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Per il capitalismo l’energia è la droga, ma il nucleare è l’overdose

di Giancarlo Terzano - 23/07/2009

Il “rinascimento nucleare” di Scajola: costoso, dai tempi lunghi, inutile.

 

L’industria nucleare è in crisi da anni. Quella francese, in particolare, ha bisogno di nuovi ordini per andare avanti.
Con la proposta dell’attuale Governo di ritornare al passato nucleare, l’Italia rischia di asservire il suo sistema
energetico a interessi economici che non sono i suoi, di sprecare una montagna di denaro, di perdere tempo
prezioso e di non cogliere la vera sfida degli anni a venire: usare l’energia con più razionalità e produrla con piccoli
impianti alimentati con fonti rinnovabili e distribuiti sul territorio. Lo scenario più adatto all’Italia è quello di una
moltidudine di piccoli impianti che si scambiano energia elettrica all’interno di una “smart grid”, una rete intelligente.

Vorremmo che fosse solo uno bluff per far vedere che il Governo fa
qualcosa per affrontare la crisi dei prodotti petroliferi, una di quelle
dichiarazioni che i politici spesso fanno, accontentandosi delle ricadute
mediatiche dell’effetto-annuncio. O magari una spregiudicata manovra
ricattatoria, per convincere i petrolieri ad abbassare il costo del petrolio
e ridurne le speculazioni.
Tuttavia, l’insistenza con cui il Governo Berlusconi, dall’inizio del suo
mandato, propone il suo “rinascimento nucleare”, ci obbliga ad affrontare
seriamente l’argomento. Delineandone i punti interrogativi, i tanti
nodi irrisolti, le superficialità che accompagnano il progetto.
A lanciare il sasso (un macigno!) è stato il ministro alla Sviluppo
Economico Scajola, che, appena pochi giorni dopo la sua nomina, ha
annunciato l’intenzione dell’Italia di riaprire la stagione nucleare. Il
proposito è di quelli che colpiscono in profondità. Senza dibattito alcuno,
si intende rivedere la direzione strategica di abbandono del nucleare
fondata sul risultato referendario del 1987. Un vero e proprio blitz,
quello di Scajola, che annulla un pronunciamento popolare e rischia
di ributtare l’Italia dentro al tunnel nucleare con superficialità proprio
ora che sarebbe il caso di puntare con decisione sulle rinnovabili e sul
risparmio energetico.
La decisione pone innanzitutto un problema politico. E’ impensabile
che scelte strategiche come il ritorno al nucleare, che interessano
l’intera nazione, possano esser prese senza un largo confronto. Il
Governo sostiene che la decisione deve essere bipartisan, con il consenso
anche dell’opposizione parlamentare (un gioco facile, viste le
posizioni sostanzialmente affini di molti esponenti del PD in materia
di energia).
Ma questo non basta. La decisione è di quelle che impongono qualcosa
in più e chiedono il coinvolgimento dei cittadini. Tanto più considerando
che esiste l’esito referendario del 1987, in cui l’80% degli italiani
si schierò contro il nucleare. Certo, quella referendaria è una scelta
rivedibile: la politica ha il diritto di ripensare le scelte del passato, ed
il rifiuto, 20 anni fa, del nucleare non può essere inteso come un dato
intoccabile. Ma, appunto, ci vuole una riflessione profonda, con il confronto
di tutte le parti ed un nuovo coinvolgimento popolare.
Il che, finora, non è avvenuto. Neanche indirettamente. Nell’ultima
campagna elettorale, quando gli italiani venivano chiamati a decidere
il loro futuro, il tema è stato assente: tra le tante lusinghe dei competitori,
nessuno ha promesso ai suoi elettori una bella centrale nucleare.
Nei programmi elettorali, l’argomento era assente o quasi: nei 12 punti
del Si può fare di Veltroni, neanche un accenno al nucleare, mentre
il PdL si limitava a promettere la “partecipazione ai progetti europei
di energia nucleare di ultima generazione”, vale a dire addirittura
meno della situazione esistente, in cui, tramite l’ENEL, l’Italia gestisce
nell’Europa dell’Est centrali antiquate di seconda generazione. A dir
il vero, pruriti atomici erano nell’aria: nell’autunno 2007, quando le
elezioni erano ancora lontane, vari esponenti del centrodestra (Urso,
Casini, Fini) avevano lanciato una campagna pro-nucleare, con convegni
e raccolta di firme, ma al momento delle elezioni, quando il
politico dovrebbe stipulare il suo “contratto con gli elettori”, il tema
era saggiamente sparito.
L’assenza di un vero confronto sull’argomento nucleare non solo (e
non è certo poco!) priva di legittimità democratica la decisione, ma
impedisce anche un serio approfondimento sui vari punti dolenti. Si va
avanti a furia di spot, senza contraddittori, con superficialità e bugie
che i media purtroppo amplificano e consolidano. Attraverso interventi
a senso unico su stampa e tv gli italiani vengono convinti sulla bontà
dell’energia atomica, sulla sua convenienza economica, sulla sicurezza,
cercando di creare un clima di fiducia in un’opinione pubblica che non
ama complicarsi le cose, e che preferisce sentirsi assicurare che potrà
tranquillamente continuare nei suoi consumi d’energia, magari anche
a prezzo più basso. I sondaggi (sulla cui attendibilità, per altro, è sempre
bene serbare dubbi!) danno così un crescente favore nei confronti
dell’energia atomica, frutto di una campagna di informazione pilotata
che fa leva sull’illusione della gente di pagare meno. Se invece di
assistere ad uno spot, gli italiani assistessero ad un serio confronto a
più voci, si renderebbero conto che il “rinascimento nucleare”, come
qualcuno ama definirlo, è tutt’altro che auspicabile, e che dietro lo
sbandierato ottimismo di Scajola l’avventura nucleare nasconde rischi,
costi, tempi lunghi e problemi insoluti che sconsiglierebbero l’imbarco
sul Titanic atomico e indurrebbero a puntare con decisione su soluzioni
energetiche pulite e durature.
