… A che cosa stai pensando?»
«Al fatto che molti di noi vivono prigionieri del proprio passato, delle ferite che hanno ricevuto tanto tempo prima… E questa è la forma più crudele di autopunizione: infatti, quale creatura vivente potrebbe avere la meglio nella lotta contro un fantasma?»
«Ti riferisci a me?»
«No, a moltissime persone. È una malattia estremamente diffusa: consentire al passato di condizionare il proprio presente, fino al punto di imprigionare l'anima in una tela vischiosa, dalla quale diventa impossibile uscire. L'anima, per sua natura, si protende verso la luce; ma, prigioniera del passato, dei rimpianti, dei rimorsi, dei sensi di colpa, alla fine non è più neanche in grado di vederla. E, senza la luce, l'anima muore.»
«Io mi sento morta, infatti. Morta dentro: ma senza drammi e senza clamore; anzi, nel modo più discreto e silenzioso…»
«Questo è quello che credi adesso. Ma, in realtà, il semplice fatto che tu faccia queste riflessioni, dimostra che in te c'è ancora una scintilla di vita, una scintilla che cerca la luce; e che, se riesce a trovare alimento, può ancora ardere come un gran fuoco.»
«Fino all'ultimo giorno di vita, vero?»
«Esatto: fino all'ultimo giorno di vita.»
«Tuttavia, rassicurati: io non mi sento infelice, né angosciata; e avverto che la mia vita non è stata vuota… E io, adesso, sto imparando ad amarmi. Per lo meno, sento che adesso mi amo come non avevo mai saputo fare prima.»
«Ne sono felice. Ma se ti senti morta, come faccio a credere che tu non ti senta infelice? Forse, hai imparato l'arte di anestetizzare il dolore, fino a non sentirlo più più. Ma non è un buon segno: perché, fino a quando si sente di soffrire, si ha anche la certezza di essere vivi.»
«Ma io sono stanca di soffrire, stanca… Credo di aver sofferto abbastanza; ora vorrei solo godermi un po' di pace, di quiete.»
Sospira, e torna a guardarmi. Poi lascia correre lo sguardo sul verde paesaggio delle colline, ma si capisce che non lo vede nemmeno. Sta pensando a qualcosa, o forse vede altri luoghi e altri paesaggi: quelli dell'infanzia, della giovinezza lontana.
Il canto degli uccelli innumerevoli, i loro voi che s'intrecciano nell'aria, creano una tale atmosfera di serenità e di armonia, che a stento si crederebbe che la vita possa essere anche crudele, a volte; che possa segnare a fuoco delle anime, per tutto il resto della loro vita terrena.
Eppure è così; e la voce di lei, fievole come quella di un'eco che si spegne, sembra venire da molto, molto lontano: da un altro tempo, da un altro spazio.
Forse, ora, si rivede com'era a otto anni, a quindici anni; forse si rivede com'era a vent'anni, a trent'anni. Rivede le tappe della sua vita, il peso crescente delle delusioni, la volontà ostinata di proteggersi dietro una maschera - o, piuttosto, di proteggere gli altri.
Gli altri: quei bambini cresciuti che non hanno mai saputo vedere, capire, aiutare; che l'hanno sempre lasciata sola, pur in mezzo alla loro presenza fisica.
Devo quasi tendere gli orecchi per afferrare la sua voce, quando riprende a parlare, dopo una pausa così lunga che credevo non sarebbe più finita.
«A volte mi pare tutto un sogno. A volte mi chiedo se davvero appartengo a questa umanità, o se non vi sono finita per errore, arrivando da non so dove. Qualche volta me lo hanno chiesto, sai?, mi hanno domandato: ma tu, da dove arrivi?»
Annuisco in silenzio, prima di rispondere: «In fondo, questa domanda vale per ciascuno di noi. La verità è che non sappiamo esattamente da dove veniamo. Certo, veniamo dall'Essere: ma come siamo arrivati qui? Che cosa siamo stati chiamati a fare? Perché ci accade così spesso di sentirci strani, come degli oggetti fuori di posto? Non lo sappiamo…»
«Però continuiamo a domandarcelo.»
«Non possiamo farne a meno: è nella nostra natura, è il nostro marchio di origine. Il giorno in cui smettessimo di farci queste domande, vorrebbe dire che siamo veramente morti. È il nostro modo di cercare la luce, di dare un senso al nostro esistere.»
«E tu, a quali conclusioni sei giunto?»
«A una conclusione molto semplice, almeno in apparenza. Ma ci sono arrivato dopo una intera vita di ricerca; e non intendo solo sui libri, ma nella realtà di ogni giorno. Sono giunto alla conclusione che siamo stati chiamati qui per amare: null'altro.»
«Per amare ed essere amati, direbbe sant'Agostino.»
«No: per amare. L'essere amati è una conseguenza. Quando l'anima diviene capace di amore - e non è cosa da tutti, nulla a che vedere con l'abuso che si fa continuamente della parola e del suo concetto - ebbene, a quel punto non può non diventare amabile, non può non essere amata. Come dice il padre Dante: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona", eccetera. Se si ama veramente, non si può non divenire degni di amore da parte dell'altro.»
«Ma forse non veniamo amati dalle persone giuste, oppure nel modo giusto…»
«Le persone che ci amano realmente per quello che siamo, sono sempre le persone giuste; e il loro modo di amarci, è sempre quello giusto.»
«Eppure, a me non sembra…»
«Vuol dire che non era vero amore. Ma l'amore vero è una forza irresistibile, alla quale non si può non consentire. Dante ha detto, in quei versi, una verità molto più profonda di quello che non credano coloro i quali li leggono in maniera superficiale…»
«Ma se noi non siamo amati da nessuno?»
«Eppure siamo qui per un atto di amore. Non solo dei nostri genitori e di quelli che li hanno preceduti; ma, prima di tutto, da parte dell'Essere, che ci ha chiamati dal nulla del non-essere. Noi non siamo mai veramente soli, non siamo mai del tutto abbandonati. Siamo anzi estremamente preziosi e importanti, perché amati dall'Essere.»
«Tutti, uno per uno?»
«Tutti, e non solo noi umani: sino all'ultimo filo d'erba.»
«Se è così, nessuno vive invano; e siamo davvero importanti.»
«Lo siamo, ma tendiamo a dimenticarcene. Siamo come colui che possiede un ricchissimo tesoro, ma lo lascia ammuffire nei sotterranei del proprio palazzo, sino al punto di scordarsi che esso sia mai esistito.»
«E qual è codesto tesoro, che abbiamo scordato di possedere?»
«L'anima.»
Adesso mi sorride e mi guarda a lungo, con dolcezza.
Le rondini sfrecciano velocissime nell'aria trasparente del mattino, e le montagne paiono così vicine, da poterle toccare ad una ad una, solo allungando una mano.
E tutto è pace, bellezza, armonia.