IL “RI NASCIME NTO NUCLEARE ” ITALIA NO
Scajola ha aperto la campagna dell’atomo, prontamente seguito da
altri esponenti politici e del mondo scientifico e industriale. Ad oggi,
non è ancor chiaro, però, con quali modalità si proporrà il rinascimento
nucleare italiano. Entro fine 2008 era prevista la Conferenza
Nazionale Energia e Ambiente, che avrebbe dovuto sciogliere i dubbi,
ma l’appuntamento anche stavolta è stato rinviato.
Intanto, ENEL ha presentato un suo piano, nel quale prevede la costruzione
di 4 o 5 centrali da 1.000/1.800 MW, per una potenza complessiva,
nel 2020, di 6.000 MW, pari al 10% dei consumi nazionali. Il costo
preventivato è di 3 / 3,5 miliardi di euro a centrale, per un importo
complessivo di circa 14 miliardi di euro. Una cifra notevole, tanto più
per un ente, l’ENEL, indebitato per 60 miliardi (è troppo da maligni
pensare che la società intenda sanare i suoi debiti proprio grazie agli
aiuti pubblici per il nucleare?). Ancora più ambizioso è il progetto di
Edison, che punta a 5 / 10 centrali, per un costo compreso tra i 20 e
di 40 miliardi (ma che l’agenzia di rating Moody’s ritiene più credibile
debba essere portato a 30/70 miliardi).
Come soluzione per reperire i fondi, si pensa ad un consorzio tra gli
operatori energetici, eventualmente con la partecipazione di grandi
consumatori quali l’industria siderurgica, del cemento, della carta.
Oppure ad un consorzio pubblico-privato. Non mancano idee più fantasiose,
come quella del pirotecnico ministro Brunetta, che di nuove
centrali ne vorrebbe 50 in tutt’Europa, e che ha proposto di utilizzare
le riserve auree depositate presso la BCE, quale garanzia: un’idea poco
in linea con gli ordinari strumenti di politica monetaria, che però rivela
l’intento di coprire con denaro pubblico l’avventura nucleare.
Quello nucleare è un business altamente costoso, che può ripagarsi
solo in tempi molto lunghi. Ma servono aiuti di Stato, stabilizzazione
dei prezzi, sicurezza sul monopolio. Proprio il contrario dell’attuale
sistema, fondato sulle liberalizzazioni. In un libero mercato, il nucleare
non trova investitori. Lo insegna l’esperienza degli Stati Uniti,
dove il mercato dell’energia è liberalizzato e le centrali sono gestite da
privati, e dove dal 1984 non si costruiscono nuove centrali, proprio
perché economicamente non conveniente. Negli ultimi anni ha provato
a rilanciare il settore Bush, con un bando per la promozione di
nuovi impianti che però è andato deserto, e si è dovuto ricorrere nel
2005 a promettere vari incentivi, come tassi agevolati, garanzie sugli
eventuali ritardi e un incentivo diretto di 1,8 cents per Kwh (Energy
Policy Act, 2005). E’ solo grazie a tali aiuti governativi che, nel 2007,
sono state avanzate 4 nuove domande di ammissione, le prime dopo
oltre 30 anni.
Anche in Italia, il nucleare potrà affermarsi solo tramite l’intervento
pubblico. Un’idea che violerebbe le regole del libero mercato, ma che
consentirebbe di scaricare parte delle spese sui cittadini e favorire i
profitti per le imprese. Del resto, l’Italia è il paese dove la maggior
parte dei contribuiti alla rinnovabili, i cosiddetti CIP6, è finita agli
inceneritori. Nulla di sorprendente, quindi, se anche il nucleare finisse
per godere degli incentivi all’energia verde.
Poca chiarezza c’è anche sulla tecnologia degli impianti da realizzare.
Con una notevole dose di leggerezza e approssimazione, si promettono
gli impianti più moderni, più sicuri, più efficienti. Il richiamo,
soprattutto nelle rassicurazioni dei politici, è spesso al nucleare di IV
generazione, da cui si attendono meraviglie.
In realtà, allo stato attuale, l’unica tecnologia praticabile è quella
dei reattori di III generazione, come l’EPR. Nati a fine anni ‘80, sulla
scorta degli incidenti di Three Miles Island e Chernobyl, tali reattori
sono detti anche evolutivi in quanto costituiscono una semplice evoluzione
di quelli della II generazione (cui apparteneva l’impianto di
Chernobyl).
Per la IV Generazione, di cui si promette maggiore efficienza e sicurezza,
nonché la possibilità di recuperare le stesse scorie, bisognerà
attendere almeno 25-35 anni. Il premio Nobel Rubbia consiglia di
aspettare, per non investire su una tecnologia che appena entrata in
funzione sarà già obsoleta.
I soggetti interessati (ENEL, Edison, ENEA) premono invece per la III
generazione: meglio far subito, altrimenti l’affare potrebbe sfumare!
Così preferiscono venderci una tecnologia che ha gli anni contati. Ma,
al quel punto, non è detto che si passerà alla IV generazione: già oggi
si preferisce allungare la vita degli impianti (fino a 50-60 anni), anziché
costruirne di nuovi, per ottenere il massimo beneficio dall’investimento.
Sicché è facile prevedere una lunga vita per le centrali di III Generazione,
nonostante il prossimo passaggio a tecnologie più moderne!
TEM PI
Il rilancio del nucleare nasce dalla necessità – ci dicono – di assicurare
la diversificazione delle fonti energetiche e di ridurre così il peso degli
idrocarburi e delle importazioni. Ciò al duplice scopo di alleggerire la
bilancia energetica nazionale (dipendiamo per l’85% del fabbisogno
dall’estero) e di contribuire al rispetto degli impegni di riduzione delle
emissioni di gas serra.
Ben venga, dopo anni di totale disattenzione della classe politica sulle
politiche energetiche (anni durante i quali le emissioni, anziché diminuire,
sono gravemente aumentate, così come è aumentata la nostra
dipendenza dall’estero) la volontà di farsi carico del problema.
Quella nucleare, però, è una soluzione dai tempi lunghi, mentre i
problemi d’approvvigionamento e diversificazione appartengono già
al presente. Scajola ha fretta, vuole posare la prima pietra entro la
fine delle legislatura e indica tempi nell’ordine di 7-8 anni. Tale tempistica
non trova però conferme negli addetti ai lavori: l’ENEL spalma
il suo piano su 14 anni, l’ENEA preferisce ipotizzare scenari lunghi,
prevedendo il pieno regime solo intorno al 2030. L’IEA (International
Energy Agency), dal canto suo, prevede un periodo di 7-15 anni per
i paesi che abbiano l’intera filiera nucleare, e tempi consistentemente
più lunghi per chi, invece, come l’Italia, non ha più la “struttura”. Il
precedente della centrale finlandese di Olkiluoto, l’unica in costruzione
in Europa, del resto, invita alla calma: tra progettazione e costruzione
passeranno 14 anni. Doveva essere un esempio di velocità, oggi, a
metà dei lavori, conta già due anni di ritardo e costi aumentati del
50% rispetto al preventivato. Dispiace per gli annunci di Scajola, ma
con tali precedenti è da escludere che l’Italia riesca a ridurre i tempi
sotto gli standard mondiali, salvo che voglia ricorrere a “italianissime”
quanto pericolose “semplificazioni”, magari sui controlli e le garanzie
del procedimento!
Nel frattempo, l’emergenza energetica si accentuerà. Con il petrolio
che potrebbe arrivare a 200 dollari il barile, e le emissioni di CO2
che anziché diminuire aumentano. Servono soluzioni rapide, non
saranno le promesse dei politici a farci uscire dall’urgenza energetica
e ambientale.
CO STI
“Sì, ma con il nucleare l’energia costerebbe meno”. Tale affermazione,
divulgata con assoluta certezza dal fronte nuclearista, costituisce,
in una società che pone al primo valore la convenienza spicciola ed
immediata, l’argomento più usato e convincente a favore del nucleare.
Un argomento indubbiamente capace di far breccia nell’animo di tutti
i consumatori, da Confindustria alle famiglie, e di creare un clima
emotivo di favore verso la svolta nucleare.
Intanto, una doverosa premessa sulla questione costi. Per quanto impopolare,
è bene ricordare che un più basso prezzo dell’energia costituisce
anche un netto disincentivo a forme di risparmio e ad investimenti per
migliorare l’efficienza energetica. In fin dei conti, se oggi si arranca
dietro il rincaro continuo del prezzo del petrolio, dipende proprio dal
fatto che tale fonte è rimasta per anni troppo economica, e ciò ha
determinato una sostanziale disattenzione verso tecnologie di risparmio
e approvvigionamenti alternativi. L’energia, comunque ottenuta
(rinnovabile, fonte fossile, nucleare) costituisce una risorsa limitata, da
usare con parsimonia. Più che ridurne i costi, dovremmo cominciare
a ragionare in termini di riduzione dei consumi. Risparmieremmo lo
stesso i soldi, ma con beneficio dell’intero sistema. I cittadini vanno
incoraggiati ad adottare misure di efficienza energetica (e, perché
no? di maggior sobrietà) che riducano il consumo, più che il costo
dell’energia. E al piagnisteo di Confindustria, che lamenta i costi
eccessivi per l’energia per le sue aziende e reclama il nucleare, ci piace
contrapporre esempi come quello della tedesca Solvis, che lavorando
sulla massima riduzione dei consumi, rappresenta oggi la più grande
fabbrica europea ad emissioni zero, completamente alimentata da fonti
rinnovabili. Senz’altro una lezione da apprendere, per Marcegaglia e il
capitalismo italiano assistito.
Fatta questa premessa, va però smontata la stessa tesi che con nuove
centrali atomiche pagheremo meno cara l’elettricità.
Negli ultimi decenni, il settore nucleare ha vissuto uno stato di stagnazione,
proprio a causa della minor convenienza economica. Ancora nel
2003, uno studio del MIT (Massachusetts Institute of Technology) concludeva
per la non competitività, in un’economia di mercato, dell’energia
nucleare negli USA, il paese al mondo con il maggior numero di
centrali. Solo confidando in una sostanziale riduzione dei prezzi e
tempi di costruzione e manutenzione, o introducendo una tassa ecologica,
sarebbe stato possibile rendere più competitivo il nucleare (MIT,
The future of nuclear power, 2003).
Oggi, con l’aumento del prezzo del petrolio e la fame di energia, crescono
le attenzioni verso il nucleare. A crescere, tuttavia, sono anche i
suoi costi: impennata dell’uranio, aumento dei costi di costruzione
e per la messa in sicurezza nonché la situazione di oligopolio stanno
determinando un continuo aumento dei costi complessivi del nucleare.
La centrale finlandese di Olkiluoto, che doveva costare 2,5 miliardi di
euro, è già a quota 4 miliardi, e i lavori ancora non sono finiti.
Una nuova stima del DOE, il Dipartimento USA per l’energia, pubblicata
nel 2007, conferma ancora per il 2015 il più alto costo della produzione
di elettricità da energia nucleare (63,32 $/kWh) rispetto al carbone e il
gas, che può essere compensata solo da incentivi pubblici.
In realtà, il costo del nucleare dipende da una serie di fattori. Dipende
dal costo della materia prima, l’uranio (e qui, nonostante l’abnorme
rialzo del prezzo, il nucleare si rivela più conveniente di gas e carbone,
ma non certo delle rinnovabili, in cui la materia prima è del
tutto gratuita); ma dipende sopratutto dai costi di costruzione, dalla
proprietà sulla tecnologia, dalla manutenzione, dalla definitiva messa
in sicurezza (fase, quest’ultima, che si tende a trascurare).
Parte di questi costi è di “sistema”, per cui si abbatte se aumenta il
numero degli impianti. La Francia, ad es., con i suoi 59 reattori, può
permettersi economie di scala (senza dimenticare che l’AREVA, per
l’87% a capitale pubblico, è leader mondiale in tutte le fasi del ciclo
nucleare, dalla produzione dell’uranio alla costruzione delle centrali, al
riprocessamento e la gestione dei rifiuti).
L’Italia non ha né un “sistema”, né posizioni strategiche nel settore. E
non ha neanche il controllo pubblico del settore, che è poi quello che
assicura in Francia un costo dell’energia più basso (la Germania, che
pure si affida al nucleare per ¼ dei suoi consumi, ha un costo 2,5 volte
superiore a quello francese). Se verranno realizzate le centrali italiane,
è altamente improbabile che il costo dell’energia per il consumatore
finale si abbatterà. Gli investitori privati intendono fare profitti, e in
un regime di sostanziale monopolio non sono costretti a tenere i prezzi
più bassi. Favori saranno concessi alle industrie energivore chiamate a
partecipare all’investimento (già oggi si parla di tariffe concordate), ma
gli utenti normali (i comuni cittadini che si illudono di poter accendere
i loro elettrodomestici a prezzi più bassi) dovranno pagare per intero
sulla bolletta i costi ed i profitti dell’avventura nucleare.
E’ comunque il caso di precisare che per valutare correttamente il calcolo
di un kWh nucleare, sarebbe necessario ricorrere alla Valutazione
del Ciclo di Vita (Life Cycle Assessment), che tiene in considerazione,
appunto, l’intero ciclo, dall’estrazione della materia prima fino allo
smantellamento ultimo degli impianti e la sistemazione delle scorie.
Bisogna coprire, cioè, un periodo che va dai 100 ai 150 anni, durante i
quali sarebbe necessario conoscere quanto costerà, anno per anno, raffreddare,
ritrattare, confinare il combustibile esausto anno per anno e
quanto, successivamente, il decommissioning, lo smantellamento definitivo
della centrale e la bonifica del luogo (Sergio Zabot, Nel calcolo
dei costi non sono valutare le ricadute esterne, su Valori, n. 59, maggio
2008). Il caso del Regno Unito mostra la difficoltà di fare previsioni
per il futuro. Nel 2006, la Nuclear Decomissioning Authority, incaricata
di gestire lo smantellamento delle centrali britanniche più antiquate,
stimò un periodo di 130 anni ed una spesa di 53 miliardi di sterline;
già nel 2008, la stima è salita a 83 miliardi (circa 104 miliardi di euro)
a causa dell’aumento delle spese di ingegneria e per la sicurezza. Di
questo passo, prevedere quali cifre potranno esser raggiunte tra 130
anni è pressoché impossibile, ma la tendenza in atto garantisce che si
tratterà di cifre astronomiche.
Così come andrebbero calcolate le esternalità, i danni collaterali che
la produzione di quell’energia può produrre, compresi eventuali disastri
(un’eventualità – per inciso – che alcuna compagnia assicuratrice
intende coprire). Costi invece del tutto assenti nelle previsioni di chi ci
propone il rinascimento nucleare.
L’URA NIO
L’uranio, la materia prima per le centrali, non è infinito. L’ultimo rapporto
dell’IAEA, l’International Atomic Energy Agency, stima in 5,5
milioni di tonnellate (MtU) le risorse mondiali disponibili di uranio;
con tale disponibilità, allo stato dei consumi del 2006, si potrebbero
coprire circa 100 anni (IAEA, Nuclear Technology Review 2008). Un
rilancio del nucleare su grande scala, con il numero delle centrali raddoppiate
o triplicate, quindi, inevitabilmente ridurrebbe i tempi dell’era
nucleare: tra 50 anni, o anche 30, il mondo sarebbe di nuovo di fronte
alla situazione attuale, con l’esaurirsi di un ciclo (come oggi quello del
petrolio) e l’esigenza di trovare alternative energetiche. L’IAEA stima,
sì, che ci siano ulteriori risorse, ma al momento il loro utilizzo è improponibile
per le difficoltà estrattive e gli alti costi.
Di fronte a tale dato, lascia esterrefatti l’annuncio lanciato da
Berlusconi all’ultimo G8 di Toyako. Rilevato il fallimento del vertice
in materia di riduzione delle emissioni inquinanti (per la solita ritrosia
ad accollarsi le proprie responsabilità da parte degli USA e dei giganti
emergenti, Cina e India in testa), il Cavaliere ha spiegato il proposito
di “anticipare il passaggio dalla società dei combustibili fossili a quella
delle fonti energetiche alternative e basate sul nucleare” attraverso
il mega progetto di costruire oltre 1.000 nuove centrali nucleari nel
mondo. Il piano, a dir la verità, viene da Sarkozy e Brown che intendono
far fruttare la posizione dominante delle loro aziende nazionali,
ma, visto che si parla di grossi affari, anche l’Italia spera di rientrarvi.
Con 1.000 nuove centrali, tuttavia, le risorse di uranio basteranno si
è no fino al 2040: giusto il tempo di inaugurarle, e si potrà chiuderle
per mancanza di materia prima. Un grosso affare per le aziende che le
avranno costruite, molto meno per chi le ha commissionate.
La limitatezza della risorsa uranio e soprattutto la sua concentrazione
nelle mani di pochi produttori (il 92% della produzione mondiale di
uranio è concentrato in 8 paesi, Canada e Australia in testa) ne hanno
fatto inoltre lievitare enormemente i costi. Negli ultimi 4 anni, l’aumento
è stato del 1.300%, passando dai 10,15 $/libbra del 2003 ai
135 di metà 2007, ed è facile prevedere che la tendenza all’aumento
continuerà. Dipendere dall’uranio, anziché dal petrolio, evidentemente
non salva dalle speculazioni finanziarie.
L’Italia, dal canto suo, non produce uranio, per cui la sua dipendenza
dall’estero, economica e strategica, per la materia prima continuerà.
LOCALIZZAZIO NE DEGLI IM PIA NTI
Dove sorgeranno le nuove centrali? Il problema localizzazione è
senz’altro uno dei nodi più spinosi da sciogliere. Agli italiani possono
anche far credere che il ritorno al nucleare è indispensabile, ma da qui
ad accettarlo sotto casa… il cammino sarà duro.
A oltre 5 anni dalle proteste di Scanzano Ionico, non è stato ancora
individuato il nuovo deposito di scorie nazionali, che continuano
a sostare nei vari depositi provvisori. La protesta delle popolazioni
lucane, nel 2003, fece fallire il tentativo di addossare a quel piccolo
centro lo scomodo fardello dell’avventura nucleare italiana. Ora lo
stesso Governo Berlusconi, che allora ritirò la sua decisione, rilancia,
cercando località pronte ad accettare centrali e depositi.
Il Governo promette incentivi e agevolazioni ai comuni che ospiteranno
gli impianti. Ma insieme alla carota, è anche pronto il bastone, con
il pugno duro contro le possibili proteste di cittadini già sperimentato
nella questione rifiuti in Campania. Dalla sua, il ministro Scajola ha
anche un ultimo regalino del governo Prodi, la possibilità di calare
il silenzio sugli impianti in questione. Già dimissionario (e quindi
legittimato ai soli atti di ordinaria amministrazione non derogabili) il
precedente governo di centrosinistra ha pensato bene di lasciare agli
italiani un regolamento sul segreto di Stato che include, tra i segreti
nazionali, anche gli impianti civili per la produzione di energia (DPCM,
8 aprile 2008, pubblicato su G.U. 16 aprile 2008, n. 90).
Aspettiamo di conoscere i criteri per la scelta dei siti. I posti più a
rischio sono quelli che già ospitarono le centrali: Montalto, Caorso,
Trino Vercellese. Servono luoghi poco popolati, vicini a corsi d’acqua,
sismicamente stabili. Ma bisognerà affrontare le popolazioni locali…
Non ignorando le difficoltà interne, si persegue anche l’opzione “delocalizzazione”
all’estero. Lanciata dal ministro Tremonti, che sarà pure
un critico della globalizzazione, ma che stavolta non intende rinunciare
al vantaggio di esportare rischi e fastidi fuori dei confini nazionali,
l’idea è di costruire le centrali in stati vicini: Albania e Montenegro,
forse anche Malta, dove si conta probabilmente su procedure più semplici
e minor resistenze delle popolazioni locali. Un brutto esempio
di sfruttamento, curiosamente in linea con il tanto denigrato effetto
nimby (not in my backyard, non nel mio giardino).
In realtà, il governo sa bene che se anche i sondaggi possono registrare
una percentuale crescente di adesioni al nucleare (frutto – è il caso di
ripeterlo - di un’informazione superficiale e pilotata), ben pochi sono
coloro che sarebbero disposti a convivere con una centrale vicino casa.
La memoria di Chernobyl forse è lontana, ma dubitiamo che gli italiani
desiderino vedere dalle loro finestre di casa il poco rassicurante profilo
di un reattore nucleare.
Del resto, la sfilza di incidenti registrata nei soli ultimi mesi (da quando,
a causa del rinato interesse per l’argomento, c’è più attenzione su
ciò che succede negli impianti nel mondo) dovrebbe aver ravvivato la
memoria sui rischi legati alla vicinanza ad un impianto nucleare. Una
nuova Chernobyl, certo, produrrebbe i suoi effetti a grande distanza,
superando di gran lunga i confini di regioni e Stati. Ma non ci sono
solo grandi disastri: legati al nucleare possono esserci anche contaminazioni
minori, che colpiscono innanzitutto le zone e le popolazioni
più vicine. L’incidente di Krsko, in Slovenia, ai primi dello scorso giugno,
ha messo in allarme innanzitutto le regioni più vicine: il Friuli, la
Carinzia, la Croazia, le prime e le più esposte nel caso di contaminazione.
Così come per le fuoriuscite di uranio dalla centrale francese di
Tricastin nella scorsa estate, sono gli abitanti dei comuni vicini a vivere
senz’acqua (proibito berla o usarla per l’irrigazione). Dimostrando
tra l’altro la pochezza argomentativa di quanti obiettano che se anche
in Italia non abbiamo centrali, tanto le abbiamo ai nostri confini: c’è
una grossa differenza tra vivere a 100, a 500 o 1.000 chilometri da un
impianto, in quanto gli effetti di un incidente, più o meno gravi, si
riverserebbero in primo luogo nel raggio più vicino alla centrale.
SCORIE
E’ uno dei problemi più gravosi ed insoluti. Troppo spesso sottovalutato,
in quanto ritenuto non immediato e rinviabile al futuro (il deprecato
effetto nimg, not in my generation).
Un impianto nucleare produce rifiuti che richiedono tempi lunghissimi
di smaltimento, dai 300 anni dei rifiuti a bassa attività ai 300mila delle
scorie altamente radioattive. C’è bisogno di siti, quindi, che assicurino
un tranquillo stoccaggio attraverso i secoli, al riparo da sconvolgimenti
naturali (terremoti, alluvioni…) o umani (guerre, terrorismo).
Ad oggi, nessun paese al mondo ha ancora realizzato un suo deposito
definitivo. Gli Stati Uniti, che hanno il maggior quantitativo di rifiuti
radioattivi, hanno individuato il sito nella Yucca Mountain, in Nevada,
a 150 chilometri da Las Vegas. Il sito sarebbe una gigantesca fortezza,
un intrigo di gallerie superprotette scavate nella montagna. Il solo
progetto è costato 7 miliardi di dollari, la sua realizzazione ne richiederebbe
altri 58. Spaventati dai costi, gli americani ancora non iniziano
la sua costruzione, e discutono sull’utilità stessa di un deposito unico.
In Italia, l’eredità nucleare ci ha lasciato 8mila metri cubi di rifiuti
altamente radioattivi, più altri 50mila di scorie “minori” (tra questi
anche i rifiuti dell’attività ospedaliera). Quando non finiscono nelle
discariche ordinarie (ricordate i camion con rifiuti radioattivi fermati
dall’esercito nelle discariche campane?), vengono stoccati in siti provvisori,
o portati temporaneamente all’estero (Francia e Regno Unito)
per il riprocessamento. Ad occuparsi dei rifiuti è la Sogin, società a
capitale pubblico.
A pagare il decomissioning, quindi, siamo noi. Nel 1998, l’ENEL, per
entrare in borsa, tagliò i cosiddetti rami secchi ed esternalizzò il suo
ufficio nucleare. Fu costituita appunto la Sogin, società acquistata al
100% dal Ministero Economia e Finanze, con il compito di smantellare
il sistema nucleare italiano. Tra il 2000 ed il 2006 la Sogin ha speso
676 milioni di euro, ottenendo un misero 6% di avanzamento lavori
(8% a fine 2007). I soldi vengono direttamente dalla bolletta elettrica
degli italiani, componente A2, che ha fruttato nel 2007 520 milioni di
euro. Insomma, il costo dell’avventura nucleare del passato è a carico
degli italiani, mentre l’ENEL, liberatasi delle passività, punta a nuovi
profitti per i suoi azionisti e ha pure il coraggio di promuovere oggi
nuove centrali.
Come deposito unico, archiviata nel 2003 l’ipotesi di Scanzano, resta
ora da individuare il nuovo sito disposto ad ospitare i rifiuti contaminati.
Impresa da realizzare quanto prima, anche per evitare possibili
disastri, come quello sfiorato nel 2000 a Saluggia, Qui, il deposito
provvisorio, che conserva il 65% dei rifiuti nazionali e che sorge in
una conca sulla Dora Baltea, fu a rischio alluvione: ancora pochi centimetri,
come denunciato all’epoca da Carlo Rubbia, e la Dora avrebbe
inondato la struttura, provocando la contaminazione dell’intero bacino
del Po fino all’Adriatico. Una catastrofe a livello di Chernobyl, per poco
evitata.
La consapevolezza del problema c’è. Il grave rischio è che poiché i
rifiuti non producono profitti ma alti costi, la soluzione venga rinviata
sine die. Un atteggiamento irresponsabile, certo, ma che non può
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essere escluso. Visti anche i preoccupanti suggerimenti che i nostri
parlamentari ricevono: lo scorso luglio è stato pubblicato, a cura del
Servizio Studi del Senato, un dossier dal titolo Energia nucleare: ritorno
al futuro?, nel quale, riconosciuta la necessità di un deposito di
profondità per conservare adeguatamente le scorie ad alta radioattività,
si conclude che “il loro quantitativo non è tale da giustificare, allo
stato attuale, l’avvio di un programma per la predisposizione in Italia
di un deposito in profondità, con costi dell’ordine di miliardi di euro e
tempi di realizzazione valutabili in decenni” e si confida semmai nella
soluzione di un deposito geologico internazionale (dossier Energia
nucleare: ritorno al futuro?, luglio 2008, pubblicato a cura del Servizio
Studi del Senato). Una candida ammissione dei costi e dei tempi che
il nucleare richiede, che, invece di far riflettere e raffreddare gli entusiasmi
nuclearisti, viene liquidata con una sconcertante accoppiata di
effetto nimg ed effetto nimby, che la dice lunga sul senso di responsabilità
con cui si intende riavviare l’avventura nucleare in Italia. Se
è su queste basi che i nostri senatori formeranno la loro opinione per
votare il ritorno al nucleare…
RI SCHI
Incidenti della portata di Chernobyl fortunatamente non si sono più
ripetuti. Ma se anche da quel tragico 26 aprile 1986 non si sono verificati
disastri, negli anni abbiamo assistito ad uno stillicidio di incidenti
più o meno rilevanti in Giappone, Spagna, Gran Bretagna, Francia
ecc, fino ad arrivare ai più recenti allarmi di Krsko (SLO) e Tricastin
(F). Incidenti non sempre tempestivamente resi noti, anzi, a volte sono
strascorsi mesi prima che ne filtrasse notizia. Quello della trasparenza,
in effetti, è un aspetto preoccupante. Anche perché resiste tutt’oggi
uno sciagurato accordo del 1959, secondo cui l’OMS, l’organizzazione
mondiale della Salute, non può pubblicare alcun rapporto sugli effetti
sanitari del nucleare senza l’avallo dell’IAEA, l’Agenzia Internazionale
per l’Energia Atomica.
I numerosi incidenti stanno comunque lì a dimostrare la possibilità
di errori umani e fughe di materiali radioattivi. Seppur non si tratta
di nuove Chernobyl, resta il fatto che con il nucleare non siamo nella
logica del rischio zero ma in quella della probabilità. L’incidente grave
non è escluso, ma rientra nel calcolo delle probabilità statistiche: “una
su un milione”, rassicura Roberto Mezzanotte, responsabile scientifico
del dipartimento nucleare dell’APAT (Il Sole24ore, 18 luglio 2008). Una
lotteria, insomma, o meglio una roulette russa, in cui ad esser fortunati
non accadrà nulla, ma a non esserlo …
Da valutare, anche il rischio terrorismo. In tempi di guerre globali
e attentati internazionali, non è solo roba da Hollywood pensare a
spettacolari attacchi contro obiettivi atomici. Una prospettiva terribile,
senz’altro facilitata da una proliferazione del nucleare a livello mondiale,
con il moltiplicarsi di traffici di uranio e scorie, di depositi più o
meno controllati, di mercanti d’uranio.
Senza dimenticare le complessità politiche derivanti da una proliferazione
mondiale delle centrali nucleari. Una volta riaperta la corsa
all’atomo, chi deciderà quali Stati possono parteciparvi e quali no? Chi
può dotarsi di tecnologia nucleare (utilizzabile anche per scopi militari,
il passo è breve) e chi non può? Il caso Iran è eloquente, e mostra la
pericolosità, anche politica e militare, di un “rinascimento nucleare”
nel mondo.
Il NUCLEARE E’ ECOLOGICO ?
Ironia della sorte (o, meglio, bugie della politica), negli ultimi anni il
nucleare, bestia nera dell’ambientalismo, viene fatto passare per energia
pulita. Il fatto che sia carbon free, che non produca gas serra, lo
arruolerebbe tra gli strumenti imprescindibili per combattere il riscaldamento
del pianeta. Idea portata avanti anche da un ambientalista
doc come James Lovelock, l’autore della cd. ipotesi Gaia, che vede nel
nucleare la sola salvezza.
Si tratta tuttavia di un’illusione e di calcoli errati. Quella nucleare non
è energia pulita, e non solo per i problemi legati ai rischi di contaminazione
radioattiva. In realtà è proprio l’apporto alla riduzione delle
emissioni che risulta modesto. Certo, il nucleare non produce direttamente
CO2 (però l’intera filiera sì, per via dei materiali richiesti e dei
vari processi di estrazione, produzione, stoccaggio, riprocessamento),
ma contribuisce solo in piccola parte ad affrontare il problema delle
emissioni a livello mondiale. Secondo un calcolo di Greenpeace, anche
raddoppiando entro il 2030 i 439 reattori oggi in funzione nel mondo,
si otterrebbe un abbattimento di meno del 5% delle emissioni, con una
spesa tra i 1.000 ed i 2.000 miliardi di euro. Un risultato davvero minimo,
a fronte di ingenti investimenti che darebbero migliori risultati se
dirottati su rinnovabili ed efficienza energetica. Il problema è che il
nucleare produce solo elettricità, e non incide nei due grandi settori
dei trasporti e del riscaldamento, che determinano insieme, all’incirca,
i 2/3 delle emissioni di CO2. Il grande calore prodotto dalle centrali
viene poi totalmente disperso (non esiste cogenerazione).
Il ridotto apporto del nucleare alla lotta al riscaldamento del pianeta
trova conferma, per l’Italia, anche nel Rapporto Energia e Ambiente
2007, pubblicato dall’ENEA, nel quale si prevede (scenario al 2020) un
contributo delle centrali atomiche alla riduzione nella produzione di
emissioni di CO2 del 6% (e del 10% nel 2040), mentre il solo migliora-
mento dell’efficienza energetica negli usi finali consentirebbe già nel
2020 una riduzione del 45% delle emissioni e un risparmio in bolletta
di 5 miliardi di euro l’anno.
Meglio poco che niente? Niente affatto. Perché, a fronte di un così
limitato apporto alla riduzione delle emissioni, il nucleare richiede
costi enormi. Risorse che invece potrebbero essere dirottate verso soluzioni
ambientali ben più efficaci e immediate, con maggior vantaggio
nella lotta ai cambiamenti climatici.
CO NTRO RI NNOVABILI E RI SPARMIO ENERGETICO
Il nucleare, per comune ammissione, è una “tecnologia di transizione”.
Cui si ricorre per affrontare l’imminente fine dell’era del petrolio, in
attesa che vengano sviluppate quanto prima nuove fonti (idrogeno, le
rinnovabili…) in grado di assicurare l’energia di cui il mondo ha bisogno.
Il problema è che per realizzarlo sono necessari costi elevatissimi
e ciò significa necessariamente distogliere risorse economiche e della
ricerca dagli altri settori energetici. La tecnologia nucleare ritarda
quindi la transizione verso altre fonti, più pulite. Un errore strategico
enorme, una visione gravemente miope.
Esemplare è il caso della ricerca scientifica. Da decenni la maggior
parte dei finanziamenti finisce alla ricerca atomica (che tra fusione e
fissione riceve più della metà dei fondi), riservando solo le briciole ad
altre alternative, in particolare alle rinnovabili (appena il 10%).
Per non attardarsi su una tecnologia dai decenni contati, altre nazioni,
che pur ne dipendono concretamente per il loro fabbisogno, hanno
deciso di abbandonarla. Spagna e Germania, soprattutto, che chiuderanno
tutti gli impianti entro, rispettivamente, il 2011 e il 2020.
Puntando, con maggior decisione, sulle rinnovabili. Già oggi, le due
nazioni sono ai vertici mondiali nella produzione di energia rinnovabile
da eolico e solare. Assicurandosi non solo energia pulita, ma anche
competitività delle loro aziende, un fatturato in continua espansione
(oltre 148 miliardi di nuovi investimenti nel mondo nel 2007, il 6% in
più del 2006), la possibilità di vendere in tutto il mondo e occupazione
diffusa (in Germania sono 130mila gli addetti al settore delle rinnovabili).
Valorizzando un settore, quello delle rinnovabili, i cui costi
per unità energetica prodotta sono in continuo calo, mentre quelli del
nucleare sono in continua ascesa.
L’Italia, che nell’ultimo anno ha registrato un calo, in termini netti e
percentuali, nella produzione di energia da fonti rinnovabili, non può
permettersi ulteriori ritardi nello sviluppo dell’energia pulita.
In un appello contro il nucleare promosso da Vincenzo Balzani, ordinario
di Chimica all’Università di Bologna, e sottoscritto già da 1.200
docenti e ricercatori universitari, si ricorda come il sole sia una “stazione
di servizio” inesauribile, che ogni giorno invia energia in quantità
10mila volte superiore all’intero fabbisogno mondiale (l’appello può
essere sottoscritto sul sito
www.energiaperilfuturo.it ).
Occorre puntare sul sole (come anche sulle altre fonti rinnovabili),
senza sprecare risorse e tempo su fonti antiquate e dalla corta durata.
UNA TEC NOLOGIA VECHIA
L’alternativa tra nucleare e fonti rinnovabili non è solo una scelta tra due
modi d’approvvigionamento d’energia. Vi è una differenza strategica, che
investe il tipo stesso di società ed i rapporti economici e di potere.
Con il nucleare non si sceglie soltanto la via più costosa, vecchia, pericolosa,
dai tempi lunghi e dalla durata breve. Si sceglie anche la via delle mega
strutture, dei grandi finanziamenti, delle opere costose e centralizzate. Si
torna al controllo dell’energia in poche mani, ai monopoli o agli oligopoli:
si tratti dello Stato, come nel modello italiano pre-referendum o in quello
francese, si tratti di società private, il nucleare rimette l’energia, la ricerca,
le tecnologie, i proventi, nelle mani di pochi, grandi soggetti. Tutto il contrario
delle fonti rinnovabili e del modello distribuito, che consente piccoli
impianti locali, collegati in rete, e tecnologie open source.
Non è un caso che in Europa aumentino rinnovabili e risparmio energetico
e cali il ricorso all’energia nucleare (negli ultimi due anni è diminuita
del 6,4%), mentre l’atomo si afferma nei paesi non OCSE, soprattutto
in Asia, dove prevalgono modelli energivori e centralizzati.
Di mezzo è la stessa libertà, con popolazioni sovrane che producono e
controllano l’energia di cui hanno bisogno e popolazioni dipendenti dai
colossi dell’industria nucleare e dalle speculazioni.
E non è azzardato vedere nelle pressioni pro-nucleare dei giganti della
lobby energetica proprio il tentativo di riaffermare il proprio controllo su
un terreno che rischiano di vedersi sottratto da sotto i piedi.
C’è anche un altro motivo, infine, per cui il nucleare appartiene al passato.
Con esso, si rimane nella logica dell’irresponsabilità, del carico sulle
generazioni future di impegni assunti da quelle odierne. La soluzione del
problema energia, come le scorie o eventuali rischi, vengono messi in
carico ai nostri figli e nipoti (non c’è bisogno di andare troppo lontano
con la discendenza: i nodi verranno al pettine molto presto!). Per ora si
consuma, poi, chi verrà, vedrà come fare. E’ la stessa cultura distruttiva
e predatoria che ha caratterizzato la fase fossile e che ci ha portato
all’esaurimento di risorse millenarie e al riscaldamento del pianeta.
La consapevolezza della limitatezza delle risorse della terra, l’acquisizione
del concetto del limite, dovrebbero portarci fuori del nucleare,
facendoci carico per l’intero delle nostre scelte, senza il lascito di pesanti
eredità ai posteri. I quali, semmai, dovrebbero essere indirizzati verso vie
di vera sostenibilità.
Insomma, altro che i facili ottimismi di Scajola. Il rinascimento nucleare,
come amano chiamarlo, non viene dal superamento dei problemi. Rischi,
costi, scorie, scarsità della materia prima, sono ancora i punti deboli
di questa tecnologia del secolo passato. Né si tratta di una tecnologia
ecologica: ben altri vantaggi si potrebbero ottenere dirottando ricerca
e fondi a favore delle rinnovabili vere e dell’efficienza energetica. Si
intende tornare al nucleare solo perché il petrolio comincia a scarseggiare,
i suoi costi aumentano e non esistono al momento fonti alternative in
grado di soddisfare una domanda sempre crescente di energia. Il sistema
deve alimentarsi, costi quel che costi. E’ il vicolo cieco della società dello
sviluppo. Necessitare di sempre maggiori consumi per alimentare un
sistema che, contro ogni limite naturale, insegue la crescita continua e
illimitata. Una spirale perversa, che necessita incessantemente di sempre
maggiori quantità di energia, proprio come una droga.
Ma un vecchio slogan della mobilitazione antinuclearista di 20 anni,
purtroppo ancora attuale, ammoniva: per il capitalismo l’energia è la
droga, ma il nucleare è l’overdose.